Pirandello e Brecht: un incontro possibile?

Di Gilda Policastro.

La biblioteca pirandelliana non lascia emergere alcun titolo brechtiano, pur conoscendo Pirandello perfettamente il tedesco sin dalla giovinezza, per aver svolto la sua tesi di laurea a Bonn. Nemmeno Brecht nomina mai Pirandello nei suoi scritti teatrali .

Indice Tematiche

Pirandello e Brecht
Bertolt Brecht (1898-1956). Immagine dal Web.

Pirandello e Brecht: un incontro possibile?

da Gli intellettuali italiani e l’Europa (1903-1956)
Manni Editore 2007

Die Bereitschaft des Lehrers zu lehren: die der Bruder nicht sieht, die Fremde sieht sie*.
B. Brecht, Suchenach dem neuen und alten, Theaterarbeit, 1952

* “La disposizione del maestro a insegnare: il fratello non la vede, gli estranei la vedono”
(B. Brecht, Ricerca del nuovo e del vecchio, in Id., Theaterarbeit, Dresden Verlag, Dresden 1952, p. 349).

1. Cronologia
Riaprire la questione, peraltro parcamente dibattuta, di un confronto tra i due maggiori drammaturghi di primo Novecento impone innanzitutto un riesame dei dati disponibili. Radunando i non rari contributi dedicati al volontario esilio pirandelliano in Germania, quei pochi elementi accertati di un possibile contatto con Brecht non paiono incoraggiare ulteriori indagini, lasciando affiorare la reciproca indifferenza dei due autori e una conclamata distanza delle rispettive poetiche. Persino un generico avvicinamento tende ad essere escluso, nell’impossibilità di accertare un effettivo incontro biografico. Si è enfatizzata, finora, la vita non pienamente integrata, da parte di Pirandello, in una Berlino in cui egli avrebbe cercato piuttosto di procacciare contatti e contratti per sé e per Marta che di carpire novità e fermenti culturali. L’epistolario ci consegna, in effetti, un uomo chiuso nel suo mondo e piuttosto impermeabile al contesto storicopolitico: se nel 1929 Brecht, secondo la testimonianza dei biografi, vedeva dalla finestra la polizia picchiare i manifestanti comunisti scesi in piazza per il primo maggio, il mese dopo dello stesso anno Pirandello dalla sua finestra descriveva il paesaggio innevato.

La biblioteca pirandelliana non lascia emergere alcun titolo brechtiano, pur conoscendo Pirandello perfettamente il tedesco sin dalla giovinezza, per aver svolto la sua tesi di laurea a Bonn. Nemmeno Brecht nomina mai Pirandello nei suoi scritti teatrali (né la cosa stupisce troppo, data la progressiva elaborazione di un’idea di teatro sentita come troppo originale per essere in qualunque modo ricondotta al fenomeno dilagante del “pirandellismo”). Eppure la pressoché concomitante presenza dei due autori non sarà certo trascorsa inosservata, nella Berlino capitale culturale d’Europa degli anni di Weimar: suggestioni cronologiche, miste a qualche sparso dato memoriale, impediscono di rassegnarsi all’idea di una totale estraneità. Pare infatti che proprio durante il suo primo soggiorno berlinese Brecht abbia posto mano al dramma Mann ist Mann, coevo, dunque, alla messinscena tedesca dei Sei personaggi di Reinhardt (’24-’25), regista con il quale lo stesso Brecht avrà occasione di collaborare. In una lettera del ’30 a Marta Abba, inoltre, Pirandello le rammenta il teatro in cui avrebbero assistito insieme, l’anno prima, alla rappresentazione dell’Opera da tre soldi (sbagliando, peraltro, l’indicazione del nome: Bauerschiffdamm Theater al posto di Theater am Schiffbauerdamm), e già in una lettera precedente non mancava di compiacersi dell’insuccesso milanese cui era andato incontro lo stesso testo brechtiano rivisitato da Bragaglia col titolo de La veglia dei lestofanti. Si sta parlando, tra l’altro, degli spettacoli di maggior successo del tempo (i Sei personaggi a Berlino ebbero oltre cento repliche, e anche l’Opera brechtiana fu un grande successo).
Se l’ipotesi di un contatto diretto rimane effettivamente vaga e remota, si ritiene altrettanto inimmaginabile la totale mancanza di un dialogo o di un influsso reciproco, alla luce dell’appartenenza dei due autori a un orizzonte culturale comune, a partire proprio dalla concomitanza geografica.
Del resto già Leone de Castris, nella nota monografia pirandelliana, auspicava una riapertura della questione quanto meno sul piano della pura teoria teatrale, analogamente problematica, nei due autori, riguardo alle poetiche naturalistiche:

Questo ci sembra il significato vero della tesi pirandelliana: o parte scritta, realtà fissata per sempre, o improvvisazione assoluta, immedesimazione ad oltranza, che non tollera intrusioni o regìa. Ma, mentre la prima soluzione “strania” l’attore in una koiné linguistica e ideologica (la “forma” fissata dal poeta) che demistifica i livelli naturalistici del dramma […], la seconda, gettando l’attore allo sbaraglio dei sentimenti naturali, in una mimesis assolutamente naturalistica ed essenzialistica, rischia di disanimarlo, di ucciderlo, senza peraltro rivelare i significati critici della rappresentazione (e questa tesi polemica potrebbe riproporre i rapporti tra Pirandello e Brecht […]).

Proprio sul tema dell’impostazione naturalistica del teatro tradizionale, cui in quegli anni cercava di opporsi il nascente teatro di regia di Kaiser e di Piscator, si innesta la possibilità di un raffronto di poetiche per i due autori in causa, a cui dovrà inevitabilmente affiancarsi il nome di Stanislavskij, il quale si pose, entro il medesimo arco temporale, gli stessi quesiti (sebbene risolvendoli diversamente) del metateatro pirandelliano e del teatro epico brechtiano.
A questo punto conviene chiarire più nel dettaglio gli obiettivi del nostro discorso, che qui si enucleano per maggior chiarezza espositiva in tre punti, i quali non andranno però a svilupparsi necessariamente nella sequenza stabilita ma più spesso, invece, verranno a intersecarsi in un intreccio che si spera fecondo:
– anzitutto un allargamento del campo d’indagine alla maniera, si parva licet, tenuta da Mazzacurati per il romanzo europeo di primo Novecento: al di là dei rapporti diretti e filologicamente accertati, esiste infatti una costellazione di poetiche e di temi affrontati in modo analogo da autori persino incompatibili, che vale evidentemente anche per l’estetica teatrale. Sarà opportuno, allora, istituire un confronto basato non tanto sulle risposte quanto sulle domande poste dalla nuova ricerca teatrale, e confrontarsi estesamente coi problemi dibattuti al tempo (recuperando, inevitabilmente, le teorizzazioni coeve di Lukács e Benjamin): dall’impossibilità della tragedia nella modernità alla crisi del dramma borghese, dalla perdita di centralità del destino nella concezione scenica dei personaggi alla loro definitiva demarcazione in senso psicologico, fino alla possibilità di una coesistenza della totalità tragica col carattere singolare e intimo del dramma moderno (qui Lukács in particolare); anti-naturalismo, nella maggior parte dei casi;
– in secondo luogo una messa a confronto delle poetiche, sulla base dei rispettivi saggi teorici degli autori, con la conseguente ipotesi di una conoscenza anche indiretta da parte di Pirandello dei fondamenti del teatro epico, a partire dall’elemento cardine dello straniamento: si definiranno perciò più nel dettaglio i caratteri del metateatro pirandelliano considerati e dello straniamento brechtiano;
– infine la messa in rilevo di reciproche interferenze (più che di effettivi contatti) in due testi campione, Mann ist Mann e i Sei personaggi paragonabili anzitutto per contiguità cronologica, e scelti poi come emblematici della comune poetica dell’isolamento e dell’identità in crisi (del resto Mann ist Mann venne ricondotto a un generico “pirandellismo” sin dai primi riscontri dei recensori). Dai prelievi di alcuni momenti valutabili come “straniati” nei Sei personaggi emergerà infine da sé la possibilità effettiva di una conoscenza da parte di Pirandello della categoria brechtiana, problema già posto (e mai risolto) in sede critica persino in contesti di generale negazione di un rapporto diretto tra le due poetiche e i due autori.

2. Crisi del dramma borghese e nuovo teatro
Secondo Peter Szondi, tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, dopo la frattura segnata in epoca rinascimentale dall’abiura dei canoni aristotelici, il dramma sperimenta una nuova crisi. Ibsen, Cechov, Strindberg, Hauptmann, i drammaturghi cui Szondi affida le singole tappe del nuovo corso, mentre continuano a proporre ciascuno una diversa declinazione del cosiddetto dramma borghese (analitico, esistenziale, individuale, sociologico), ne minano dall’interno la sopravvivenza. Pirandello e Brecht, i cui massimi capolavori teatrali si rappresentano proprio nel periodo circoscritto da Szondi, in particolare negli anni Venti, rientrano, non casualmente, in quelli che il teorico definisce i “tentativi di soluzione”.
Deposta l’aporia tragica per eccellenza, l’oscillazione dell’eroe tra volontà e destino (Oreste poteva rivendicare di aver compiuto il matricidio ad opera “della sua propria mano” e, insieme, “per ordine del Lossia”), il problema filosofico dell’eroe moderno è la scissione fra soggetto e oggetto, ovvero la grande questione dell’identità. Se nei drammi di Ibsen e di ˇCechov i personaggi trovavano le risposte ai loro dissidi interiori nel ripiegamento utopistico e nell’ostinata memoria di un passato irrecuperabile, coi Sei personaggi Pirandello, affrontando per la prima volta nel suo teatro il problema dell’identità, lo risolve in modo eminentemente scenico, e cioè portando a soluzione il dramma esistenziale all’interno della stessa rappresentazione. A un esito diverso sarebbe invece dovuta approdare, secondo Szondi, una concezione realmente innovativa del tema dell’identità:

[in Pirandello] non è messo in questione ciò che nell’azione vera e propria è affatto problematico: l’attualità  intersoggettiva. L’idea del teatro epico si realizzerebbe appieno solo se la situazione narrativa non fosse più tematica, e neppure dialogico-scenica. Ma finché così non è, rimane sempre la tentazione di giungere a una soluzione pseudodrammatica.

D’altro canto lo stesso Brecht potrebbe essere riannesso al naturalismo, quando ribadisce l’opportunità di sottoporre il mondo rappresentato alle medesime leggi del mondo reale, se egli non correggesse poi con la più acuta consapevolezza del carattere parziale e non esemplare di ciò che viene svolgendosi sulla scena. Ciò a beneficio di un pubblico che potesse evolversi in volontà partecipe e cosciente, evitando di assumere su di sé in modo totalmente passivo, come la medicina aristotelica, il contenuto drammatico dell’azione proposta. Il dissidio brechtiano, inoltre, transita dal piano psicologico privilegiato da Pirandello (l’individuo che perde la fiducia nella propria unitarietà) a quello sociale, facendosi emblema della lotta di classe in senso propriamente marxista (ciò a partire dalla vera e propria conversione brechtiana, databile a partire dal ’28).
In Brecht, secondo Szondi, è giustappunto la problematicità dei rapporti intersoggettivi a rendere problematico il dramma stesso: ne deriva la “sostituzione della fusione essenzialmente drammatica di soggetto e oggetto, con la loro contrapposizione, che è essenzialmente epica”.
La riflessione di Szondi dichiaratamente prosegue l’indagine lukácsiana e benjaminiana sul dramma moderno: per entrambi i predecessori, però, il fulcro della teorizzazione risiedeva nell’esistenza o meno di un legame diretto tra carattere e destino, espressamente negata dal secondo nel saggio omonimo, e inserita dal primo entro una visione del dramma inevitabilmente complicata dal mutamento storico:

Il centro più interno del carattere ed il punto di incontro tra uomo e destino non coincidono: essi possono entrare in una relazione drammatica solo con l’ausilio di teorie aggiunte in un secondo tempo.
Potremmo dire che la conservazione dell’individualità è minacciata dalla totalità dei fatti. I fatti possono risucchiare la personalità: d’altra parte questa può, interiorizzandosi, sottrarsi ai fatti stessi, evitare di incontrarli.

Per Lukács l’evoluzione della tragedia in dramma prodottasi in seno alla società borghese, col porre in crescente rilievo l’individuo, ha determinato una sorta di romanzizzazione o epicizzazione dell’agire, nella vita come nell’arte: laddove il dramma classico inscenava il conflitto interumano di un carattere eccezionale, immesso in un destino immodificabile ma tutto sommato ripetibile, il dramma moderno investe la vita interiore ed esteriore dell’individuo in condizioni storiche concrete, perciò uniche e complesse. Lo statuto del dramma sembra con questo minato dall’interno: non è in gioco soltanto la possibilità di una nuova forma tragica ma la sopravvivenza stessa del tragico, entro un contesto in cui la relativizzazione dei valori ha posto in discussione la stessa scissione fondativa tra uomo e destino, trasformando il páthos di quest’ultimo nel più prosaico milieu.
Che sia di impostazione più propriamente naturalista o che offra dell’ambiente una stilizzazione eminentemente funzionale all’azione drammatica, il nuovo teatro ha di fronte a sé un enorme, insormontabile problema: come avvicinare ciò che è infinitamente distante, ossia come inscrivere la totalità entro il caso singolo (la “monumentalità nell’effetto intimo”, con le dirette parole di Lukács). Il “paradosso della distanza” riguarda insieme autori e spettatori:

anche la suggestionabilità e duttilità hanno i loro limiti. E giacché sia nel poeta che nel pubblico queste qualità risultano, in modo sempre più imprevedibile, individuali e labili, sempre meno facile è prevedere a quale dramma possa essere rispondente un certo pubblico e se ci sia un pubblico capace di rispondere ad esso.

L’unità dell’orizzonte d’attesa si percepisce come ormai definitivamente infranta, e con essa la coincidenza di etica ed estetica: impossibile ipotizzare l’effetto prodotto sul pubblico dall’opera e quindi realmente orientare le singole coscienze.

3. Anti-naturalismo
Negli anni della crisi del dramma borghese il fondamentale nodo da sciogliere resta il problema dell’adesione o meno all’orizzonte del naturalismo, come si ricava con particolare forza persuasiva proprio dagli interventi di Pirandello e Brecht (tra l’altro autori degli spettacoli teatrali che furono oggetto di più larghe attenzioni critiche, oltre che di più diffuso consenso). Riguardo, più nello specifico, alla dibattuta questione del rapporto sempre più problematico tra il piano della rappresentazione e il piano della realtà (concetto, quest’ultimo, già di per sé controverso, come tanta filosofia del passaggio di secolo ha mostrato in modo ormai irreversibile), torna utile recuperare la già citata terna Stanislavskij-Brecht-Pirandello, arrivando a individuare in Pirandello una sorta di via di compromesso tra un naturalismo assunto come via di immedesimazione totale nel dramma da parte di attori e spettatori, e un teatro che invece questa immedesimazione volesse programmaticamente bandire, attraverso le più varie soluzioni tecniche, anche col ricorso ad artifici ritenuti poco ortodossi dall’estetica largamente dominante. Se Stanislavskij, cioè, pretende dagli attori e poi dagli spettatori la totale immersione (il sostantivo utilizzato, perezivanie, in russo sta per “esperienza” nel senso di “emozione vissuta”) nelle vicende rappresentate, in modo che queste possano apparire il più possibile reali all’interno della rappresentazione stessa, Brecht, all’opposto, sperimenta tutta una serie di espedienti attraverso i quali divenga evidente agli spettatori, così come era stato indispensabile agli attori, che l’acquisto di un maggior distacco critico dalla rappresentazione scenica serve a meglio comprenderne il significato. Un teatro non più agito, ma capito, come dice ancora Szondi. L’esempio più eclatante è quello della Courage brechtiana, un personaggio dotato di qualità negative le quali, fungendo da ostacolo all’adesione emotiva degli spettatori, agevolano, insieme, la loro consapevolezza dell’unicità di una situazione che si presenterà con quelle stesse caratteristiche nel solo contesto definito dalla rappresentazione.
Lo spettatore, iuxta intentionem auctoris, non deve pensare, cioè, di quel personaggio (e del personaggio in generale) “anch’io mi sarei comportato allo stesso modo”, ma, viceversa, “ha agito così, io però avrei fatto diversamente”.
Un principio analogo agisce nella scelta di una metrica accidentata per i celebri songs brechtiani: una scansione cantabile e facile sarebbe scivolata addosso agli spettatori, senza realmente costituire veicolo di penetrazione nelle coscienze delle idee espresse dall’autore, se dunque solo una maggior difficoltà nella comprensione avrebbe potuto, secondo Brecht,
indurre a una meditata rielaborazione personale da parte dello spettatore (considerazione, quest’ultima, legata a concomitanti intuizioni su modi, funzioni e scopi di un teatro “popolare”). E così anche per gli espedienti più propriamente tecnici, dall’utilizzo dei famosi cartelli, agli spezzoni di film mandati in onda durante la rappresentazione, a tutta una serie di macchinari adoperati in scena (fondamentale nella concezione brechtiana del teatro è difatti l’avvento del cinema, con le inedite possibilità di espressione offerte dai nuovi ritrovati tecnici), fino alla provocatoria richiesta di fumare in sala, rivolta agli spettatori affinché conservassero intatta la consapevolezza di trovarsi una sera a teatro, e non nell’Aulide antica, né in Danimarca, qualche secolo prima.
È lo stesso Brecht a definire i termini del cambiamento, in particolare nel saggio quasi interamente dedicato (sia pur non intitolato, del resto come in nessun caso) allo straniamento, Neue Technik der Schauspielkunst (Nuova tecnica dell’arte drammatica), scritto nel ’40, in cui egli evidenzia come, di norma, il contatto tra il pubblico e la scena si fosse realizzato fino a quel momento attraverso “l’immedesimazione (Einfühlung)”. Il lavoro tecnico di stravolgimento di quell’abitudine fuorviante occorreva che partisse dall’attore:

rinunciato che abbia alla totale metamorfosi, l’attore recita il suo testo non come colui che improvvisa, ma come chi fa una citazione. […]
non tenta di nascondere di averla appresa [la vicenda come può essersi svolta nella realtà] con studio, allo stesso modo che l’acrobata non nasconde di essersi esercitato; anzi, sottolinea che quella è la sua – di lui attore – testimonianza, opinione, versione in merito alla vicenda.

E, in modo ancora più esplicativo, nel Kleines Organon für das Theater (Breviario di estetica teatrale, 1948):

straniare un personaggio così da farne “proprio quel personaggio” e “proprio quel personaggio in quel dato momento”, sarà possibile solo qualora si eviti di creare l’illusione che l’attore si identifichi col personaggio e la rappresentazione con l’avvenimento.

Rispetto a questi specifici elementi, la poetica di Pirandello (per non dire di Stanislavskij) si era posta in termini  assolutamente antitetici, sin dal primo saggio di argomento interamente teatrale, L’azione parlata (pubblicato sul “Marzocco”, 1899):

questo prodigio [l’azione animata] può avvenire a un solo patto: che si trovi cioè la parola che sia l’azione stessa parlata, la parola viva che muova, l’espressione immediata, connaturata con l’azione, la frase unica, che non può esser che quella, propria a quel dato personaggio in quella data situazione: parole, espressioni, frasi che non s’inventano, ma che nascono, quando l’autore si sia veramente immedesimato con la sua creatura fino a sentirla com’essa si sente, a volerla com’essa si vuole.

L’anti-Brecht, ossia l’esaltazione di una parola scenica che andasse a situarsi, come nel saggio appena citato, “nel fuoco dell’azione”, si ripete pressoché identica e si rafforza nel successivo e capitale studio su Illustratori, attori e traduttori (apparso nel volume Arte e scienza, 1908):

come l’autore, per fare opera viva, deve immedesimarsi con la sua creatura, fino a sentirla com’essa sente se stessa, a volerla com’essa vuole se stessa; così, e non altrimenti, se fosse possibile, dovrebbe fare l’attore.

E, soprattutto:

la riflessione è per lo scrittore quasi una forma del sentimento: man mano che l’opera si fa, essa la critica, non freddamente come farebbe un giudice spassionato, analizzandola, ma d’un tratto, mercé l’impressione che ne riceve. L’opera, insomma, è nello scrittore un sentimento analogo a quello che essa sveglia nello spettatore: è provata, cioè, più che non sia giudicata.
Lo stesso avviene nell’attore, che non può essere affatto considerato come uno strumento meccanico, o passivo di comunicazione. Se egli esaminasse a freddo l’opera che deve rappresentare, come farebbe
un giudice spassionato, analizzandola, e da questo esame freddo, da quest’analisi spassionata volesse assurgere all’interpretazione della propria parte, non riuscirebbe mai a dar vita a un personaggio su la scena.
[…]
Ora il carattere sarà tanto più determinato e superiore, quanto meno sarà o si mostrerà soggetto alla intenzione o ai modi dell’autore, alle necessità dello sviluppo del fatto immaginato; quanto meno si
mostrerà strumento passivo d’una data azione, e quanto più invece farà vedere in ogni suo atto quasi tutto un proprio essere e, insieme, una concreta specialità.

Lo iato esistente tra la riproposta scenica di una data realtà e quella stessa realtà considerata oltre i limiti in cui è dato riviverla sulla scena viene da Pirandello rilevato più avanti (siamo ormai giunti ai fatidici anni Venti, data di compimento dei Sei personaggi, dopo l’incunabolo della novella Colloqui coi personaggi, del ’15), direttamente in forma drammatica,
all’interno della cosiddetta trilogia del “teatro nel teatro”: tre diversi approcci alla questione della messinscena drammatica, veicolati dal rilievo assegnato alle singole specifiche funzioni. In particolare:
– nei Sei personaggi a far problema è la verità dei personaggi sia rispetto all’autore che li crea, dal quale essi si svincolano acquistando una loro autonomia di “realtà create” (piuttosto che di “fantasmi”, come si precisa nella didascalia introduttiva sulla quale torneremo), sia rispetto agli attori, da cui non riescono a sentirsi adeguatamente rappresentati;
– in Ciascuno a suo modo si pone in questione, più nello specifico, la possibilità di una somiglianza, vicina alla piena coincidenza, tra quanto si viene rappresentando sulla scena e quanto finisce con l’accadere in platea;
– in Questa sera si recita a soggetto il regista irrompe di prepotenza in una vicenda che invece, a partire da un soggetto a canovaccio, avrebbe potuto arrivare a rappresentarsi da sola, grazie alla necessaria e sufficiente spinta creatrice dell’autore.
La messinscena nella messinscena pirandelliana equipara così, trasferendoli entrambi sul palcoscenico, due piani di realtà, ossia l’accaduto e la sua rappresentazione, come rileva uno studio di Vicentini:

In Pirandello’s experiments total involvement of actors and spectators in the event enacted and total awareness of the real circumnstances in wich the performance was occurring were achieved through the device of “play within a play”.

Vien posta una cornice, data dal contesto attuale (la recitazione degli attori in teatro, che prevede la presenza di spettatori a maggior ragione percipientisi come tali), all’interno della quale si colloca il dramma, che è così un dramma nel dramma, cioè un’azione finta (nel senso etimologico) per i protagonisti della scena: nel caso dei Sei personaggi tale azione si è già svolta (o è come se) ma può continuare a svolgersi sotto gli occhi degli spettatori. Sarà perciò sempre diversa eppure sempre uguale a se stessa: particolarmente indicativa, a riguardo, la protesta della Figliastra circa la
poca aderenza a quello reale del parlatoio di madama Pace ricostruito dal regista. La “soluzione” di Pirandello sta dunque nell’intersezione dei due piani: il Giovinetto si spara un colpo di pistola durante la messinscena, la Prima Attrice di Questa sera si immedesima nel personaggio di Mommina al punto da svenire sulla scena. Il dramma, cioè, inizia nel plot e si sviluppa nella cornice, il tutto col dilemma irrisolto se si tratti di finzione o di realtà, visto che “the enactment of that story vitally depends upon its interaction with the real circumstances in wich the performance occurs”.
Di parere opposto è invece Szondi, che nell’assimilare alla modalità “epica” il carattere metateatrale delle piéces pirandelliane, ravvisa proprio nella risoluzione finale il limite di quelle. Ciò in particolare nei Sei personaggi, la cui vicenda renderebbe scopertamente evidente, col suicidio in scena del Giovinetto, la natura tutta artificiale della soluzione drammatica:

Nei Sei personaggi i due piani tematici, la cui dissociazione è il principio formale dell’opera, vengono – alla fine – a coincidere; il colpo uccide il ragazzo sia nel passato raccontato dai sei personaggi, che nel presente scenico degli attori che provano; e il sipario, che – secondo le norme del teatro epico – era già levato all’inizio per confondere la realtà della prova teatrale con quella degli spettatori, finisce per calare davvero.

Epica in senso stretto sarebbe apparsa, in effetti, una conclusione che avesse conservato, a scopo didattico ed esplicativo, intatta la separazione dei piani, o meglio ancora, che avesse lasciato il dramma dei personaggi realmente
irrisolto, senza affatto approdare al tragico finale. Al contrario, la convergenza dei piani di realtà e di rappresentazione esplicitata nella conclusione e rimarcata dal calare del sipario, quindi dalla più tradizionale delle convenzioni teatrali, pur rigettando (apparentemente) una effettiva possibilità di immedesimazione naturalistica degli spettatori, parrebbe
poi, nel concreto della duplice mise en abyme, vanificare ogni distinzione tra “finzione” e “realtà”.

4. Mann ist Mann e i Sei personaggi in cerca d’autore: lo straniamento in fabula
Come si è visto, negli anni fra il ’24 e il ’26 cresceva la fortuna di Pirandello in Germania: i Sei personaggi riscuotevano un grande successo soprattutto di pubblico (mentre la critica continuava a esprimersi con qualche riserva); nel frattempo Brecht portava a compimento la prima stesura di Mann ist Mann, testo prodromo del teatro epico, e che ha ben più di un tratto riconducibile a Pirandello, a partire dallo stesso titolo, evocativo, come poi appare più chiaramente dallo svolgimento della trama nel suo complesso, e segnatamente da uno dei suoi momenti risolutivi, del tema per eccellenza pirandelliano – perlomeno in questo scorcio di secolo – della scissione, o vera e propria frantumazione, dell’identità.
In realtà se il tema è svolto da Pirandello in chiave eminentemente filosofica, l’oscillazione identitaria nel dramma brechtiano in esame pare poco più di un espediente concesso al personaggio per cacciarsi d’impaccio. Così Galy Gay, scaricatore fattosi soldato, al momento della resa dei conti ribadisce la propria identità fittizia senza manifestare nessun  intimo tormento, anzi, arrivando persino a rinnegare sua moglie, in nome della finzione sdoppiante. A ristabilire un parallelo ideologicamente più solido con l’ideologia pirandelliana soccorre, però, l’intermezzo metateatrale recitato dalla vedova Leocadia Begbick, una sorta di “personaggio-osservatore” nelle cui parole il tema identitario riacquista la sua originaria valenza epistemologica:

Herr Bertolt Brecht behauptet: Mann ist Mann.
Und das ist etwas, was jeder behaupten kann.
Aber Herr Bertolt Brecht beweist auch dann
Daß man mit einem Menschen beliebig viel machen kann.
Hier wird heute abend ein Mensch wie ein Auto ummontiert
Ohne das er irgend etwas dabei verliert. […]
Und wozu auch immer er umgebaut wird
In ihm hat man sich nicht geirrt.
Man kann, wenn wir nicht über ihn wachen
Ihn uns über Nacht auch zum Schlächter machen.
Herr Bertolt Brecht hofft, Sie werden den Boden, auf dem Sie stehen
Wie Schnee unter Ihren Füßen vergehen sehen
Und werden schon merken bei dem Packer Galy Gay
Daß das Leben auf Erden gefährlich sei.

Siamo qui ormai praticamente alla fine del dramma brechtiano, o, almeno, al punto in cui il destino del personaggio di Galy Gay pare già interamente compiuto, e ciò accade ben prima che l’autore entri direttamente in scena con l’ammaestramento didascalico. Pirandello, invece, ancora in una fase incipitaria dell’azione drammatica, approfitta di un contrasto metascenico tra l’attore e il capocomico per abbandonarsi ad una tagliente allusione (in verità più polemica che autocelebrativa):

Il primo attore (al Capocomico): Ma scusi, mi devo mettere proprio il berretto da cuoco in capo?
Il capocomico (urtato dall’osservazione): Mi pare! Se sta scritto lì!
Indicherà il copione
Il primo attore: Ma è ridicolo, scusi!
Il capocomico (balzando in piedi sulle furie): «Ridicolo! Ridicolo!»
Che vuole che le faccia io se dalla Francia non ci viene più nessuna buona commedia, e ci siamo ridotti a mettere in iscena commedie di Pirandello, che chi l’intende è bravo, fatte apposta di maniera che né attori, né critici né pubblico restino mai contenti?

La questione dell’identità del personaggio passa così in entrambi i casi attraverso una ridefinizione della funzione autoriale: in Brecht ribadita pedagogia, in Pirandello ironia sull’accusa più frequentemente rivolta alla sua opera da Croce in poi, di aggrovigliarsi in modo tanto cervellotico da risultare, alla fin fine, incomprensibile ai più. Ma, intanto, nei Sei personaggi l’intreccio aggrovigliato resta un dramma a sé, un dramma ancora irrisolto, destinato a compiersi sulla scena. Inoltre la presunta oscurità del teatro pirandelliano costituirebbe un ulteriore elemento di vicinanza, sul piano ideologico all’opzione didattica brechtiana, incline piuttosto alla complessità retorica che al facile ammiccamento popolare.
Occorre fissare a questo punto più nel dettaglio gli elementi pre-brechtiani del testo pirandelliano, tenendo ferma anzitutto la crisi dell’identità, fecondo motivo di interscambio cui si è appena accennato, con l’ulteriore specificazione che in Pirandello essa si fa motivo scenico essenziale, a partire dal rifiuto dei personaggi della mediazione incarnata dagli attori: una funzione, questa, ritenuta inefficace a dar conto di una realtà che è scarsamente riducibile a una forma univocamente fissata dalla parola. Andrà quindi posta in rilievo la valenza delle didascalie d’autore, a partire da quella, capitale, che introduce l’arrivo dei sei personaggi: proprio a voler rimarcare il carattere vitale anzi vivo di questi nuovi protagonisti della scena venuti a soppiantare i più classici Attori, Pirandello richiede che si adottino nella rappresentazione una serie di espedienti dalla natura spiccatamente teatrale, a partire dalla maschera, valevole a interpretare “il senso profondo della commedia”, fino all’abbigliamento, che, coerentemente, dovrà conferire ai personaggi un innaturale volume “statuario”, arrivando all’attitudine statica dei volti, in particolare di quello della Madre,
dal quale sgorgheranno delle lacrime “di cera […] come si vedono nelle immagini scolpite e dipinte della Mater dolorosa nelle chiese”. Da questo momento in poi le didascalie d’autore andranno sempre più a sottolineare, unitamente alle reazioni del capocomico al racconto dei personaggi, l’effetto prevalentemente scenico del mythos. Se le didascalie fungono, così, insieme, da reali indicazioni di regia e da commento in fieri della vicenda dei personaggi, questa si colloca in una sfera di precarietà morale che da un lato ricalca un copione ormai consueto della narrativa pirandelliana, in particolare della novellistica, con l’istituto familiare continuamente minato da una serie di accidenti fatali e passionali; e dall’altro lascia intravedere, mutando quel che c’è da mutare, una concezione del personaggio che diremmo pre-brechtianamente “discutibile”, agendo in un modo che lo spettatore si senta inevitabilmente chiamato a deprecare. Già
prima che l’incontro incestuoso sia rivissuto sulla scena, quanto meno sospetta appare, a questo riguardo, la ricorrente e quasi martellante ansia di riviverlo ostentata dalla Figliastra:

allora vedrà che io prenderò il volo! Sissignore! prenderò il volo! il volo! E non mi par l’ora, creda, non mi par l’ora!

Il personaggio, anzi, quasi non fa che ribadire la sua ossessione di rivivere la torbida vicenda familiare, destinata a culminare, nell’ambito della rappresentazione, con una doppia morte, quella della bambina caduta nella vasca e quello del fratello suicida:

È la mia vendetta! Sto fremendo, signore, fremendo di vederla, quella scena! […]
Ma sì, subito! subito! Mi muojo, le dico, dalla smania di viverla, di viverla questa scena! Se lui vuol essere subito pronto, io sono prontissima!

Sia pur entro un sistema teatrale dalla natura e dagli scopi differenti, esiste dunque un momento di consonanza in Pirandello con una concezione straniata del teatro, “alla Brecht”, momento che si traduce drammaturgicamente nella presa di coscienza da parte dei personaggi della deformazione che inevitabilmente la loro vicenda subisce, nel passaggio dalla verità vissuta alla narrazione scenica. Ancora una volta sono il padre (una sorta di portavoce delle idee pirandelliane sull’identità in frantumi nel personaggio moderno) e il capocomico (altra figura chiave di mediazione) a farsi voce di tale acuta consapevolezza:

Il capocomico: E va bene: «i personaggi»; ma qua, caro signore, non recitano i personaggi. Qua recitano gli attori. I personaggi stanno lì nel copione (indicherà la buca del Suggeritore) – quando c’è un copione!
[…]
Il padre: Eh, dico, la rappresentazione che farà – anche forzandosi col trucco a somigliarmi… – dico, con quella statura… (tutti gli Attori rideranno) difficilmente potrà essere una rappresentazione di me, com’io realmente sono. Sarà piuttosto – a parte la figura – sarà piuttosto com’egli interpreterà ch’io sia, com’egli mi sentirà – se mi sentirà – e non com’io dentro di me mi sento.

Niente di più lontano, in questo caso, dal “mood” stanislavskiano, inteso come impossessamento quasi mistico del personaggio da parte dell’attore.
Infine, anche i momenti di “azione parlata” in cui Pirandello è solito esprimere la propria poetica potrebbero in qualche misura venir ricondotti a un’esigenza di straniamento. Si tratta per i Sei personaggi di sequenze in parte già qui evidenziate, tra le quali spicca, entro uno dei frequenti contrasti tra padre e capocomico, il più acuto momento di consapevolezza identitaria:

Il capocomico (rivolgendosi quasi strabiliato, e insieme irritato, agli Attori): Oh, ma guardate che ci vuole una bella faccia tosta! Uno che si spaccia per personaggio, venire a domandare a me, chi sono!
Il Padre (con dignità, ma senza alterigia): Un personaggio, signore, può sempre domandare a un uomo chi è. Perché un personaggio ha veramente una vita sua, segnata di caratteri suoi, per cui è sempre «qualcuno». Mentre un uomo – non dico lei, adesso – un uomo così in genere, può non esser «nessuno».

Il cerchio si chiude così con un ritorno alla sequenza brechtiana segnalata in apertura di paragrafo: se è difficile ipotizzarne una discendenza genetica dal precedente pirandelliano, è altrettanto implausibile escludere definitivamente una qualche parentela. Allievi e maestri non si riconosceranno sempre reciproca influenza, ma possono ancora consentirsi di dialogare, a distanza e nel reciproco silenzio.

Gilda Policastro

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