Pirandello e il cinema: un’estetica (impossibile) del film

Di Stefano Milioto

Nonostante le grida di protesta, le posizioni contrarie, gli steccati di sbarramento innalzati per contenere l’avanzata dei film-parlanti; nonostante la condanna pronunciata in sede estetica ma anche dei risultati tecnici così imperfetti, Pirandello sa che i conti bisogna comunque farli col cinema, che il futuro è del cinema; lo teme e nello stesso tempo si rende conto delle sue potenzialità.

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Pirandello e il cinema: un'estetica (impossibile) del film
Greta Garbo, As you desire me, MGM 1932. Immagine dal Web.

Pirandello e il cinema:
un’estetica (impossibile) del film

da InterRomania

Quello di Pirandello col cinema è un rapporto complesso e, per certi aspetti, ambiguo ove coesistono implicazioni di carattere ideale e teorico e, più comunemente, di carattere pratico. Queste fanno capo alla biografia pirandelliana, al bisogno di entrate finanziarie e alle sollecitazioni degli amici scrittori conterranei Luigi Capuana e Nino Martoglio; quelle, cioè le implicazioni teoriche, sono di rifiuto e di rigetto della nuova forma espressiva perché non collima con la concezione pirandelliana dell’arte, che è spontanea, sincera e disinteressata.
Poiché Pirandello non ha formulato organicamente un’estetica cinematografica, indicazioni in questo senso si possono rinvenire e delineare scandagliando fonti diverse: il romanzo Quaderni di Serafino Gubbio operatore, “lettere” a Capuana, Angiolo Orvieto, Martoglio, Marta Abba, l’intervista Contro il film parlato, a cura di Oreste Rizzini, pubblicato sul “Corriere della sera” il 19 aprile ’29, l’articolo Se il film parlante abolirà il teatro, pubblicato sul “Corriere della Sera” il 16 giugno del ’29, ma in precedenza pubblicato sul “New York Herald Tribune” e poi sul “Times”, l’articolo Il dramma e il cinematografo, pubblicato in “La Naciòn” di Buenos Aires il 7 luglio ’29, Intervista con Pirandello, firmata Testor, pubblicata su “La stampa” di Torino il 9 dicembre ’32, Il discorso al convegno Volta del ’34. Gli interventi più significativi, attraverso articoli e lettere, di polemica col cinema, al quale Pirandello nega dignità artistica, sono coevi e si attestano intorno al ’29. In essi, tuttavia, non si riscontra solo l’atteggiamento distruttivo, ma anche quello propositivo, per la determinazione di trovare idee e formule estetiche più consone e proprie al cinema affinché si evolva da “fenomeno da baraccone” in prodotto artistico. Si inserisce così, sebbene marginalmente ma con idee precise, nel dibattito intorno alla nuova espressione artistica; dibattito animato da figure di rilievo come Giovanni Papini con La filosofia del cinematografo (La Stampa, 18 maggio 1907), Edmondo De Amicis con Cinema cerebrale (1907), Ricciotto Canudo, il teorico cui si deve la definizione del cinema come settima arte, con Vita d’arte (1911), Sebastiano Arturo Lucani con Verso una nuova forma d’arte: il cinematografo (1920) e tanti altri (si pensi anche al cinema futurista, 1916), tutti preoccupati di definire esteticamente il cinema e di trovarne la specificità. Una vivacità critico-speculativa che fa dire al critico francese Pierre Leprohon che l’Italia è la prima nazione che avvia sul cinema studi teorici e critici, alcuni dei quali spianano addirittura la strada allo stesso cinema.

Gli anni in cui Pirandello scrive il Si gira e guarda con curiosità al cinema, tra il 1905 e il ’15, non offrono vere e proprie teorie sistematiche sulla essenza del cinema e sulle sue possibilità di essere o no arte, ma sono riflessioni e approcci ricchi di intuizioni e premesse speculative. Letterati, pittori, scenografi o scenotecnici non se ne sono ancora impossessati e, contrariamente agli studi teorici, la pratica produttiva procede con grande impulso. Il cinema si afferma ovunque senza avvalersi in modo determinante dell’intellettuale, rifiutandone canoni e istituzioni per modi e forme proprie e destinatari diversi. I suoi creatori sono commercianti, industriali, tecnici; gli attori provengono dalle zone meno qualificate dello spettacolo teatrale e i suoi destinatari sono le classi più povere, le masse popolari. Un fenomeno di tale portata non poteva non passare inosservato e liquidato come sottospecie di spettacolo, al contrario qualcuno ne intravide le possibilità artistiche e il suo futuro tecnico e scientifico. Si cominciò ad osservarlo nel tentativo di collocarlo esteticamente e coglierne la valenza in quel fermento di rivolgimenti culturali e di scossoni alla tradizione e nell’ansia di trovare vie nuove all’arte.

I Quaderni…
L’approccio cinematografico di Pirandello parte senz’altro dai Quaderni di Serafino Gubbio operatore e data dai primordi, dall’apparire del cinema stesso, se è vero che il romanzo era stato concepito tra il 1896 e il 1904, stante alle ricerche effettuate da Francesco Callari. In una lettera inviata ad Angelo Orvieto e datata 19 gennaio 1904, Pirandello fa conoscere il titolo Filauri ma non i personaggi e la trama, presenti invece nella proposta di pubblicazione fatta all’Albertini per “La lettura” l’8 gennaio 1913 col titolo cambiato di La tigre, che diviene nel ’15, anno di pubblicazione, Si gira…, e infine, nel ’25, Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Nei quali, pur delineando del cinema un’apologia negativa e intuendone al contempo, senza però chiarire, ambizione d’arte, manifesta la sua condanna nei confronti della nuova forma espressiva, proprio in quanto appare come metafora dello sconvolgimento apportato dalla macchina nelle trasformazioni e nei mutamenti della società, col gravoso scacco per l’uomo che ha finito per essere stritolato dagli ingranaggi che lui stesso ha creato.
La macchina è una bestia, un mostro, e contro di essa qualsiasi rivolta è destinata a fallire, come quella inutile del violinista, che Simone Pau presenta a Serafino, quando è messo davanti a una monotype che fa tutto da sé; e quando gli viene assegnato il compito di seguire col violino le musiche di un pianoforte automatico e dunque meccanico.

L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio e industre, s’è messo a fabbricar di ferro, d’acciajo le sue nuove divinità ed è diventato servo e schiavo di esse. Viva la macchina che meccanizza la vita.

Ma è proprio nei Quaderni di serafino Gubbio operatore che Pirandello mostra una speciale attenzione al nuovo linguaggio, proprio quello che inerisce alla vita di un set e alla costruzione di un film, da come appare qua e là nel romanzo, talché si possono formulare voci da manuale di tecnica filmica, come: attore, comparse, sceneggiatura, interno, carrello, primo piano, soggettiva, campo medio, flash-back, rallentì, velocità, candid camera, casa cinematografica, set, direttore, operatore, agente, sceneggiatore, reparto del negativo, scenografi, produttore.
La sua posizione negativa si acuisce con l’avvento del cinema parlante qualche anno più tardi, quando ormai il cinema viene considerato come fenomeno autonomo dalla cui valutazione in sede estetica non si può prescindere.
Se da un lato è fermo alla “apologia negativa” del cinema espressa in Si gira, dall’altro crede sempre nelle sue potenzialità, che non scorge però nel film sonoro che era stato tenuto a battesimo a New York il 6 ottobre 1927 con The jazz singer, protagonista Al Jolson. “ Un orrore” definirà il film parlante al suo ritorno da Londra, dopo avere assistito, su invito della British International Pictures, alla proiezione di film parlanti nell’aprile del ’29. Da Berlino scrive al figlio Stefano:

A Londra ho visto i films parlanti: un orrore! Avrai letto ciò che ne ho detto al Rizzino che è venuto a intervistarmi per il “Corriere della Sera”. Ma nonostante questo, farò un film parlante contro i films parlanti.

Interessanti intuizioni aveva avuto già nel ’28, come si può leggere in una lettera del 6 luglio del ’28 a Marta Abba:

Ho comprato a Roma tanti libri su Beethoven, per quell’idea che tu sai; e son dietro a leggerli. Verranno visioni magnifiche e cose non mai viste… la mirabile possibilità di unire al suono della musica le proiezioni delle immagini che avevano acceso l’estro del musicista…

E successivamente (11 luglio ‘28)

… ho ripreso a leggere sulla vita e sulle nove sinfonie di Beethoven per la preparazione dei lavori che tu sai. Mi pare che debbano venire magnificamente. Ma mi manca la suggestione della musica. Bisognerà che trovi il modo di riudire attentamente, una per una, tutte le nove sinfonie: forse con qualche buon disco di grammofono. La lettura di questi libri mi dà intanto lo stato d’animo e il clima spirituale del musicista nei vari momenti delle sue composizioni… Si cara Marta, si possono fare col cinematografo cose meravigliose; ne sono convinto da un pezzo. Ho in mente cose straordinarie. E non mi par l’ora di concluderle, per attuarle.

Poi in un’altra lettera (13 luglio ‘28)

Forse sono di nuovo a Berlino anche per l’altra combinazione: quella beethoveniana che aprirebbe un campo del tutto nuovo alla cinematografia, come espressione visiva non più della parola ma della musica: melografia. E’ la via della fortuna.

Se il film parlante…

Dopo avere assistito, dunque, alla proiezione del film parlante, ritorna a mostrare il suo dissenso con l’articolo Se il film parlante abolirà il teatro. In esso sottolinea il rapporto cinema-teatro e l’errore del cinema di essersi messo proprio sulla strada del teatro, quando invece la sua propria strada è la musica. Diventi il cinema cinemelografia, linguaggio visibile della musica. “Il cinema deve essere pura visione, – afferma ne Il dramma e il cinematografo – deve cercare di realizzare il suo effetto nella stessa maniera che un sogno (tanto quanto una pura visione) influenza lo spirito di una persona addormentata”.
E più tardi, nell’Intervista a Testor del ’32, rimprovera al cinema d’avere abbandonato l’audacia della sua meccanica, di non osare nel parlato per eccessiva timidezza e di contentarsi di essere una contraffazione del teatro a scapito di “simultaneità e sintesi, che erano il suo privilegio”, cedendo il posto a un’arte statica, in aperto contrasto con le leggi che esso porta dentro di sé”.

Dalla musique des yeux di Germaine Dulac del 1925 a quella di Luciani del ’28, alla pirandelliana melografia, che nell’articolo si arricchisce del connotato più specifico di cine, si disegna un itinerario attraverso il quale si tenta non solo l’emancipazione del cinema dalla sudditanza del teatro, della letteratura e della parola, ma di trovare anche l’elemento caratterizzante della nuova forma d’arte.

Per Pirandello il cinema ha commesso sin dall’inizio l’errore di mettersi sulla strada della letteratura. Intanto perché non ha i mezzi per sostituire la parola e poi perché non ne può fare a meno; e continua a sbagliare se vuole dare meccanicamente alla cinematografia, che è muta espressione di immagini e linguaggio di apparenze, la parola. Il rimedio è peggiore del male. Le immagini non parlano e se parlano si crea un contrasto insanabile tra ciò che è vivo e ciò che è solo apparenza, come disturba l’insanabile dicotomia tra i paesaggi rappresentati sulla scena, lontani e remoti, e la voce che suona dentro la sala; e il rumore insopportabile dei grammofoni. Afferma, inoltre, contro coloro per i quali l’avvento del parlato costituisce la salvezza dell’industria cinematografica italiana, che non si può tradurre il parlato di un film in un’altra lingua poiché, vero è che “gli occhi per vedere i popoli ce li hanno tutti uguali, ma la lingua, per parlare, ogni popolo ha la sua”. Il problema della traducibilità gli appare impossibile (sarà smentito in seguito dalla pratica del doppiaggio), in quanto le immagini sono immagini e non possono parlare. Finché muto, il cinema era comprensibile a tutti; parlato fa la figura del vanitoso pavone di Esopo che, lusingato dalla volpe per la sua ruota e la maestà del suo reale incedere, aprì la bocca e fece ridere tutti. Ed è un errore da parte dei registi teatrali voler introdurre nel teatro accorgimenti cinematografici quali suoni, luci, mutamenti repentini ed altri effetti preparati soltanto per il godimento dell’occhio. C’è di più. I registi dei film parlanti non possono essere più quelli del film muto, ma di teatro, come di teatro devono essere gli attori perché avvezzi alla recitazione contrariamente agli attori del muto; e i cosiddetti soggettisti del film muto dovranno cedere il posto agli autori di teatro. Veramente teatro e cinema non dovrebbero più inseguirsi e beffeggiarsi a vicenda, “ma sforzarsi di seguire ciascuno la propria strada e proporre forme specifiche alla vita che… se da un lato ha bisogno di muoversi sempre, dall’altro ha pure bisogno di consistere in qualche forma”. Ma mentre Pirandello demolisce, indica al cinema la via della salvezza, che quella è di liberarsi della letteratura e di immergersi nella musica:

Ma non nella musica che accompagna il canto: il canto è parola: e la parola, anche cantata, non può essere delle immagini; l’immagine, come non può parlare, così non può cantare… Io dico la musica che parla a tutti senza parole, la musica che s’esprime coi suoni e di essa, la cinematografia, potrà essere il linguaggio visivo. Ecco: pura musica e pura visione. I due sensi estetici per eccellenza, l’occhio e l’udito, uniti in un godimento unico: gli occhi che vedono, l’orecchio che ascolta, e il cuore che sente tutta la bellezza e la varietà dei sentimenti, che i suoni esprimono, rappresentati nelle immagini che questi sentimenti suscitano ed evocano, sommovendo il subcosciente che è in tutti, immagini impensate, che possono essere terribili come negli incubi, misteriose e mutevoli come nei sogni, in vertiginosa successione o blande o riposanti, col movimento stesso del ritmo musicale. Cinemelografia, ecco il nome della vera rivoluzione: il linguaggio visibile della musica.

La proposta pirandelliana supera quella futurista delle sinfonie poliespressive e il “poema visivo” di Luciani. Per questa via, Serafino Gubbio ritrova la parola, ma nuova; un linguaggio nuovo per mezzo del quale penetrare nel profondo dell’anima, sommuovere le pieghe più recondite e svelare i sentimenti più nascosti di quell’oltre, cioè il di là della superficie di quel pozzo senza fondo che è la nostra coscienza, che egli prima s’era ingegnato di cogliere con la semplice osservazione dei fatti e poi col suo essere operatore muto. Ma, superati gli scogli della letteratura e del teatro, dove approda la cinemelografia? E’ veramente arte, la cinemelografia? Se è vero che arte è sincerità e spontaneità, perché

soltanto l’arte, quando è vera arte, crea liberamente: crea cioè una realtà che ha solamente in se stessa le sue necessità, le sue leggi, il suo fine, poiché la volontà non agisce più fuori, a vincere tutti gli ostacoli che si oppongono a quei fini di pratica utilità a cui tendiamo nell’altra creazione interessata…,

allora neppure tale proposta troverebbe posto nell’estetica pirandelliana, poiché la cinemelografia non può fare a meno di tutti quei fattori che determinano la produzione di un film. Molti interessi ruotano attorno al cinema e molte sono le interferenze nel processo produttivo, che impediscono all’arte

di agire interiormente, nella vita a cui si intende dar forma fino al punto che non siamo più noi a volere questa forma, così o così, assolutamente libera, poiché non ha altro fine che in se stessa, lei che si vuole, lei che provoca in sé e in noi gli atti capaci di effettuarla fuori in un corpo.

Pirandello venne a trovarsi in un ‘mare avverso’ e che, in ultima analisi, possa essersi reso conto della incompiutezza della sua proposta, pronunciata forse sotto la spinta di una reazione anacronistica nel momento in cui il nuovo mezzo stava fornendo notevoli prove di vitalità e raggiungendo la pienezza delle sue possibilità. Fatto si è che, pur continuando a collaborare col cinema, non se ne occupò più in sede teorica dopo l’articolo del ’29, o solo di passaggio in qualche intervista e nelle lettere a Marta Abba e nel discorso al Convegno Volta nell’ottobre del ’34, ma per ribadire la sua convinzione che il cinema non aveva ancora trovato “una propria espressione artistica”.
Che altrimenti, le sue riflessioni si sarebbero potute illuminare e avrebbe colto nella figura di Serafino, nel suo essere artista del film, poiché tale in fondo appare più del Polacco o del Bertini, l’elemento unificatore dei diversi momenti in cui si articola il processo realizzativo del film, come, d’altra parte, aveva postulato in precedenza, Sebastiano Arturo Luciani. Il quale si preoccupava di affermare, di fronte al disprezzo degli intellettuali contemporanei, la valenza ideale e artistica del cinema, riscattandolo dalla meccanicità dei processi produttivi, e di sostenere la preminenza del regista come artista del film.

Nonostante le grida di protesta, le posizioni contrarie, gli steccati di sbarramento innalzati per contenere l’avanzata dei film-parlanti; nonostante la condanna pronunciata in sede estetica ma anche dei risultati tecnici così imperfetti, Pirandello sa che i conti bisogna comunque farli col cinema, che il futuro è del cinema; lo teme e nello stesso tempo si rende conto delle sue potenzialità: ”Bisogna orientarsi verso una nuova espressione d’arte: il film parlato. Ero contrario; mi sono ricreduto”. Lo teme come concorrente del teatro, ma sa di poter fare con esso “grandi cose” e soprattutto ottenere, attraverso di esso, mezzi finanziari tali da consentirgli, addirittura sostituendosi al governo, di fondare un teatro di stato e di realizzare un altro grande sogno, far diventare Marta Abba star internazionale del cinema.
Nel dichiararsi contro, tuttavia, ma contro l’uso aberrante e naturalistico del cinema, inventa soluzioni, suggerisce idee a un cinema che, se vuole veramente vivere, deve abbandonare la parola e trovare una sua voce propria. In tale atteggiamento gode della compagnia tra gli altri di Charles Chaplin, Charles Vidor e Sergej Ejzenztejn.
Nei suoi contatti col mondo cinematografico, Pirandello si rivela di un’attività straordinaria, non solo dal punto di vista creativo, scrivendo soggetti o sceneggiature, ma muovendosi e incontrando agenti, produttori e registi, ai quali offre i suoi progetti perché possano attuarli. Anche all’estero.

Berlino è la capitale europea del cinema tra il finire degli anni venti e i primi anni trenta; e verso Berlino tendono registi, attori, scrittori per lavorare, come poi sarà Hollywood la meta agognata. La capitale tedesca, infatti, offre grandi possibilità per il teatro e, soprattutto, per il cinema. Pirandello non esita perciò a lasciare l’Italia e convince Marta Abba a seguirlo in Germania, ove l’attrice resta solo per sei mesi.
Non così il drammaturgo, che rimane all’estero (si trasferirà poi a Parigi) col fermo proposito di riuscire nel suo intento.

Le lettere a Marta Abba
Dal suo soggiorno involontario in Europa, scrive lettere e lettere, e a Marta ogni giorno con passione, dal ’28 al 36′, e sono tante da formare un epistolario che è la testimonianza non solo dell’uomo e delle sue sofferenze, ma anche dell’artista che crea per il cinema e per il teatro e che si rapporta con un mondo ipocrita, falso e popolato da gente che certo non è la migliore sulla terra. Nel loro snodarsi cronologico, attraverso le indicazioni che vi si rinvengono, è possibile ritagliare la posizione di Pirandello nei confronti del cinema, sia da un punto di vista teorico che di prassi.

La melografia e la cinemelografia: la sola strada praticabile per il cinema; il film parlante: una diavoleria, il più brutale degli errori, trucco americano. Non c’è cosa più illogica e innaturale che vedere immagini che parlano; la sua proposta rivoluzionaria: la macchina parlante, che se non è propriamente il rimedio a quel male che è il film parlante, tuttavia contiene l’idea che sarà poi la tecnica del play-back; la conversione obtorto collo e con cautela, come disponibilità a scrivere per il cinema; la frenetica attività nello scrivere scenari; I Sei personaggi e il destino impossibile a diventare film; il fatto economico e le preoccupazioni di tipo finanziario dei produttori europei; contratti e trattative; limiti e tare dei cinematografari; il cinema italiano.
Ciò che emerge dall’epistolario è la concessione al cinema d’un riconoscimento estemporaneo, più che di vero convincimento destinato a rientrare subito nella diffidenza non mai sopita verso il nuovo mezzo creativo.

E tuttavia lo scrittore agrigentino è forse tra gli intellettuali, come Giovanni Verga, Gioacchino Forzano, Luigi Capuana, Nino Martoglio, Roberto Bracco, Gabriele D’Annunzio che collaborano con il cinema fornendo soggetti originali o tratti dalle loro opere, quello che ha una maggiore coscienza del nuovo mezzo espressivo che gli appare così tanto idoneo a esplorare l’area dell’oltre e dell’onirico. Il problema è uno solo, che smetta di essere una “sconcia contaminazione” di letteratura e immagini, che si liberi dall’asservimento da parte della civiltà che ne fa un suo non proprio e aberrante, e trovi la propria via. Autore di soggetti e scenari, subisce fascino e influenza dal cinema, contro ogni teoria, fosse anche la sua, mentre si appropria del linguaggio cinematografico rinvenibile in certi luoghi dei Quaderni per es., e Sogno, ma forse no a qualcuno è apparso avere la caratteristica di una sceneggiatura cinematografica.

Filmografia pirandelliana
Nella filmografia pirandelliana forse manca il capolavoro. Già lo scrittore non era rimasto contento né de La canzone dell’amore, film del ‘30 di Gennaro Righelli, primo film parlato italiano, né di As you desire me del ’32, diretto da George Fitzmaurice con Greta Garbo, sceneggiatura di Gene Markey. Si può dire che da questo punto di vista il cinema non ha reso un buon servizio a Pirandello. Dal Lume dell’altra casa di Ugo Gracci del 1918, il primo film tratto da un soggetto pirandelliano, alle ultime realizzazioni, pochi sono i film dei circa 50 (45), che si possono dire pirandelliani. Per diversi motivi: la transcodificazione, la capacità o incapacità degli autori di cogliere e rielaborare il mondo pirandelliano, l’attitudine dei cinematografari a realizzare film commerciali. Se questo è vero, è altrettanto vero, però, che “il modo pirandelliano”, cioè quel sapore, quelle atmosfere, quelle suggestioni, quel respiro, al di là dei temi specifici quali l’alienazione, l’incomunicabilità, la frantumazione della personalità, il paradosso, la relatività della verità, ha intriso e permeato le opere dei più grandi registi italiani e stranieri: Orson Welles, Ingmar Bergman, Michelangelo Antonioni, Federico Fellini, Alain Resnais, Jean-Luc Godard, Akira Kurosawa, Robert Altman, Pier Paolo Pasolini, Alain Robbe-Grillet, Woody Allen, Ettore Scola, François Truffau, per citare i nomi più altisonanti.

Tutti i film da Luigi Pirandello

Il lume dell’altra casa, 1918, di Ugo Gracci
Lo scaldino,1919, di Augusto Genina
Il crollo, 1919, di Mario Gargiulo
Ma non è una cosa seria, 1920, di Augusto Camerini
La rosa,1921, di Arnaldo Frateili
Il viaggio,1921-22, di Gennaro Righelli
Feu Mathias Pascal (Il fu Mattia Pascal),1924-25, Marcel L’Herbier
Die flucht in die nacht (Enrico IV),1926, di Amleto Palermi
La canzone dell’amore, 1930, di Gennaro Righelli
As you desire me, 1932, di George Fitzmaurice
Acciaio, 1933, di Walter Ruttmann
Ma non è una cosa seria, 1935-36, di Mario Camerini
Der mann, der nicht nein sagen kann (Ma non è una cosa seria), 1937, di Mario Camerini
Pensaci, Giacomino, 1936-37, di Gennaro Righelli
L’homme de nulle part (Il fu Mattia Pascal), 1936-37, Pierre Chenal
Terra di nessuno, 1938, di Mario Baffico
Enrico IV, 1934, di Giorgio Pàstina
This love of ours (Come prima, meglio di prima),1945, di William Dieterle
Asì te deseo (Come tu mi vuoi), 1947, di Belisario Garcia Vilar
La morsa, 1951-52, Alessandro Blasetti
L’uomo, la bestia e la virtù, 1953, di Steno
Vestire gli ignudi, 1953-54, di Marcello Pagliero
Questa è la vita, 1953, Episodi
Never say goodbye (Come prima, meglio di prima), 1955, Jerry Hopper
Todo se para bien (Tutto per bene), 1957, di Carlos Rinaldi
Liolà, 1963-64, di Alessandro Blasetti
Ma non è una cosa seria, 1964, di Gianfranco Bettetini
Il mondo di Pirandello, 1967, di Luigi Filippo D’Amico
Kuvsin (La giara), 197°, Iraklij Kvirikadze
La morsa, 197°, di Gianfranco Bettetini
Il viaggio,1973-74, di Vittorio De Sica
I vecchi e i giovani, 1977-78, di Marco Leto
Vestire gli ignudi,1978-79, di Luigi Filippo D’Amico
L’esclusa, 1979-80, di Piero Schivazappa
Il turno,1981, di Tonino Cervi
In silenzio, 1981, di Luigi Filippo D’Amico
La fede, 1981, di Ciriaco Tiso
Kaos, 1983-84, dei Fratelli Taviani
Enrico IV, 1983-84, di Marco Bellocchio
Le due vite di Mattia Pascal, 1984-85, di Mario Monicelli
Folog a film/Si gira, 1985-87, di Janos Domolki
La balia, 1998, di Marco Bellocchio
Tu ridi, 1999, dei Fratelli Taviani

Stefano Milioto

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