Pirandello a Berlino: un esilio volontario

Di Nino Borsellino

La motivazione dell’espatrio è dunque chiara: Pirandello è tentato dall’occasione offerta alla sua drammaturgia di superare i confini del teatro e di sfruttarla in prima persona coma sceneggiatore dopo la sfruttamento che il cinema aveva già fatto della sua opera narrativa

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Marlene Dietrich, Maria Paudler, Luigi Pirandello, Liane Haid, Max Hansen, Anita Davis, Anni Ahlers e Theodore Däubler. 1929.
Marlene Dietrich, Maria Paudler, Luigi Pirandello, Liane Haid, Max Hansen, Anita Davis, Anni Ahlers e Theodore Däubler. 1929.

Pirandello a Berlino: un esilio volontario

da Deutsches Pirandello-Zentrum e.V.

La Germania fu per Pirandello una terra d’esilio, di un esilio ovviamente volontario e comunque dettato da circostanze e opportunità personali che però, riferite a una biografia epocale qual è quella del più grande scrittore italiano del Novecento, suggeriscono considerazioni che trascendono i dati esclusivamente privati, si intrecciano insomma con la storia culturale, e non solo, del secolo appena passato.
Aveva ventidue anni Pirandello quando raggiunse l’Università di Bonn dove si laureò nel marzo 1891 con una dissertazione in tedesco di fonetica e morfologia della parlati di Girgenti, la città dove era nato e di cui avrebbe ricreato in teatro l’espressività dialettale, con la sua doppia cadenza urbana e contadina, del laico Ciampa e del dionisiaco Liolà. Aveva accettato una borsa di studio su sollecitazione del suo maestro di filologia romanza, Ernesto Monaci, per evitare le sanzioni accademiche a carico di un suo comportamento scolastico ritenuto offensivo della dignità di un suo permaloso docente di latino alla Sapienza di Roma. E quello fu il primo espatrio, peraltro felicemente trascorso non solo tra studi e letture, ma anche con ritorni di fiamma poetica, di poeta in proprio e traduttore goethiano, favoriti da ben controllati ardori amorosi. Poi vennero i decenni romani, con un’intensa attività di saggista culminata nel suo libro-breviario di teoria e di poetica, nell’Umorismo, del 1908, e con la rivelazione ai primi del secolo della sua originale creatività di narratore, di romanziere e novelliere, a lungo misconosciuta, anche dopo la pubblicazione del Fu Mattia Pascal, nel 1904, e perfino dopo Si gira, il primo grande romanzo del cinema, apparso nel 1915, quando ormai si era inaugurata la stagione in Italia e all’estero e consacrata dal dibattito critico, specie per l’effetto choc provocato dai Sei personaggi in cerca d’autore nell’anno di grazia 1921.

Queste tappe di un cammino d’artista non facile ma pienamente compensato da un traguardo di gloria vanno ricordate a noi stessi che per lunga o breve consuetudine di studio puntualmente le ricordiamo per interrogarci sulle ragioni della crisi “italiana” che indusse Pirandello, dopo quella marcia trionfale, a considerarsi un esule perenne, “uomo con la valigia!”, scrittore senza fissa dimora. In quegli anni Gabriele D’Annunzio stava edificando sul lago di Garda il Vittoriale, il suo splendido eremo di eroe e artista.

Pirandellianamente, si fissava in una forma, nella forma che avrebbe dovuto riepilogare come in un sacrario di memorie la sua vita “inimitabile”. Pirandello, al contrario (sapeva di incarnare il tipo opposto di scrittore, scrittore di cose, non di parole), non pensava di rendere estetica la sua esistenza, viveva con uno stile di vita semmai imitabile e nelle avversità soffriva da povero cristiano, assumendo, anche da laico quale egli radicalmente era, il modello dell’imitatio Christi. E si portava dietro le sue croci, anche quando il risarcimento della fama, che assiduamente cercava, avrebbe dovuto pienamente soddisfarlo. Pesava anzitutto la croce della sua tragedia familiare, il dramma di un vincolo coniugale spezzato dalla follia della sua amata Antonietta e che l’aveva imprigionato per il resto della sua esistenza nelle maglie di un’etica maritale improntata a un regime di castità. Un super-io forse di marca siciliana ne condizionava il comportamento, e forse anche sopravviveva nei confronti dei letterati connazionali il risentimento per un tardivo riconoscimento di grandezza non tutto risarcito dal sopravvenuto successo e dalla fama internazionale.

Quanto diverso, in questo, dall’altro grande misconosciuto, dal triestino Svevo, che pure era un suo consanguineo borghese in letteratura, diversamente dal divino, eccezionale Gabriele. Se fosse vissuto più a lungo, l’autore della Coscienza di Zeno avrebbe continuato a compiacersi della grazia da cui era stato toccato, come da un miracolo, con l’annuncio dell’apparizione di un capolavoro fatto dell’amico Joyce. Il commerciante Ettore Schmitz, letterato meno regolare e scrittore intermittente, non poteva chiedere niente di più a risarcimento della sua passata oscurità. Ma Pirandello aveva altre ambizioni personali e pubbliche. All’indomani del delitto Matteotti aveva dato scandalo con la sua adesione al Partito fascista. Contava su Mussolini, sull’appoggio che il duce gli avrebbe dato per la fondazione di un teatro nazionale o di più teatri stabili di Stato. Nel ’25, quando inaugura con La sagra del Signore della Nave l’attività della compagnia da lui diretta, il Teatro d’arte, Pirandello ha aggiunto alle sue competenze di autore quelle di regista, che del resto tendevano a manifestarsi con l’affollarsi dei corsivi delle didascalie nelle sue opere. Per sollecitare il favore dello Stato, il programma della compagnia non sembrava particolarmente allettante. La saga metteva in scena una rappresentazione popolare anticelebrativa, con un’umanità imbestiata che si divide tra le litanie di una processione penitenziale osannante un Crocefisso scarnificatissimo e una plebe orgiastica che si esalta nel rituale scannamento del maiale come sacrificio paradossalmente propiziatorio. Quanto al repertorio, Pirandello sceglieva tra testi italiani e stranieri caratterizzati da procedimenti sperimentali, d’avanguardia, che rendessero testimonianza nei risultati o nelle intenzioni di una inedita creatività. La politica dello spettacolo del fascismo cominciava ad orientarsi, come in tutti i regimi totalitari, verso forme di coinvolgimento popolare, di massa. Da lì a poco risuoneranno le parole d’ordine di Mussolini che troveranno più di un’eco anni dopo, nel 1934, nel grande congresso mondiale della Fondazione Volta dell’Accademia d’Italia promosso dallo stesso Pirandello. Con queste premesse, l’impresa del Teatro d’arte non poteva avere un sicuro avvenire. La compagnia si sciolse a Viareggio il 15 agosto del 1928; nell’autunno dello stesso anno Pirandello si trasferì a Berlino. Aveva scritto all’amico Ojetti: ” tra pochi giorni mi sarò liberato della Compagnia; ma non riesco più a stare fermo; andrò ancora fuggendo, e il più lontano possibile dall’Italia, forse andrò in Germania; forse nell’America del Nord”. Infine, il 29 di quel mese l’annuncio: “mi tratterrò a Viareggio sino alla fine d’Agosto in attesa d’esser chiamato in Germania da una grande Casa Cinematografica che mi ha proposto di mettere sullo schermo i ‘Sei personaggi'”.

La motivazione dell’espatrio è dunque chiara: Pirandello è tentato dall’occasione offerta alla sua drammaturgia di superare i confini del teatro e di sfruttarla in prima persona come sceneggiatore dopo la sfruttamento che il cinema aveva già fatto della sua opera narrativa, nel ’25, portando per la prima volta sullo schermo con la regia di Marcel L’Herbier e l’interpretazione di Ivan Mosjoukine Il fu Mattia Pascal. Il cinema era per lui la più grave minaccia per l’avvenire del teatro, ma forse proprio per questo si era preposto di servirsene dall’interno, essendo perfettamente consapevole della crescita irreversibile della sua diffusione tecnico-riproduttiva, mente dall’estero continuava a deprezzarne il valore estetico arrivando poi a contrastare l’avvento del film parlante e proponendo semmai in film esclusivamente sonoro, la melocinematografia, che facesse nascere le immagini dalla musica. Ma bisogna tener conto di altre motivazioni più o meno palesi.

Nel suo piano di conquista del cinema, il ruolo principale è occupato dalla presenza di Marta Abba, dal desiderio di assicurare alla giovanissima adorata attrice una fama sopranazionale, e nazionale di ritorno, alla quale il maestro, ancora più dell’allieva, era convinto che potesse aspirare. L’aveva promossa sùbito a primadonna del Teatro d’arte e per lei aveva voluto rinnovare con la tragedia Diana e la Tuda, del ’26, il mito di Pigmalione, rivissuto però al contrario, come dramma di un artista che vuole servirsi della Vita tutta carnale della sua modella per dare una Forma perenne e insieme vibrante d’esistenza a una immobile dea di marmo. Per lei aveva scritto L’amica delle mogli, La muova colonia e Lazzaro, e scriverà Trovarsi, sempre celebrando il rito della sublimazione della donna, madre prostituta attrice, a seconda del personaggio da incarnare. Pirandello sentiva di poter fare per lei più di quello che D’Annunzio aveva fatto per la Duse, con la quale del resto il Vate s’era unito quando il primato di quella grande interprete si era già da tempo consolidato. Invece Marta era ancora cera nelle mani di un’immagine offerta a molti, al pubblico innumerabile delle sale di tutto il mondo. Per questo si era trasferito con lei a Berlino, dove Marta dimorerà nella stessa casa in compagnia della sorella, e perciò garantendosi una convivenza di tipo filiale non di coppia per cinque mesi, dall’ottobre 1929 al marzo 1929, quando tornerà in Italia senza aver tratto vantaggio artistico da quel soggiorno e per costruire una sua compagnia di giro.

Eppure quei mesi trascorsero serenamente, se non felicemente. Corrado Alvaro, che visse a Berlino come corrispondente della “Stampa” in quello stesso periodo, ci ha lasciato una memoria insostituibile di un Pirandello “visto da vicino”, come sapeva vedere lui, con la capacità che rivelerà in pieno nel racconto della morte del “grande uomo” , come egli chiamava per convinzione, non per devozione enfatica, il grande scrittore. È il racconto poi recuperato per fare da prefazione all’edizione postuma delle Novelle per un anno. I dati di una vita tanto poco “estetica” o superumana vi si intrecciano, una volta tanto senza ipoteche aridamente concettuali, con quelli della forma via via conquistata e rinnovata dall’opera. E tutt’altro che concettualistico e problematico Alvaro ci appare in una luminosa inquadratura conservata in quel libro segreto, in quell’eccezionale diario di in ventennio, 1927-’47, intitolato Quasi una vita, che racchiude tanta storia di un’Europa tarlata e poi lacerata seduto con Pirandello “a uno dei trecento tavoli di Zoo, una della tante sale da vallo per il piccolo borghese berlinese”, ed egli l’osserva in silenzio tentando di indovinare i suoi pensieri.

Pirandello portava i suoi gilè abbottonati fino al mento che finiscono col colletto e la cravatta di color grigio. La sua figura color argento, geometrica, staccava sulla tappezzeria rossa del luogo, e al tavolo basso pareva un oggetto d’arte, con la testa fine e la barba a punta. Sembrava una maschera antica di teatro. Mi figuravo che cosa potesse pensare. Sono i particolari e le creature che lo interessano; non accade mai di sentirgli enunciare un sistema. Di Londra si ricorda una signora ubriaca e seminuda trascinata dai camerieri fuori dell’atrio di un albergo. Di Parigi ricorda un gruppo di inglesi davanti a una vetrina coi libri di Wallace.

Ma poi l’osservazione minuta genera qualche considerazione generale sull’influenza esercitata dalla civiltà americana sulla società tedesca postbellica. Il fenomeno era già stato avvertito da Giuseppe Antonio Borgese in età prebellica nel libro La Nuova Germania, del 1909. Negli anni Venti l’americanizzazione doveva essere ancora più evidente se Pirandello esprime la preoccupazione accorata che Alvaro registra.

La vita oggi ha troppo poco valore per i tedeschi. Vita e morte sono i due cardini del pensiero degli uomini, e qui hanno un valore transitorio. Da questa relatività di valori, la morale dell’America ha preso la sua forza di espansione. Per noi italiani, vira e morte significano ancora qualche cosa. Sono due termini entro cui dobbiamo adempiere un dovere. Noi sappiamo ancora che il mondo non finisce con noi.

Nei confronti di Pirandello Alvaro nutriva sentimenti filiali che manifestava con compiacimento, annotando episodi di ironica galanteria o modi affabilmente paterni.

La signora Streseman [la moglie del grande statista, premio Nobel della pace] ha chiesto a Pirandello, per un ballo mascherato, l’idea di un travestimento stile 1950. “Una maschera, i guanti e per il resto nuda”, è stata la risposta. Pirandello abita un appartamento mobiliato a Hercules Brüke. Ha dimenticato il tedesco. A Bonn, studente, aveva scritto in tedesco la sua tesi di laurea sull’idioma della sua Agrigento.

“Quando vado a trovarlo, la sera, si passano della belle ore. Vivono nello stesso albergo le due sorelle Abba. A volte si esce per la città che la sera è tutta un abbraccio, e noi come un gruppo di discepoli o di collegiali intorno a Pirandello, questo padre siciliano, e che resta sempre padre con le donne ce lo attorniano.”

Qui i sentimenti filiali fanno aggio su quelli paterni di cui lo scrittore-padre non si contentava. Nel ’29 Alvaro rientra in Italia, e in quella primavera il gruppo di famiglia si scioglie col ritorno delle sorelle Abba in patria. Pirandello resta a Berlino, ed è disperato. Le lettere a Marta tra il 14 Marzo di quell’anno e il 10 giugno del ’30 formano una gran massa epistolare, occupano poco meno di cinquecento pagine dell’edizione dei “Meridiani” Mondadori curata con amorevole competenza da Benito Ortolani. Una lettera al giorno, qualche volta di più, qualche volta di meno, ed è tutta un’invocazione, una continua, mai soddisfatta richiesta d’amore. Per Marta, Pirandello non è neppure il padre sostituto, resta il pigmalione da cui ella attende solo vita artistica, niente di più. “Per me – dirà molto dopo – era come un dio”. Pretendeva che restasse tale, che non si incarnasse neppure col suo nome, come egli aveva tentato di fare firmandosi confidenzialmente Luigi e poi accettando di non derogare al titolo di “maestro”. Eppure per tutto il tempo che resta solo a Berlino Pirandello continua a intrecciare rapporti con editori, traduttori, impresari, registi per realizzare il film dei Sei personaggi e mettere in scena l’ultimo testo della trilogia del teatro nel teatro, il più clamorosamente provocatorio, Questa sera si recita a soggetto. Il suo risentimento nei confronti del suo Paese, per l’incomprensione e l’avversione ai suoi progetti di rinascita del teatro, risuona perfino stridulo a distanza e coinvolge con giudizi ingenerosi amici e seguaci. Neppure la nomina nel 1930 a Accademico d’Italia sembra acquietarlo. Continua a starsene nel suo esilio a Berlino, dove, pur dicendosi poco incline alla vita di società, frequenta sale teatrali e cinematografiche, valuta il repertorio, giudica interpretazioni e regie.

Le lettere a Marta descrivono anche una topografia pirandelliana della città entro la quale si potrebbero ricostruire gli itinerari dello scrittore: un ristorante italiano, “Aida”, di cui era assiduo; qualche cabaret e una serata in casa di un teatrante con “donnette: attrici belline, ballerinette, e ragazze viziose”: un milieu artistico nel quale forse avrà isolato la figura dell’Ignota di Come tu mi vuoi, anch’essa costruita su misura della sua Marta. Berlino, la capitale di fatto della Repubblica di Weimar, era allora una città seducente e insieme inquietante. Forse film e romanzi costruiti con la tecnica del cineocchio alla Vertov o del montaggio narrativo plurimo, come Berlin Symphonie di Walter Ruttmann del 1928, e il romanzo di Alfred Doeblin, Berlin Alexanderplatz del 1929, possono documentare quest’aspetto duplice della metropoli abitata in quel biennio da Pirandello e da altri italiani e da artisti e intellettuali tedeschi, austriaci e di altre nazionalità. Di Kraus, Brecht, Benjamin non c’è traccia nelle lettere a Marta. Invece Alvaro, da attento spettatore della vita culturale berlinese (era del resto un inviato di quotidiani e settimanali) li individua tra altri emergenti o già noti protagonisti della cultura tedesca e ne dà penetranti caratterizzazioni. Così come cerca di capire le ragioni che attraggono a Berlino gli italiani e più in particolare i siciliani: dopo Borgese, il giornalista e scrittore Pietro Solari, il narratore e drammaturgo Pier Maria Rosso di San Secondo. Da Rosso, Alvaro riceve una risposta lapidaria: “Sto qui perché è centrale”. Stoccolma, Parigi, Mosca Londra, Zurigo le sentiva molto più vicine lì a Berlino che stando in altre città. Lì avvertiva più che altrove quella centralità europea anche, nel bene i nel male, come apertura alla modernità americana. Sempre Alvaro, in giro per la città, domandava a una sua accompagnatrice: “Roma ha forma di nave, Parigi di cuore. E Berlino?”. Berlino, risponde lei, “ha la forma di chiocciola, o di stomaco. difatti è lo stomaco della Germania”. E poi aggiunge qualcosa che a una lettura postuma, datata secondo dopoguerra, provoca un soprassalto: “Quel tempio qui vicino, con la cupola senza croce, un poco affumicata, è il forno crematorio”. E lo mostrava, evidentemente, a dito.

Dallo stomaco tedesco provenivano in ogni caso brontolii allarmanti. Il diarista di Quasi una vita sente parlare di semitismo e antisemitismo, vede apparire nelle birrerie le prime squadre in camicia bruna con divisa simile a quella fascista. Ma non crede che in Germania possa accadere quel che è accaduto in Italia, la dittatura, il fascismo. Il grande crocevia di culture che è Berlino sembra garantire una tolleranza forse babelica ma fervida di diverse istanze sociali e etniche. Anche Pirandello non sembra nutrire sospetti di dittatura e di minaccia razzista. Le sue frequentazioni artistiche sono quasi esclusivamente ristrette all’ambiente teatrale, e non sono sempre amichevoli, Con Hans Feist, traduttore delle sue opere, si arrivò nel ’29 alla rottura del contratto e a una conseguente citazione in tribunale per responsabilità dello scrittore. E sarà stata l’irritazione per queste beghe giudiziarie a provocare, in una lettera a Marta del settembre di quell’anno, uno sfogo antisemita certo soltanto umorale e comunque, a leggerlo col senno o meglio il terrore di poi, quanto meno imbarazzante: “qua sto combattendo la fede di Cristo tra tutti questi giudei d’avvocati, editori, direttori di teatri, echi più ne metta”.

In quella schiera di teatranti non ariani allora, a quanto pare, dominante, c’era anche il demiurgo della scena, l’artefice del gran teatro del mondo, Max Reinhardt. A lui Pirandello nel 1930 dedica la traduzione tedesca di Questa sera si recita a soggetto in segno di riconoscenza per aver dato nel 1924 “magica vita sulla scena tedesca ai Sei personaggi in cerca d’autore“. Lo attraevano anche i prodigi del teatro politico di Erwin Piscator che gli dicono appunto “prodigiosa” ma avversata duramente dai revanscisti della sconfitta tedesca per la sua foga antimilitarista. Ma certo è più attento alla creatività spettacolare del repertorio di Reinhardt, che ammira ma anche paventa. Questa sera, l’ultimo testo della trilogia, riflette questo suo duplice sentimento. Ed è ancora Alvaro, questa volta in una corrispondenza da Berlino per “L’Italia letteraria” del 14 Aprile 1929, a testimoniarlo con le parole stesse dello scrittore:

“Ammiro il teatro tedesco per la sua disciplina e i mezzi perfetti di cui dispone. Qui il direttore può compiere tutti i miracoli di tecnica. Gli attori sono i più disciplinati e i più meticolosi del mondo. Essi non recitano, vivono con tutte le parvenze della realtà minutamente osservata. Vi manca fra loro, forse, l’attore nel senso italiano della parola, ispirato e improvvisatore, sia pure tra una folla di mediocri comparse. Qui dal primo all’ultimo sono tutti perfetti. Spesso si va a vedere a teatro un grande attore, e non gli sentiamo dire che poche battute. Ma come tutto questo giova all’equilibrio e all’efficacia della rappresentazione! E i loro maggiori attori li ha veduti? Pallenberg, Werner Kraus, quello che in questo momento interpreta Falstaff di Shakespeare, in costume 1830 e il monocolo, e la Hoflich e non so quanti altri. Ha veduto come hanno recitato per Verbrecher: commedia mediocre, recitazione perfetta. Ma la possibilità di ottenere tutti gli effetti, la tecnica portata alla sua massima perfezione, sta finendo con l’uccidere il teatro. Basta talvolta a questi regisseurs un abbozzo di commedia, che permetta di portare sulla scena cose mai lassù vedute, per muoverli a farne uno spettacolo. Le danze, le acrobazie, il circo equestre, i mutamenti di scena rapidi e con macchine potenti i perfette, hanno finito col diventare altrettanti mezzi di corruzione del teatro stesso. Io col mio dramma nuovo intendo reagire a questa tendenza.”

Queste dichiarazioni non vanno trascurate. La partita a tre, autore-regista-attore si conclude in Questa sera si recita a soggetto alla pari. Pirandello la gioca usando gli stessi espedienti tecnici degli spettacoli tedeschi che rischiano di corrompere il teatro. Ma il teatro trova nell’opera pirandelliana la sua salvezza all’interno, per la presenza del personaggio, principio creativo della drammaturgia pirandelliana inscindibile da un atto di parola che la magia registica non può cancellare. Come si sa, la prima assoluta di Questa sera si recita a soggetto ebbe luogo il 25 gennaio 1930 in provincia, seicento chilometri a est di Berlino, a Königsberg, la patria di Immanuel Kant, al quale Pirandello rese omaggio visitandone la casa. Il dramma tradotto da Harry Kahn e diretto da Carl Müller ebbe un notevole successo di pubblico e di critica che non si ripeté in maggio a Berlino con la messinscena di Gustav Hartung al Lessing Theater. Fu uno spettacolo violentemente contestato, a parere di Pirandello, per l’opposizione organizzata dal Feist, divenuto suo nemico, e anche per il sospetto che lo stregone-regista della pièce, il tirannico e grottesco dottor Hinkfuss, fosse la caricatura del nume teatrale di Berlino, di Max Reinhardt: un sospetto forse paventato da Pirandello e prevenuto con l’alibi della dedica riconoscente che apre la stampa tedesca dell’opera, la quale per questo può leggersi come excusatio non petita. come che sia, il fiasco deve aver contribuita a determinare la partenza di Pirandello nel giugno del 1930 da Berlino. Una causa in corte d’appello con l’attore Camillo Pilotto lo fece rientrare a Roma, da dove presto ripartì per Parigi, non più per Berlino. La sua nuova destinazione sarebbe stata l’America con più concrete proposte teatrale e cinematografiche. Henry Ford aveva infatti dichiarato che con Pirandello si potevano fare buoni guadagni.

Il biennio dell’esilio berlinese s’era dunque concluso, e l’addio non era stato tranquillo. A conti fatti, il film per cui si era trasferito non si era realizzato e il terzo mito, I giganti della montagna, concepito in Italia, fermentava ancora di sviluppai e di una soluzione trovata solo molti anni dopo e non elaborata, in articulo mortis. Ma era stato un biennio fecondo di opere e di fatti. La critica ha ipotizzato convergenze di poetica e di cinema all’arte figurativa. Non credo che l’eventuale concordanza sia riconducibile al soggiorno berlinese. Sono convinto che la visualizzazione espressionistica, narrativa o scenica, sia una componente innata dell’opera pirandelliana, prima ancora che essa appaia come percezione dell’oltre, di quel sentimento della realtà estraniante e insieme rivelatore dichiarato nel romanzo Si gira e messo in luce in pagine memorabili di Giacomo Debenedetti. Gli anni berlinesi sono stati soprattutto anni di un nuovo apprendistato teatrale.

Cominciano con una sceneggiatura cinematografica a quattro mani e si chiudono con un testo che dichiara la sua fedeltà al teatro, al suo fondamento estetico ed etico nella parola. Più tardi, quando nel settembre del ’36 per poco vi ritornerà per partecipare a un congresso di autori e editori, Berlino gli sembrerà “press’a poco com’era, ma quasi spenta. La cita teatrale segnatamente. Non si produce nulla”. La diaspora degli intellettuali ebrei aveva appunto distinto il fuoco sempre vivo della Germania artistica di Weimar, e il nazismo ne doveva cancellare anche la memoria. Lo stesso teatro di Pirandello non si rappresentava da quattro anni perché tradotto da un ebreo, e per riprenderlo in repertorio c’era bisogno della nuova traduzione di un ariano e di un’autorizzazione dall’alto, di Goebbels in prima persona. “Qua ci vuole l’autorizzazione per tutto – scrive nella stessa lettera a Marta; e per tal riguardo si sta molto peggio che da noi”. Un lume alla fine s’accende nella sua coscienza d’artista che era sempre rimasta libera. Ma è tardi, ormai alla vigilia della morte, per capire si quella luce della sua coscienza politica avrebbe potuto espandersi di là da una rivendicazione di orgoglio intellettuale. Pirandello scrive quest’ultima lettera da Berlino, ma le notizie che dà per consuetudine epistolare non sono più interessanti né per Marta né per lui. “Ho l’impressione che non debbano più interessarTi, come non interessano più a me”. La sua Berlino, infatti, era un’altra; un altro era quel mondo, il mondo di ieri rievocato nostalgicamente dal traduttore di Non si sa come, da Stefan Zweig. Era lo stesso mondo di cui aveva fatto esperienza nel suo esilio berlinese Luigi Pirandello.

Nino Borsellino

Pirandello-Symposium, Potsdam 2000

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