Pirandello e il metateatro

Di Cristina Scarcella

Pirandello giunse al teatro per una profonda convinzione di ordine morale: era convinto, cioè, che, attraverso la rappresentazione scenica, si potesse rivelare meglio agli uomini le verità alle quali egli era dolorosamente pervenuto. 

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Pirandello e la ricerca dell'assoluto
Sei personaggi in cerca d’autore, 1921, Roma, Teatro Valle, Compagnia Dario Niccodemi. Fondo Biblioteca Museo Teatrale Siae.

Pirandello e il metateatro

Da Progetto Polymath, La necessità della comunicazione: forme del comunicare nel tempo. 

Formazione culturale e concezione della vita

La crisi dell’uomo contemporaneo trova nell’arte di Luigi Pirandello un testimone e un interprete d’eccezione. Con la sua intensa e spregiudicata attività letteraria, soprattutto nella sua produzione narrativa e drammaturgica, Pirandello compì una spietata esplorazione della condizione dell’uomo del suo tempo, del suo smarrimento, della sua dissipazione morale, della sua disperata solitudine. L’attività più intensa del Pirandello si svolse in un momento particolarmente tormentato della nostra storia, ovvero nel trentennio tra il 1900 e il 1930: un periodo confuso non soltanto sotto l’aspetto politico e sociale, ma anche sotto quello letterario.

Già negli ultimi decenni dell’Ottocento, nella letteratura e particolarmente nel teatro, si cominciò ad avvertire un senso di stanchezza e di amara delusione, che rispecchiava la situazione psicologica in cui si trovava la società borghese post – risorgimentale. Al Positivismo, che aveva esaltato l’intelletto umano in quanto capace di costruire un nuovo mondo di felicità sociale e di grande progresso, subentra il Decadentismo con la sua ansia metafisica, con il gusto dell’ignoto e dell’inconscio, con le sue incertezze e le sue contraddizioni. Pirandello può considerarsi, insieme al Pascoli e al D’Annunzio, il maggiore interprete della sensibilità espressa dal Decadentismo in Italia, proteso ad analizzare i sintomi della inquietudine che tormenta l’anima moderna, smarrita nel mistero che ci avvolge, incerta del suo divenire, presa nella morsa di leggi inesorabili regolate da una natura per lei incomprensibile.

Il Decadentismo nella sua essenza più profonda era stato volto alla esplorazione ed alla rivalutazione del subcosciente considerato come la più vera realtà dell’individuo contro la realtà fisica mutevole ed ingannatrice: la concezione della vita di Pirandello é tutta impostata su questa intuizione decadentistica della condizione dell’uomo, da cui nasce il suo atteggiamento umoristico verso gli uomini, che non sanno comprendere questa realtà che non ammette violenze dall’esterno e che invece é continuamente “offesa” dagli altri che la giudicano “ognuno a suo modo“. In un mondo dove tutto è messo in discussione l’uomo si ritrova solo e deluso, senza fede e senza fiducia. Lo sbandamento delle coscienze si ripercuote anche nella letteratura. In questo clima spirituale nasce e si sviluppa la poetica di Pirandello, uno degli interpreti più espressivi dello squilibrio dello spirito contemporaneo e il maggior drammaturgo del nostro tempo. Evidenti sono i legami dell’opera pirandelliana con l’esperienza verista. Anche i personaggi di Pirandello sono poveri derelitti, “vinti”, ma, a differenza di quelli verghiani, non sono rassegnati al proprio destino, ma anime inquiete, tormentate, pronte alla ribellione, pervase da un profondo desiderio di evasione non appena si accorgono di vivere una vita che non è la loro, perché essi sentono “la pena del vivere così “. Il dato realistico rimane indubbiamente il punto di partenza, il primo momento in cui l’autore prende contatto con la realtà umana, osservata come essa è; dice infatti Pirandello: “scrivere per fare della letteratura, per gioco dello spirito, mi par cosa stranamente vana. Le parole non mi interessano, bensì le cose“.

E’ proprio dalla osservazione delle “cose” egli sviluppa una più attenta meditazione, che tende ad andare oltre le apparenze, per penetrare nella condizione intima della vita di tanti individui e cogliere i contrasti tra l’essere e l’apparire. Per questo Pirandello sposta la sua attenzione e il suo studio dall’ambiente all’individuo, allontanandosi sempre più dal naturalismo e dal verismo, per accogliere le istanze e le inquietudini proprie del decadentismo. La realtà gli appare come qualcosa di mutevole, di vario; nulla è certo, tutto è illusione, diversa da momento a momento e da individuo a individuo. L’uomo crede di essere uno, ma in realtà non è nessuno; per chi lo osserva è centomila, in quanto assume personalità diverse secondo il concetto degli altri. La nostra vera personalità, il nostro “volto” rimangono soffocati sul nascere da una maschera che gli altri ci impongono dall’esterno e in base alla quale noi viviamo; la società incide con i suoi pregiudizi e le sue consuetudini, che finiscono per inaridire lo slancio vitale o per fare di noi personalità schematizzate e senza volto. Così conformato l’uomo non ha neppure la possibilità di conoscere se stesso: spesso infatti si sente mosso nell’agire da forze misteriose e incontrollate, che provengono dal suo subcosciente: è la vita che pulsa e ribolle sotto la maschera, nel tentativo di erompere.

“Ciò che conosciamo di noi stessi – scrive Pirandello – non è che una parte di quello che noi siamo. E tante e tante cose, in certi momenti eccezionali, noi sorprendiamo in noi stessi, percezioni, ragionamenti, stati di coscienza che sono veramente oltre i limiti relativi della nostra esistenza normale e cosciente. E’ a questo punto che nasce il dramma dell’individuo, nel momento cioè in cui egli si rende conto di vivere una vita che non è la sua e passa dal semplice “vivere” al “vedersi vivere”. Una vita simile è “una molto triste buffonata; perché abbiamo in noi, senza sapere né conoscere né perché né da chi, la necessità di ingannare di continuo noi stessi, con la spontanea creazione di una realtà la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria. Chi ha capito il gioco non riesce più ad ingannarsi; ma chi non riesce più ad ingannarsi ,non può più prendere né gusto né piacere alla vita”. Da questa situazione tragica e dolorosa dell’individuo che inutilmente tenta di infrangere la “maschera” per scoprire il “volto” nascono situazioni strane, assurde e paradossali che si incontrano nell’opera del Pirandello e in particolare nel teatro. L’impossibilità, dunque, dell’individuo e della società di fissare una verità assoluta, conduce l’uomo ad annaspare nel buio del mistero che l’avvolge, senza possibilità di raggiungere alcuna certezza.

In Pirandello è sempre viva l’amarezza di dover constatare l’incomunicabilità degli uomini fra di loro, questo dover vivere così, estranei e sconosciuti l’uno all’altro, soli nel mondo, in un continuo, inappagato ed irrealizzabile desiderio di approdo alla vita altrui, di attacco con gli altri, di comprensione ripudiata. Nasce così l’incomprensione tra noi e coloro che ci stanno attorno, poiché ognuno parla un linguaggio diverso da quello degli altri, per cui è impossibile stabilire un colloquio. Incomunicabilità, solitudine, incomprensione, aridità sono i caratteri comuni a quasi tutti i personaggi dei drammi pirandelliani. Questa posizione di disgusto e di disprezzo del mondo e della vita umana porterebbe irrimediabilmente alla follia e al suicidio, se l’uomo non tentasse in qualche modo di reagire, di trovare una soluzione agli inquietanti interrogativi che la vita gli pone.

Oltre alle correnti-madri (Decadentismo e Verismo) nell’opera pirandelliana confluiscono le esperienze più discusse di allora: la freudiana, la esistenzialistica, quella del teatro del grottesco. Secondo Freud i casi umani sono regolati da una logica sicura e matematica, ma in essi c’è sempre qualcosa che sfugge al dominio della volontà dell’uomo, ed è ciò che finisce quasi sempre col determinare gli avvenimenti. Tuttavia mentre l’uomo freudiano soggiace agli istinti incontrollati, quello pirandelliano si ribella e lotta con tutte le sue forze contro di essi, anche se per un destino avverso è costretto a soggiacervi. Una filosofia alla quale si ispirava e si ispira ancora molta della cultura contemporanea, è quella del danese Kierkegaard detta dell’esistenzialismo, che si fonda sull’esperienza, la quale ci pone di fronte alla ineluttabilità del vivere, all’angoscia dell’esistenza, alla fatalità di una legge della storia e della natura che è sempre uguale per le generazioni degli uomini. Non possiamo affermare in maniera categorica che Pirandello sia un’esistenzialista, nel senso che egli abbia aderito con tutta consapevolezza all’insegnamento del filosofo danese, ma è fuori dubbio che tanti elementi della sensibilità esistenzialistica abbiano coinciso con quell’amaro e nello stesso tempo segretamente speranzoso dialettizzare dello scrittore agrigentino. Ad influenzare l’opera pirandelliana contribuì, infine, la diffusione del teatro del grottesco, che assunse a materia delle sue migliori produzioni il dramma umano. Il teatro del grottesco vuole cogliere una situazione burlesca, quella che nasce dall’incoerenza tra quel che si è dentro e quel che si appare e si vuole apparire di fuori.

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Le opere teatrali

L’attività teatrale di Pirandello significò per il teatro italiano una svolta decisiva ed esemplare. Pirandello giunse al teatro per una profonda convinzione di ordine morale: era convinto, cioè, che, attraverso la rappresentazione scenica, si potesse rivelare meglio agli uomini le verità alle quali egli era dolorosamente pervenuto. Egli definì perciò “teatro dello specchio” tutta la sua opera, perché in essa si rappresenta la vita senza maschera, quale essa è nella sua sostanza e nella sua verità, lo spettatore, l’attore e il lettore vi si vedono come sono , come chi si guardi ad uno specchio, vi si osservano con ansia e con curiosità , spesso vi si vedono deformati dagli altri, appunto come un cattivo specchio deforma l’immagine fisica; allora si riconoscono diversi da come si erano sempre immaginati e ne restano amareggiati e preoccupati.

Il suo capolavoro, per giudizio concorde della critica, è giudicato la commedia “Sei personaggi in cerca d’autore” (1921), che è anche la maggiore opera del teatro italiano del Novecento. In essa Pirandello, riprendendo l’antico artificio del “teatro nel teatro”, dà la più complessa e riuscita rappresentazione della condizione umana quale gli si era venuta configurando e, insieme, del suo modo di intendere il rapporto tra l’arte e la vita. I sei personaggi che chiedono al capocomico di essere tratti dal limbo della loro condizione, di poter vedere rappresentato il loro dramma e che poi non si riconoscono negli attori che tentano di riviverlo, sono un po’ la cifra di tutta l’arte pirandelliana in perenne contesa con l’infida, inafferrabile realtà che sembra di continuo assoggettarla, ma ne resta in effetti profondamente lacerata. I sei personaggi incarnano ognuno una visione diversa dello stesso dramma che ogni personaggio vive con una “sua” verità inconciliabile con quella degli altri. Questo è il dramma pirandelliano della solitudine e dell’incomunicabilità che viene spiegato dal Padre quando, rivolgendosi al capocomico, gli dice: «ciascuno di noi – veda – si crede “uno” ma non è vero: è “tanti” signore, “tanti” secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi; “uno” con questo, “uno” con quello – diversissimi! E con l’illusione d’esser sempre “uno per tutti” e sempre “quest’uno” che ci crediamo in ogni nostro atto! Non è vero!».

In questo “teatro nel teatro” Pirandello non narra il dramma dei personaggi ma il loro tentativo di trovare un autore che lo rappresenti. I sei personaggi sono diversi perché ognuno di loro vive una parte diversa dello stesso dramma. Il Padre è distrutto dal rimorso per le proprie colpe; la Figliastra, vittima del Padre si vuole vendicare proprio rappresentandole e rendendole immortali sul palcoscenico. Il Figlio, sdegnato con tutti, si sente estraneo alla famiglia. La Madre vive solo per le due creaturine indifese che ha ai fianchi, le quali vivono anche loro un dramma che non si manifesta. Nell’ultima parte dell’opera vi è una contrapposizione tra realtà e finzione espressa per mezzo degli attori che, quando vedono il Giovinetto ferito, si dividono non sapendo quale è la verità. L’ultima parte e anche surreale perché la Bambina, viva, recita la propria morte. Sei personaggi in cerca d’autore è un testo teatrale, quindi Pirandello non narra i fatti ma scrive le battute e le note sceniche; non vi è dunque voce narrante e il testo è tutto in discorso diretto. L’opera pur essendo un atto unico è spezzata in tre parti poiché la vicenda si svolge in tempo reale e i cambiamenti di scena avvengono a sipario alzato; i fatti si svolgono in un pomeriggio e sono narrati in ordine cronologico ma i personaggi rievocano ricordi passati.

Questa sera si recita a soggetto, scritto da Pirandello nel 1930, fa parte, con Sei personaggi in cerca d’autore e Ciascuno a suo modo, della trilogia del “teatro nel teatro”, che rivoluzionò il modo tradizionale di recitare introducendo nuove tecniche, non limitando più l’azione degli attori al solo palcoscenico ma facendoli recitare in platea, nei palchi, nel ridotto e coinvolgendo anche il pubblico. In Questa sera si recita a soggetto viene rappresentato il conflitto tra gli attori, immedesimatisi nei personaggi, e il loro capocomico, pronto a rivoluzionare una novella per adattarla al suo modo di fare teatro. Una compagnia di attori, diretta dal capocomico Hinkfuss, deve rappresentare una novella dello stesso Pirandello che il capocomico ha reinterpretato trasformandola in un suo lavoro. Gli attori devono recitare a soggetto (cioè non imparando a memoria il copione fornito dal capocomico, ma creando loro le battute) ma quando non sono d’accordo, per protestare contro questo metodo, sbagliano volutamente e inventano scene non suggerite dal capocomico. Ciò non compromette per nulla il dramma, che ottiene successo.

L’opera rappresentata è imperniata sul dramma della gelosia, è ambientata in un paesino della Sicilia ed è tratta dalla novella “Leonora, addio“. Protagonisti sono: l’ingegnere minerario Palmiro La Croce soprannominato “Sampognetta”, la moglie signora Ignazia, oriunda di Napoli, soprannominata la “Generala” e le quattro belle figlie: Mommina, Dorina, Totina, Nenè. La famiglia, non siciliana, vive in un arretrato paese della Sicilia e non gode le simpatie dei paesani che criticano il comportamento della madre e delle figlie, considerato da loro poco serio e prendono in giro il marito, ritenuto troppo ingenuo e permissivo nei confronti delle figlie. Le ragazze sono corteggiate da quattro giovani ufficiali che frequentano, con grande scandalo della gente del luogo, la loro casa. Una sera “Sampognetta”, mentre si trova al cabaret, dove i maldicenti dicono che vada perché innamorato della cantante, è vittima di un pesante scherzo da parte di uno degli avventori proprio mentre stanno passando sua moglie e le sue figlie con i relativi corteggiatori che, per difenderlo, litigano con tutti; la moglie ordina al marito di tornare a casa e loro proseguono per il teatro perché sono appassionate di opera lirica. Sampognetta, gravemente ferito, viene portato a casa dalla cantante e da un avventore del cabaret e muore. In seguito alla sua morte la famiglia cade in miseria. Rico Verri sposa Mommina anche se, da siciliano, è terribilmente geloso del passato della ragazza, che ritiene poco seria, proprio come le sorelle; queste, invece, con la madre si allontanano dal paese. Riescono però a fare fortuna perché Totina diventa cantante lirica e raggiungono così una certa agiatezza. Mommina invece vive segregata in casa con le due bambine a causa della folle gelosia del marito. Un giorno rivede le sorelle e la madre che sono tornate in paese perché Totina deve cantare al teatro interpretando la parte di Leonora nel “Trovatore”. Mommina, apprendendo che la sorella è diventata cantante, decide di cantare a sua volta per le figlie il “Trovatore” che anche lei cantava prima di sposarsi. Prima descrive minuziosamente com’è il teatro e poi comincia a cantare ma, per l’emozione, muore. Durante la recita l’opera è ripetutamente interrotta da battibecchi tra gli attori e il capocomico che verrà addirittura cacciato via. Ma, alla fine, il dottor Hinkfuss torna in palcoscenico complimentandosi con gli attori che, anche in sua assenza, hanno saputo recitare a soggetto secondo le istruzioni che egli aveva impartito.

L’originalità dell’opera consiste nella capacità degli attori di interpretare due ruoli: quello di attori e quello dei personaggi interpretati dagli stessi; lo stesso Pirandello mette in evidenza questa distinzione precisando graficamente se a pronunciare la battuta deve essere l’attore o il personaggio. Questa sera si recita a soggetto è un lavoro teatrale quindi non vi è voce narrante o punto di vista perché l’autore fa parlare direttamente i personaggi e dà le istruzioni sul modo in cui devono recitare attraverso le didascalie.

La fama di Pirandello drammaturgo venne a noi dagli stranieri. Per lungo tempo non si comprese la carica innovatrice contenuta nel teatro pirandelliano, mentre dobbiamo riconoscere che fu quasi esclusivamente attraverso la sua opera di drammaturgo che l’arte di Pirandello, e con essa tutta la nostra letteratura, si inseriva finalmente con autorità nella grande letteratura europea e mondiale a noi contemporanea, come espressione di una civiltà umana grandissima. Naturalmente l’arte di Pirandello era esposta a gravi rischi, ai quali egli non sempre riuscì a sottrarsi: il “cerebralismo”, l’artificiosa accentuazione di situazioni paradossali, il compiacimento di complicati sofismi addotti per smontare e distruggere valori e miti convenzionali. Ma nelle sue opere più grandi egli sollevò alla luce della sua poesia la sua lucida e disperata ricerca di verità e insieme la sua amara cognizione della solitudine e dell’alienazione dell’uomo contemporaneo.

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Lo stile

Pirandello fu il narratore più essenziale e concettuale, più schivo degli svolazzi e delle manifestazioni esibizionistiche e coreografiche, tutto inteso a rappresentare l’essenza delle cose, il “di dentro”, quel che non appare fuori. Il suo è uno stile personalissimo, orientato verso uno scopo preciso, senza scoperte ambizioni letterarie. Pirandello scrive con la naturalezza e la spontaneità di un colloquio fra amici. Non è raro che egli tenda a trasferire e a piegare i termini della lingua dalla loro comune accezione ad un più intimo e nuovo significato, e cioè secondo la maniera degli scrittori e dei poeti contemporanei appartenenti al Decadentismo e volti all’analisi e alla interpretazione del subcosciente, intesi alla creazione di un linguaggio tutto proprio, capace di esprimere quasi singolari stati d’animo, che li caratterizzano. Evidentemente lo scrittore siciliano predilige la prosa virile, lucida, protesa verso l’essenziale di ciò che si deve dire, la parola non fine a se stessa, ma espressione di un animus, di un giudizio, il linguaggio pungente e realistico, senza indugi oziosi e blandi compiacimenti linguistici, un linguaggio che, mentre da un lato rivela nell’autore la padronanza perfetta del mezzo espressivo, dall’altro ne sottolinea la trepida commozione con vibrazioni poetiche e umane.

Se il discorso pirandelliano è sempre concreto e muscoloso, tuttavia affiorano, in particolare nelle novelle, pagine poetiche e di abbandono fantastico. Ciò avviene soprattutto quando la vicenda è ambientata in Sicilia; in questi casi Pirandello è più loquace, più arioso, più divertito e il discorso si fa più sciolto, più immediato e non è raro il caso che egli, come Verga, trapassi e svari nel discorso indiretto conservando movenze e ritmi del discorso diretto. In questo stile narrativo, espressivo e senza retorica la moderna prosa italiana trova un esempio da proporsi e si riscatta da gonfiezze e da paludamenti formali e inutili.

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L’umanità e la moralità in Pirandello

Nella prosa pirandelliana quelle vibrazioni poetiche e umane sono frequenti perché non c’è in lui la scarnita e spietata vivisezione dell’anima umana, ma la cordiale comprensione verso i suoi personaggi, creature doloranti e vive, incarnazione di una parte di se stesso, non simboli astratti. Perfino l’umorismo e il sogghigno hanno un attimo di perplessità, come se l’autore si fermasse pensieroso e rattristato sul destino dei suoi personaggi, di tutti gli uomini e suo. Quel fondo raziocinante, umoristico e polemico, nelle sue opere migliori è percorso da un pathos umano, da una fraterna comprensione che innalza l’opera a poesia. L’umanità di Pirandello e la sua pena per la condizione umana assumono un atteggiamento particolarissimo, che stenta ad esprimersi, perché sono incapaci di liberarsi in canto, in catarsi lirica; si esprimono, invece, in un grido lacerante di denuncia e di condanna. Pirandello dissimula le sue lacrime con un sorriso triste, assai più accorato e accorante di qualsiasi pianto, la sua pietà si manifesta per il povero derelitto, l’uomo comune della vita di ogni giorno: gli eroi non hanno cittadinanza nella sua arte; il solo vivere la vita, così come la viviamo, è già di per sé atto di eroismo.

Un’arte così decisamente ancorata alla vita e così intensamente umana è per se stessa ricca di intrinseca moralità: essa tende cioè, in ogni sua espressione, a sferzare la vita perché la vuole migliorare. I personaggi pirandelliani non sono né cinici, né perversi, ma hanno una loro nobiltà e trovano una loro forma di catarsi attraverso la sofferenza del vivere. In quest’arte spira un moralissimo desiderio di liberazione dai ceppi della finzione e dalle assurde costruzioni, in cui l’uomo ha imprigionato la sua anima: è necessario strappare la maschera degli uomini, denunciare i loro travestimenti e ciò per il loro stesso bene, perché essi non sanno accorgersene; è una moralità intrinseca e non formalistica, posta aldilà di ogni apparenza, rivolta contro il fariseismo e l’ipocrisia che tiene alle apparenze. La moralità di Pirandello non si identifica e non coincide con alcun credo morale di una qualsivoglia religione rivelata e tradizionale, proprio per la impossibilità connaturata al mondo pirandelliano di poter ammettere una soluzione al vivere, di poter fissarsi in una forma definita. Nel concetto di moralità si inserisce il concetto che Pirandello ebbe dell’amore, bellissimo e ricco di profonda spiritualità. L’amore crea, trasforma, dà la vita, è il monismo in cui si dissolve il dualismo di Platone tra carne e spirito, per fondere due unità in una sola, due anime in una, due corpi in uno; ma una fusione in cui lo spirito domina e la carne soggiace ad essa e gli ubbidisce, perché nella gioia dell’amore trionfa l’infinito che è in noi, al di sopra di ogni bassezza, ad di sopra di miserie, peccato, gelosie.

Cristina Scarcella
2004

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