Padri e figli. La vita ardente di Luigi e Stefano Pirandello

Di Pietro Milone

«Io a mio Padre ho dato esattamente quarantadue anni della vita mia. […] Comincio ad aver diritto che le relazioni che mi sono scelto in mio nome restino nei limiti dei miei interessi personali, così a lungo e troppo da me negletti per fare quelli di mio Padre.»

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Luigi e Stefano Pirandello
Stefano Pirandello con il padre Luigi e il fratello Fausto (Roma, 1931)

Padri e figli. La vita ardente di Luigi e Stefano Pirandello

da «Pirandelliana», Rivista internazionale di studi e documenti, Volume 1, 2007 – Fabrizio Serra editore, Pisa – Roma

da LIBRAweb

     Nell’agosto del 1924, la rivista «Comoedia» pubblicava La casa a due piani, una commedia di Stefano Landi. Nella pagina che la introduceva campeggiava la foto dell’autore – un giovane bruno, le labbra sottili leggermente contratte sul mento sfuggente, l’espressione assorta, concentrata in uno sguardo intenso – contornata da una sua breve presentazione, non firmata, che immediatamente sollevava il velo dello pseudonimo e ne forniva le generalità: «nato in Roma il 14 giugno 1895 da Luigi e Antonietta Pirandello».
Con quello pseudonimo Stefano aveva intrapreso, già dal 1920, la carriera giornalistica e letteraria e, per raccomandarlo al «Corriere della sera », Luigi Pirandello ne aveva scritto (il 10 ottobre 1921) all’amico Ugo Ojetti:

La vita, o si vive o si scrive. Io non l’ho mai vissuta, se non scrivendola. Altri pensano a darmi alimento e cura. Ora non ho più nessuno. I miei due ragazzi sono purtroppo, come me: hanno anch’essi il baco nostro, con la disgrazia di voler fare proprio sul serio: e l’uno, il maggiore, scrive, e l’altro è avviato alla pittura. […] Del primo avrai forse letto sulla Tribuna e sull’Idea Nazionale qualche articolo. Si firma Stefano Landi per non mettere nella letteratura il guajo d’un altro Pirandello. Ma ha un suo modo parti[co]lare di vedere e rappresentare la vita, che non ha niente da vedere col mio. [1]

 [1] Luigi Pirandello, Carteggi inediti con Ojetti, Albertini, Orvieto, Novaro, De Gubernatis, De Filippo, a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Roma, Bulzoni, 1980, p. 82.

Quel suo particolare modo di vedere e di scrivere – affiancato peraltro, inizialmente, anche da una certa dose di pirandellismo – era nato nella lunga prigionia di guerra, durante la quale Stefano aveva scritto una «prima dozzina di commedie, tutte ripudiate » tranne la Casa a due piani e L’uccelliera. La nota biografica di «Comoedia» attribuiva il ritorno al teatro di Stefano alla precarietà della sua attività giornalistica, dandone conto con un lieve ma insistito sarcasmo (sull’esser “figlio di papà” come ostacolo, piuttosto che come agevolazione, alla carriera) che riflette il punto di vista di Stefano e ne tradisce, mi sembra, la mano:

Dopo aver appreso ad impaginare, a fare «cucina» e «cronaca nera», licenziato da per tutto come «figlio di papà» che, tanto a licenziarlo «non c’è il rimorso di metterlo in mezzo a una strada », ineluttabilmente figlio di Pirandello, sposo della nuora di Pirandello, padre della nipotina di Pirandello, trovò in Lucio d’Ambra un vero amico di Pirandello che gli fece rappresentare al «Teatro degli Italiani» l’atto unico I bambini.

Quella prima messinscena era avvenuta l’8 maggio del 1923. Un mese dopo, al Teatro Argentina di Roma, la compagnia di Dario Niccodemi, sostituito nella direzione da Luigi Pirandello, aveva rappresentato la Casa a due piani. [2]

 [2] Qui e in seguito, per la maggior parte dei riferimenti biografici, mi avvalgo della fondamentale ricostruzione cronologica premessa (con il titolo La vita e l’opera) a Stefano Pirandello, Tutto il teatro, a cura di Sarah Zappulla Muscarà e Enzo Zappulla, Milano, Bompiani, 2004. Essa riporta le cronache teatrali del 9 giugno. Cfr. la lettera di Pirandello alla figlia (datata 2.6.1923): «Tra quattro giorni, come Stefanuccio ti avrà scritto – andrà all’Argentina la sua Casa a due piani. Gliela metto io in iscena, per incarico di Niccodemi che è partito» (Luigi Pirandello, Lettere a Lietta, trascritte da Maria Luisa Aguirre d’Amico con una postfazione di Vincenzo Consolo, Milano, Mondadori, 1999, p. 99)..

«Comoedia» ne rievocava le «sim patiche manifestazioni di plauso, al “figlio di papà”, battezzato anche dal loggione, “Giacomino” e “Pensaci, Giacomino!” fra la commossa ilarità della sala, mentre cantavano raganelle, squittivano “lingue di passero” e abbaiavano strani cagnolini meccanici». [3]

 [3] Si veda anche quanto scriveva Pirandello a Lietta il 5.7.1923: «Stefano, sempre imbrigato al “Giornale di Roma” […] non ha più tempo da far nulla. […] Non ti ha scritto neppure dell’esito contrastato della sua Casa a due piani replicata per due sere all’Argentina. Non puoi immaginarti quanto io ne abbia sofferto! Il pubblico dimostrò fin da principio il suo mal animo, beccando e ridendo. Ma con tutto ciò, il terz’atto ebbe il potere di far tacere tutti i malintenzionati e di imporsi magnificamente; tanto che la fine della commedia fu salutata da sette ovazioni. Insomma serata di battaglia. E Stefano, se non ha vinto del tutto, se n’è uscito con onore» (Ivi, pp. 101-102).

        Le vicende della commedia erano trasparentemente autobiografiche, [4] a conoscere la storia della famiglia Pirandello, là ove si sostituisca alla morte fisica del personaggio della madre la morte civile dell’internamento in una clinica psichiatrica di Antonietta Portolano in Pirandello, a seguito di una decisione di Luigi alla quale Stefano, al suo ritorno dalla prigionìa di guerra, inizialmente, si oppose con forza. [5]

 [4] La casa a due piani inscenava le vicende della famiglia Assalente: Federico, il «Maestro», famoso architetto, la moglie Evelina e i figli Piero, Lidia e Fabio, nella loro villa frequentata dai giovani amici dei figli. Vicende antecedenti e successive alla traumatica scomparsa di Evelina, inattesa dai figli, sorpresi dall’improvviso precipitare di una malattia che quasi credevano il frutto di un’eccessiva preoccupazione paterna. Scomparsa anche della felicità o dell’illusione di essa: di «una casa nata dall’amore», come la giudicava il giovane Ludovico Agliani, amico di Piero, ma non questi, consapevole che sua madre era «così diversa da tutte le madri di questo mondo».

 [5] L’importante e sinora inedito particolare biografico emerge dalla ricostruzione della vicenda, attraverso le lettere tra Luigi e Stefano, a conclusione de Il figlio prigioniero. Carteggio tra Luigi e Stefano Pirandello durante la guerra 1915-1918, a cura di Andrea Pirandello, Milano, Mondadori, 2005.

        La casa a due piani inscena la protratta passione sentimentale ed erotica dei due maturi coniugi che sorprende e scandalizza alcuni frequentatori e condiziona fortemente la vita dei figli; [6] e, dopo la morte della donna, la disgregazione della famiglia: la figlia Lidia fugge per affrettare le nozze, Piero se ne va, Fabio resta con il padre Federico, vedovo inconsolabile, vivendo una comune ma incomunicabile, dolorosa solitudine.

 [6] All’amico Remigio, che protesta con lui perché la sorella Ametta, frequentando gli Assalente e immergendosi nella loro malsana atmosfera erotogena, ne è rimasta «turbata», Fabio risponde: «Ma se è colpa dell’aria calda! Tu la respiri e tiri dentro afa… arsura – è soffocante […] Noi facciamo il male senza volere» (Stefano Pirandello, Tutto il teatro, II, cit., p. 525. Date le varianti minime, qui e in seguito, cito dalla redazione definitiva).

Padre e figlio non possono capirsi né consolarsi a vicenda del loro, diverso, lutto. Federico piange la perdita della moglie-amante e non può avere conforto dal figlio né può darglielo, perché dovrebbe vivere – e non vuole – non più da amante in lutto ma facendo il padre, come la moglie, morendo, l’ha obbligato a fare e come Fabio vorrebbe che lui facesse. Fabio, per parte sua, non vuol partecipare di quel lutto del padre che ribadisce una verità che già Ametta Selmi, la giovane vicina di cui egli è innamorato, gli aveva rivelato: la donna amante non può esser madre e dunque lui non ha mai avuto una madre, nell’aria soffocante, di serra, di Villa Assalente. Fabio, pur mostrando una coscienza che manca ai genitori, li difende, nel nome di una passione che arde e divora, contro Ametta che rifiuta lui e la sua idea d’amore in cui la donna si annulla nella sola, esclusiva, passione di amante (che esclude altresì l’essere madre), in una casa dall’aria irrespirabile come quella di Villa Assalente, definita un «covo ardente». [7]

 [7] Ivi, p. 561.

Definizione, questa, che ci dà l’immagine di un’energia vitale – qui connessa all’eros – potenzialmente distruttiva, come il fuoco ardente che può dirsi immagine araldica della famiglia Pirandello: di Luigi, ardente nel fuoco il cui destino, annunciato sin dal cognome – secondo l’approssimativa etimologia greca (pyr anghelos: angelo di fuoco) avvalorata da molteplici dichiarazioni dello scrittore –  [8] fu realizzato alla sua morte quando il suo cadavere fu arso; e dei suoi personaggi alterego come Lars Cleen il «forestiere» (antesignano del fu Mattia Pascal «forestiere della vita»), protagonista, nel 1902, di Lontano, una delle sue più emblematiche novelle, che è soprannominato L’arso. [9]

  [8] Un’ulteriore testimonianza nel merito viene da Alberto Savinio, frequentatore e amico della famiglia Pirandello e dal suo Il signor Münster il cui omonimo protagonista «ripensò al telegramma che l’attrice Pieralba Nona mandò dagli Stati Uniti d’America al celebre drammaturgo Focangelo morto a Roma, perché “senza essere aperto da nessuno, fosse bruciato assieme col cadavere”» (Casa «La Vita», Milano, Adelphi, 1988, p. 278).

 [9] Più che novella, romanzo breve, ripubblicato infatti, nel 1915, insieme a Il turno. Cfr. Pietro Milone, Dire il silenzio. La bi-logica delle Novelle per un anno, «Rivista di studi pirandelliani», VII, giugno 1989 (terza serie), pp. 40-45. Per una complementare tesi onomastica sul personaggio cfr. Leonardo Sciascia, Occhio di capra, Torino, Einaudi, 1984, sub voce Arsu (L’arsu dialettalmente significa, oltre che “arso”, anche “solo” come “l’asso” nelle carte da gioco; Lars dunque «veramente arso: di solitudine, di nostalgia»).

Ma immagine araldica anche di Stefano: Il figlio arso è uno dei titoli da lui proposti all’editore Valentino Bompiani, nel 1941, per la raccolta delle sue poesie (poi intitolata Le forme) con riferimento alla conclusione de L’albero morto:

E questo è il mondo dove Dio contempla
come una vita nasce di due vite.
[…]
Ecco l’albero morto.
Visse finché la terra tutta amore
gli diede cibo nel suo grembo nero
e l’amore del sole era un respiro
su delle fronde e incitamento a crescere.
Poi più possente il sole
tutto lo guadagnò. Discese a forza,
dai rami al tronco, fin nelle radici.
Lo prende alle radici e il figlio è arso [10]

 [10] Stefano Landi, Le forme, prefazione di Corrado Alvaro, Milano, Bompiani, 1942, pp. 35-36. Alcuni di quei versi compaiono anche a conclusione del ii atto di In questo solo mondo.

Stefano fu dunque, indubitabilmente, consumato dal fuoco de la vita ardente di Luigi Pirandello (per riprendere il titolo di uno dei suoi scritti biografici). [11]

 [11] Pubblicato su «Quadrivio» del 13.12.1936. Poi riprodotto in Luigi Ferrante, Pirandello, Firenze, Parenti, 1958, pp. 238-243.

Per lui il padre è infatti «una carica di energia vitale sbalestrata in un mondo di cui non capisce mai i rapporti sociali, i doveri di convivenza, le convenienze», secondo un giudizio recentemente ripreso da Ferdinando Taviani che l’ha però amputato della sua più profonda e inquietante ambivalenza. [12]

 [12] Cfr. Ferdinando Taviani, La minaccia di una fama divaricata, saggio introduttivo a Luigi Pirandello, Saggi e interventi, Milano, Mondadori, 2006, p. LXIII. In nota Taviani rinvia alla fonte indiretta di Valentino Bompiani in un articolo su «Il Giornale» del 23.4.1988, anziché alla fonte diretta della lettera di Stefano.

Così citato, infatti, il giudizio pare esprimere un’energia positiva pur se (o proprio perché) anticonformista. L’energia, possiamo aggiungere, frutto del candore (per dirla con Bontempelli) della sua visione artistica; l’energia di un creatore, ovvero di chi (scriveva Stefano nella sua prefazione al «breviario di fede» dell’Uno, nessuno e centomila) si è posseduto per intero «come un pazzo, come un eroe, come un santo».
La fonte diretta del giudizio filiale citato è una delle numerose lettere di Stefano all’amico editore Valentino Bompiani; lettere che costituiscono una fondamentale testimonianza della profonda ambivalenza affettiva di Stefano nei confronti del padre: del passato amore come dedizione talora assoluta, della perdurante devozione, ma altresì dell’esacerbato risentimento di chi ha subito la privazione di una propria autonoma esistenza e identità. Con punte di sorprendente acrimonia, acuita dalle disposizioni testamentarie, come testimonia, nella lettera in questione, l’allusione a Marta Abba in mezzo ad altre, meno decifrabili.
Vale anche perciò la pena di citare un ampio passo di questa lettera che Stefano scrisse il 6 ottobre 1939, rispondendo alla richiesta di lettere inedite da inserire nell’Almanacco Bompiani del 1940:

è da ieri mattina che spoglio corrispondenza vecchia: due giorni di ricerche e d’amarezze nel rinvangare ricordi di tutti i generi. È il ribrezzo che me ne tiene lontano. Dio, ci fosse un solo ricordo bello, in tutti gli anni trascorsi accanto a mio Padre! E per te non trovo nulla, nulla che valga la pena – o quando ne varrebbe la pena, sono cose ch’è impossibile tirar fuori senza colpire a tradimento la memoria di qualche morto o la giusta suscettibilità di qualche vivo. Mio Padre è un «intoccabile», caro Valentino: una carica d’energia vitale sbalestrata in un mondo in cui non capì mai i rapporti sociali, i doveri di convivenza, le convenienze: nemmeno gli affetti familiari, accecato dai suoi amori esclusivi: iroso, ingiusto, disumano con tutti fuor che con l’idolo del momento, che il più delle volte non restava sugli altari che qualche mese: tranne uno, che per sciagura sua e di tutti, rimase in carica per anni e anni. Che devo fare, io? Quando io sarò morto, se prima non distruggerò tutte queste cose, un estraneo, col gelido interesse del curioso, potrà tirar fuori un sacco di razzi esplosivi per scandali e polemiche: ma io debbo tener tutto chiuso. Credi pure che quel che era da tirar fuori l’hai avuto tutto tu, ed è servito a mettere in luce una faccia di Lui meravigliosamente bella: quella faccia che, nel cuore di chi gli visse vicino e lo conobbe per intero, gli fa perdonare tutte le altre, tante, e nessuna da mostrare senza rischi.

Questo ti chiarisca anche perché io non scriverò un libro su mio Padre: a meno che altri – come purtroppo può accadere, e da un momento all’altro – non sollevi certi veli. E allora forse non avrei da difendere la Sua memoria, ma la vita di qualcuno di noi. [13]

 [13] Caro Bompiani. Lettere all’editore, a cura di Gabriella D’Ina e Giuseppe Zaccaria, Milano, Bompiani, 1988, p. 409.

Se le circostanze della lettera, con l’intento di Stefano di sottrarsi alle richieste di Bompiani relative alla biografia e all’opera di suo padre, possono motivarne, forse, una certa esagerazione, non ne spiegano certo, per intero, toni e contenuti. Mail punto che volevamo sottolineare (indipendentemente da quello concomitante del “mistero” di non si sa quale rivelazione biografica che, peraltro, lo rafforzerebbe) è quello dell’energia vitale, del fuoco ardente della vita familiare dei Pirandello: il «fuoco bianco», per usare i termini di una nota distinzione di Giacomo Debenedetti che, a proposito della «filosofia» che Pirandello mostrava sulla «faccia esterna della sua opera», scriveva che essa «non era se non un’astuzia della Provvidenza: il materiale isolante che permetteva a Pirandello di maneggiare il fuoco bianco del suo nucleo poetico e umano». [14]

 [14] Giacomo Debenedetti, Una giornata, «Il Meridiano di Roma», 8-15 agosto 1937; vedi ora Idem, Saggi critici. Seconda serie, Venezia, Marsilio, 1990, p. 216.

       Che quel materiale isolante esterno, filosofico (il pirandellismo, il tilgherismo), abbia nociuto o meno alla comprensione dell’opera è altro discorso. Così come lo è quello del rapporto tra lato esterno e interno, tra materiale isolante e fuoco (rapporto di non totale estraneità, come a qualcuno appare). [15]

 [15] Le emozioni, il sentire inconscio, sono il «fuoco bianco» dell’esperienza di Luigi Pirandello e la sua opera ne costituisce la traduzione in un’emozione pensante o, se si preferisce, in un pensiero senziente. Rinvio, nel merito, ai miei precedenti contributi pirandelliani in chiave di bi-logica matteblanchiana e specialmente: Capogiri bi-logici nell’umorismo di Pirandello, in L’inconscio antinomico. Sviluppi e prospettive dell’opera di Matte Blanco, a cura di Pietro Bria e Fiorangela Oneroso, Milano, Franco Angeli, 1999, pp. 177-195; Nascita dei personaggi pirandelliani: il teatro come spazio bi-logico, in Sylva. Studi in onore di Nino Borsellino, a cura di Giorgio Patrizi, Roma, Bulzoni, 2002, pp. 735-748. E a Carlo Ferrucci, Le ragioni dell’arte nell’arte ragionante di Leopardi e Pirandello, in Giornata di studi nel I cinquantenario della morte di Luigi Pirandello, Roma, II Università di Roma, 1987.

A noi, qui, basti dire che è del tutto evidente, come sempre lo è stato ai suoi biografi, che quel fuoco bianco è nel covo ardente di casa Pirandello, in quella fucina vulcanica le cui colate laviche si sono disseminate, incanalate nel figlio Stefano in rivoli poi ingrossatisi nel fiume di un’opera dai risultati discontinui ma spesso ragguardevoli e, talora, di assoluto valore.

       A inequivocabile riscontro biografico del covo ardente di casa Pirandello, basti registrare quanto Stefano annotò a margine di un capitolo della biografia di Giudice:

nei rarissimi momenti che Antonietta, spesso dopo una riconciliazione, in seguito al ritorno in famiglia dall’esilio dell’uno o dell’altro, cioè ricucite per il momento quelle separazioni che costellarono in modo tragico e continuo la vita matrimoniale di Pirandello, si mostrava per un giorno o due serena, e accogliente verso di lui, noi figli vedevamo sgomenti che nullità diventassimo noi, di punto in bianco, per quei furenti amanti, quei due evasi in un loro cielo, dove un poeta non finiva più di trovare modi inauditi di glorificare la sua Dea. [16]

 [16] Gaspare Giudice, Pirandello, Torino, UTET, 1963, p. 252.

Un’altra annotazione di Stefano a Giudice ci riporta, invece, a quel 1924 da cui siamo partiti, con la pubblicazione su «Comoedia» de La casa a due piani. Essa rievoca il momento finale della distruzione di quella casa con il rifiuto di Antonietta di uscire dalla clinica per raggiungere la famiglia a Monteluco, vicino Spoleto, in una casa isolata appositamente affittata per l’estate:

nel punto di uscire dalla “prigione” in cui smaniava, da cui, con accenti strazianti, ci supplicava di liberarla, invece vi si aggrappò come a un rifugio che aveva paura d’abbandonare, e le rinacquero d’improvviso tutte le avversioni contro il suo eterno nemico… Fu soltanto allora che Pirandello rinunziò alla speranza di potersi un giorno riprendere la donna che aveva sempre in cuore e nei sensi. [17]

 [17] Ivi, p. 301.

Il 1924 è un anno determinante nella vita di Pirandello, non solo sul piano familiare, un vero discrimine, un punto di non ritorno: la rivoluzione del suo teatro, con il successo mondiale del 1923, rivoluziona la sua vita. Nel 1924, tornato dagli Stati Uniti, Pirandello incontra Mussolini e, dopo aver aderito al fascismo in pieno caso Matteotti, ne riceve i mezzi necessari per il Teatro d’Arte (mentre già delinea un suo progetto di Teatro di Stato, in un referendum svolto in giugno da «L’Idea Nazionale»). Pirandello diventa capocomico.
Pirandello, che già non è più marito, smetterà presto di essere vedovo inconsolabile dopo l’apparizione, nel febbraio dell’anno successivo, di Marta Abba, la sua nuova Musa e amante ideale. Pirandello, che non è più figlio (suo padre Stefano muore nel giugno 1924), diverrà sempre meno padre.
La casa a due piani si concludeva con il suicidio di Fabio, con il corpo del figlio interposto tra i genitori, come in vita non era mai stato, a sancire, assieme al ricongiungimento alla madre, lo scacco del rapporto con il padre nell’impossibilità di ottenere il suo amore e raggiungere la propria identità di figlio. [18]

 [18] Nella penultima scena, lo scontro tra padre e figlio diviene totale. Pare di assistere a quello, tragico, tra Enrico IV e Belcredi: per l’antagonismo irriducibile delle ragioni, della costruzione mentale, oltre che per la contesa di una medesima donna o della sua memoria. E per la tragica maschera che Federico indossa e che lo lega al passato, nonché per l’epiteto che rivolge ai figli («Buffoni!») che lo vogliono distaccare, invano, dal passato, per riportarlo alla vita. «Io sono morto – e non voglio altra vita che quella che è stata!», dice Federico nel confronto serrato con il figlio che, deluso anche dal padre, e quasi a ricongiungersi alla madre, conclusivamente s’uccide: «Ecco il mio aiuto, mamma! Fra te e lui il mio corpo!(ilare, chiaro, traendo lo spadino)Sai? L’ha fatto apposta a vietarti d’ucciderti… Perché vuol essere sola… Mamma! Con me! (si ferisce e cade)».

Per un’analoga profonda umiliazione si uccide il personaggio di Torellino ne L’uomo solo, novella di Luigi, del 1911, dallo sfondo autobiografico.
Il conflitto tra padre e figlio restava identico nella sostanza, pur apparendo opposto, dopo la stesura e la pubblicazione de La casa a due piani. Luigi, allora, tornava alla vita, deponendo la sua proverbiale affermazione dell’alternativa irriducibile tra vita e scrittura alla quale l’avrebbe richiamato, invece, per certi versi, proprio Stefano.

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Dal breve profilo che «Comoedia», nel 1924, dedicava a Stefano Landi, riprendiamo un ultimo passaggio che ne avvalora l’attribuzione a Stefano e testimonia una di quelle coincidenze significative, di quelle realtà controfattuali escluse dagli storici ma non da scrittori come Pirandello: «Stefano Landi abbandonò il primo del ’15, per prepararsi alla guerra, le aule dell’Università dove studiava Lettere e Filosofia, e non vi tornò più. Sarebbe ora professore al Ginnasio di Racalmuto; pazienza» (una delle prime parole, quest’ultima citata, che Stefano imparò dal padre). [19]

 [19] Si vedano due lettere del 1897 che ne riferiscono: Luigi Pirandello, Lettere della formazione 1891-1898. Con appendice di lettere sparse 1899-1919, introduzione e note di Elio Providenti, Roma, Bulzoni, 1996, p. 301 e p. 307. Anche l’adolescente Stefano faceva ricorso all’espressione, come testimoniano le lettere del 1910 alla cugina Lina (Luigi Pirandello intimo. Lettere e documenti inediti, a cura di Renata Marsili Antonetti, Roma, Gangemi, 1998, p. 210 sgg.). In quanto a Luigi, l’uso del termine è testimoniato dalle sue lettere durante la guerra a Stefano, ma anche ai genitori, persino dietro un vaglia postale dove annotava: «Mi dico sempre: pazienza! E ne ho tanta» (Il figlio prigioniero, cit., pp. 114-115).

Perché proprio Racalmuto? Non potendo rispondere, limitiamoci a dire che, se così fosse stato, all’incontro in paese non sarebbe mancato, negli anni seguenti, quel Leonardo Sciascia la cui vita, sin dall’adolescenza, e la cui opera furono influenzate dal medesimo contesto geografico-culturale, di Pirandello, al punto che egli sostenne la tesi dell’esistenza, in quel di Girgenti, di una sorta di ‘pirandellismo in natura’. Incontro fattualmente mancato, nell’adolescenza di Sciascia e, poi, nella sua maturità di scrittore: sebbene alla continua ricerca di documenti, di carte pirandelliane, sembra non sia mai entrato in contatto con Stefano (stando alla testimonianza fornitaci dal figlio Andrea Pirandello). Negli anni ottanta Sciascia, dopo una lunga stagione di antagonismo a Pirandello e al pirandellismo identificato con l’irrazionalismo, ribaltò la propria posizione sino a chiamare Pirandello «padre», accomunandolo a Borges e Kafka in un’ideale trinità letteraria del Novecento, in occasione della commemorazione per il cinquantenario della morte. [20]

 [20] Leonardo Sciascia, Sicilia gran teatro del mondo, «Giornale di Sicilia», 11 dicembre 1986, poi in «Sipario», marzo 1987. E infine, con il titolo, Pirandello mio padre, «Micromega», n. 1, gennaio-marzo 1989, pp. 31-36.

Sciascia, figlio putativo, dedicò allora a Fausto uno dei suoi Cruciverba, Padri e figli, e su Stefano ritornò in una significativa voce di Alfabeto pirandelliano.
Il tema della paternità ideale, dei padri che si scelgono (che è un tema proprio dell’opera di Stefano Pirandello) ha una lunga storia in Sciascia. Ricordiamone un momento cruciale: Candido (dal titolo voltairiano ma anche pirandelliano, in riferimento al Pirandello o del candore di Bontempelli), che si conclude – con uno scambio di battute tra il protagonista e il suo amico ed ex precettore Antonio – proprio nel nome del rapporto col padre. [21]

 [21] Cfr. Pietro Milone, Un personaggio in cerca del destino. Il Candido di Sciascia tra Voltaire e Pirandello, in Intorno a Pirandello, a cura di Rino Caputo e Francesca Guercio, Roma, Euroma, 1996, pp. 211-237. Ho lì esaminato convergenze, analogie e riscontri, sui temi del destino e dei padri, tra Candido e il saggio debenedettiano Personaggi e destino che si concludeva così: «E se la nostra è stata sino ad oggi un’avventura di orfani, facciamoci almeno abbastanza adulti per essere compagni a noi stessi. Quanto al domani, procuriamo che i nostri figli trovino un padre al loro fianco, e non sentano il bisogno di guarirsene» (Giacomo Debenedetti, Il personaggio uomo, Milano, Garzanti, 1988, p. 127). Le parole di Debenedetti sono pertinenti a vari protagonisti di questa storia parallela di Pirandello «padre» e dei suoi figli, reali o adottivi. Annotiamole e teniamole in mente almeno per quanto riguarda Stefano.

E, ancora, un passo di un noto libro-intervista del 1979:

sono diventato un uomo piuttosto «paterno». Molti siciliani sono come me, hanno con il padre un rapporto di ostilità, addirittura di inimicizia, durante l’adolescenza, poi di punto in bianco ci si accorge, quasi vedendosi in uno specchio, che «si» assomiglia al padre, che «si» ripete la sua esistenza. Guttuso, che è anch’egli un uomo «paterno», mi ha detto una volta: «Ogni mattina, quando mi faccio la barba, scopro il viso di mio padre nello specchio». [22]

 [22] Leonardo Sciascia, La Sicilia come metafora, intervista di Marcelle Padovani, tr. it., Milano, Mondadori, 1989 (i ed. 1979), p. 14.

Di tutt’altro avviso, pur vivendo la medesima esperienza, il protagonista di Diana e la Tuda, lo scultore Giuncano, riconoscibile alter-ego pirandelliano, nemico del proprio corpo che odia e considera «un estraneo» come il padre da cui gli proviene: «è orribile, sì! Invecchia, e diviene sempre più suo – come più la faccia s’incassa e più si disegnano le rughe. – E me ne cresce l’odio». [23]

 [23] Luigi Pirandello, Diana e la Tuda, in Idem, Maschere nude, III, a cura di Alessandro d’Amico con la collaborazione di Alessandro Tinterri, Milano, Mondadori, 2004, p. 637.

       Composta tra la fine del 1925 e il 1926, Diana e la Tuda, con questa battuta di Giuncano, testimonierebbe un insuperabile antagonismo tra un Luigi Pirandello allora ormai già nonno e il padre Stefano, anche dopo la morte di questi. Anche per il figlio Stefano quell’antagonismo sembra essere stato irriducibile, senza ripensamenti, nella scia del risentimento che abbiamo visto emergere dopo la morte di Luigi, un padre da cui Stefano, ancora molti anni dopo e forse fino alla fine della sua vita, voleva guarirsi.
Una testimonianza biografica in tal senso viene da una lettera a Valentino Bompiani (del 15 gennaio 1942) che Stefano firma Landi, a ribadire, anche in una comunicazione che non richiederebbe pseudonimi, la propria irrinunciabile disidentità familiare. Lo sfogo di Stefano trova una giustificazione contingente nella circostanza del tentativo fatto da Bompiani di acquisire i diritti di pubblicazione dell’opera pirandelliana per il suo tramite. Ma ha una motivazione più profonda che Stefano espone, senza veli, al suo editore ed amico. Vale la pena di citare estesamente:

Io a mio Padre ho dato esattamente quarantadue anni della vita mia. […] Comincio ad aver diritto che le relazioni che mi sono scelto in mio nome restino nei limiti dei miei interessi personali, così a lungo e troppo da me negletti per fare quelli di mio Padre. Io – e talvolta gli altri mi fanno pensare che sono stato uno sciocco – ho voluto servire mio Padre, finché ebbe un alito di vita. E mai mi sono servito di Lui. Mai: gli ho dato, rinnovando continuamente la Sua vita, non solo tutto il mio amore e tutto il mio tempo (fuorché proprio qualche scampoletto), ma anche il mio ingegno, ma addirittura la mia collaborazione creativa(pur avendo da creare per me) […]. E da Lui ho sopportato più d’un tradimento: che m’ha costretto, per riparare e ristabilire quelle condizioni di vita comune da me volute, ogni volta a un raddoppio di amorosa servitù da parte mia, ad abbandonare di volta in volta quelle che mi parevano le ultime difese della mia personalità. Quando mi è morto, per un anno, forse per due anni, non capivo più che ci fosse da fare nella vita. Poi ho cominciato a grado a grado a sentirmi nascere io. […] Bene mi sono conquistato il potere e il modo e il diritto di farlo ora tutta cosa mia, mio Padre: come io sono stato cosa sua. Non posso più servire, non posso più essere chiamato a fare il figlio. Sono tentativi, vani e incresciosi di sradicarmi da una conquista sofferta. […] so questo, che sì, vecchio, forse tornerò il figlio: ma quando avrò finito di dare espressione al mondo mio. Lasciatemi ora lavorare Stefano Landi. […] Tanto più che – ormai lo so – Stefano Landi potrebbe anche essere nato da un ignoto: perché ho ritrovato, come ogni altro che sia qualcuno, le mie origini in me stesso. [24]

 [24] Caro Bompiani, cit., p. 413, cor. ns.

Emerge qui, con la più assoluta evidenza, il peso dell’eredità del nome paterno nella definizione dell’identità di un individuo che, pur in età matura, si sente ancora impedito, ostacolato, soffocato da quel peso. E molto più drammaticamente, dato l’avanzare degli anni, rispetto alla scherzosa ironia sul ‘figlio di papà’ del profilo su «Comoedia» da cui siamo partiti. Eppure in quello stesso 1942 uscivano le Forme (altri titoli ipotizzati: Io, quasi niente e Storia di figlio) [25] e veniva rappresentata Un gradino più giù, [26] la «sua commedia più bella, più allucinata, più sconcertante»,che ha come «protagonista un padre che disperatamente, tragicamente tenta di far vivere una vita normale a un figlio minorato». [27]

 [25] Si vedano le lettere a Bompiani del 6.5.1941 e 23.5.1941 (non incluse in Caro Bompiani, si possono leggere nella citata «La vita e l’opera», ricostruzione cronologica premessa a Stefano Pirandello,Tutto il teatro, cit.).

 [26] Un gradino più giù fu rappresentata il 12 maggio 1942 al Teatro Manzoni di Milano dalla Compagnia Teatro Nazionale dei guf (con Salvo Randone, Paola Borboni, Lina Volonghi, Adolfo Geri) per la regia di Nino Meloni; e fu pubblicata su «Il Dramma» del successivo 15 giugno. Tratta da una novella giovanile, la commedia dovrebbe risalire a non pochi anni prima se Pirandello poté definirla «bellissima», come annota la Zappulla Muscarà nella sua edizione di Tutto il teatro (dove la commedia si legge in una redazione notevolmente modificata).

 [27] Andrea Camilleri, Biografia del figlio cambiato, Milano, Rizzoli, 2001, p. 256. Il padre protagonista è Valerio Alberici, 48 anni, «casto dalla morte della moglie, cioè da quindici anni in un atroce sforzo di volontà», autopunitivo, che egli carica dell’intento religioso di un voto per il figlio Alberico. La scoperta che questi ha avuto dei rapporti sessuali con la serva Liberata, pone al padre il problema di trovargli una donna che non abbia solamente un ruolo di assistenza familiare, come quello di «vicemadre» già svolto dalla governante Gianna, ma anche quello di amante, di moglie. Valerio lo propone alla stessa Gianna che accetta, continuando a fornire le proprie precedenti prestazioni. Non si presta invece, da principio, a quegli altri obblighi coniugali sul cui adempimento il suocero vigila inderogabilmente, innescando un conflitto in cui consiste il nucleo drammatico della rappresentazione.

L’opera ruota intorno ad una profonda meditazione sulle relazioni familiari, la diversità e la sessualità, in un alternarsi di vicende intellettualmente e, per quei tempi, socialmente ardite. La critica ne evidenziò il tormento concettuale e psicologico, richiamando l’opera pirandelliana, ma evidenziando anche il segno maturo di un’inequivocabilmente autonoma individualità e la vena profonda di poesia che la differenziava da Pirandello («una mestizia misericordiosa di luce» per Renato Simoni).
«Figlio per sempre io», recitava Giro, a ribadire l’immutabile posizione di minorità verso il padre; ma si trattava di una delle più belle poesie che ne proclamava, invece, quasi paradossalmente, la piena, raggiunta autonomia.
Aveva pertanto ragione Valentino Bompiani, convinto del valore di quelle sue opere, a rassicurare l’amico che sentiva incombere l’alea del fallimento sul proprio destino di scrittore a causa di un romanzo che non riusciva a portare a termine. E a scrivergli, con un giudizio che richiama alla mente quello di Debenedetti sulla sua generazione (lui del 1901, Bompiani del 1898, Stefano del 1895): «Hai impiegato vent’anni e più per liberarti di un’ombra che ti spaventava. Questo è il lavoro più importante che tu hai compiuto: e non è un fatto personale, capisci, ma il problema di una generazione. […] Da questa crisi verrai fuori guarito e accresciuto». [28]

 [28] Caro Bompiani, cit., pp. 416-417. Ma cfr. anche le pagine relative all’anno 1942, comprendenti altre lettere, de «La vita e l’opera».

       Nella sua lettera Stefano sottolineava la portata della sua cooperazione con il padre. Tale affermazione va ripresa e evidenziata, anche se possiamo solo accennare a una collaborazione il cui puntuale esame, in tutti i suoi aspetti (Stefano segretario, consulente, co-scrittore o ghost writer, sceneggiatore, intervistatore, testimone e interprete dell’opera del padre), implicherebbe ricostruire la storia di oltre tre lustri dell’opera e della biografia dei Pirandello. A partire dalle innumerevoli informazioni riemerse, nella maniera più esplicita e diretta, dalle lettere (recentemente pubblicate da Sarah Zappulla Muscarà) tra Stefano e Luigi nel fondamentale periodo 1919-1936, fitte di rinvii a eventi e persone, al contesto di relazioni e di impegni della maturità artistica pirandelliana.
Il ruolo di segretario e addetto alle pubbliche relazioni di Stefano, ad esempio, è esemplarmente testimoniato da una lettera del 7 aprile 1933 in cui Stefano svolge la cronaca meticolosa degli impegni di una sua giornata, mitigando spiritosamente il sottinteso intento polemico nei confronti del padre che, periodicamente, gli ricordava il continuo e consistente sostegno economico elargitogli. Occorrerebbe citarla tutta, anche perché è nella progressiva accumulazione e nel climax della narrazione del crescendo di impegni che Stefano raggiunge l’effetto voluto; ma basterà citarne un passo che ne dà, quanto meno, il senso conclusivo:

Sono miserie, Papà mio, miseriole che ti avviliscono a notarle: quelle che riesco a ricordarmi, che sono tante ma tante di più tutte quelle di cui è ormai fatta la mia giornata, e tutte le mie giornate l’una dopo l’altra. Infatti, fra queste miseriole io affondo, lentamente, irrimediabilmente, ogni giorno di più. Non servo a niente e a nessuno, ma sono il luogo comodo di tutti. [29]

 [29] Luigi e Stefano Pirandello, Nel tempo della lontananza (1919-1936), a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Catania, La Cantinella, 2005, pp. 167-168.

Stefano fu però molto di più di un semplice segretario. Fu l’artefice dei molteplici progetti di riduzione cinematografica dell’opera di Pirandello, dall’adattamento e sceneggiatura del film La rosa nel 1921 ai vari soggetti cinematografici tratti nel 1936 dalla novella Ignare, e l’autore di soggetti autonomi come Giuoca, Pietro!. [30]

 [30] Cfr. Sarah Zappulla Muscarà, Luigi Pirandello e il cinema. Dalla parte di Stefano, in Il cinema e Pirandello, a cura di Enzo Lauretta, Agrigento, Centro Nazionale di Studi Pirandelliani, 2003, pp. 167-189.

La «collaborazione creativa» di cui Stefano scriveva a Bompiani si riferiva però anche a contributi ben più importanti, quale lo scritto che aveva costituito la prefazione ai Sei personaggi, com’è noto già da tempo. E ancor più a opere come La nuova colonia (il soggetto cinematografico di Stefano, tratto dallo spunto contenuto in Suo marito, fu fonte per il mito di Luigi) [31] o Non si sa come. [32]

 [31] La fonte che testimonia in maniera più diretta ed esplicita il, diverso, contributo di Stefano al Giuoca, Pietro! e a La nuova colonia è il Memoriale che Stefano scrisse nel 1937 in occasione della controversia legale intentatagli dal produttore cinematografico Giulio Manenti. Costui, dopo aver acquistato il «soggetto originale di Luigi Pirandello» Il figlio dell’uomo cattivo, ne aveva denunciato la natura apocrifa (confondendo, sosteneva Stefano, la natura di originalità del soggetto con quella, diversa, di un «manoscritto autografo»). Il Memoriale (di cui la Zappulla Muscarà ampiamente si avvale nel saggio cit. in nota 1) è pubblicato in Stefano Pirandello, Tutto il teatro, III, cit., pp. 1483-1498.

 [32] «Il Non si sa come ha di mio tutto il secondo atto», inizia una pagina di «un quaderno di memorie» che leggiamo in Sarah Zappulla Muscarà, Luigi Pirandello e il cinema, cit., pp. 186-187. Vi scrive ancora Stefano: «che ora questo “vero sangue mio”, donato liberamente per amore da me a mio Padre, vada a finire, per interesse, nelle mani di Marta… è una delle beffe più enormi che la vita abbia combinato».

Per non dire, infine, degli scritti apocrifi di Luigi, recuperati nella recente edizione dei Saggi e interventi e collocati dal curatore, Ferdinando Taviani, in un più ampio contesto che valorizza la scrittura «a specchio» di Luigi e Stefano. [33]

 [33] «Sappia inoltre il lettore che sotto il nome di Luigi Pirandello sono apparsi altri articoli, anche su giornali stranieri, nonché altre prefazioni a volumi e pubblicazioni varie […]. Trattandosi di apocrifi, ne ometto la citazione» scriveva il curatore Manlio Lo Vecchio-Musti nella sua edizione dei pirandelliani Saggi, poesie, scritti varii (Milano, Mondadori, 1973, p. 1044, 19601). Uno di quegli apocrifi, Non parlo di me, fu recuperato da Corrado Donati («Letteratura Italiana Contemporanea», dicembre 1982), altri successivamente da Fabio Battistini (su «Belfagor» del gennaio 1986 e gennaio 1987). Nella sua già citata edizione dei saggi pirandelliani, Ferdinando Taviani li ha ripubblicati, con altri, in un’ampia sezione intitolata Scritti con «Taluno» alla quale ne aggiunge un’altra ‘mista’ (con scritti di Stefano e Luigi) intitolata Padre e Figlio. Le due sezioni, con le relative Notizie sui testi (alle quali rinviamo) e le pagine che Taviani dedica all’argomento anche nel suo saggio introduttivo, costituiscono uno dei meriti di quest’edizione.

       La sezione del “Meridiano” di Taviani costituisce solo l’ultima tappa di un itinerario storico-critico che ha segnato, in anni recenti, la riscoperta della figura di Stefano, della sua attività, della sua opera, con la pubblicazione del suo teatro e della sua lunga corrispondenza che getta una prima luce sul rapporto tra padre e figlio e su tre lustri di stretta collaborazione. [34]

 [34] Ci riferiamo ai già citati contributi della Zappulla Muscarà e di Andrea Pirandello.

Andrea Pirandello ha evidenziato come a suo padre Stefano, ancora vecchio, «cocevano il dono di sé […] eccessivo e il suo dispendio squilibrato in favore del genitore, soprattutto negli ultimi suoi anni, quando questi ritornò in Italia e fra noi dopo il 1932». E ha evidenziato il peso di quella «amorosa servitù» filiale che abbiamo già visto emergere nella citata lettera di Stefano a Bompiani del 1942:

[Stefano] Arrivava ad accusarsi di essersi messo nelle condizioni del servo: «Non ho servi. Servo fui sempre io», segnò un giorno (1951) bruscamente in un appunto, e di questa scoperta aveva paura. «Temo, perché non stimo nessuno così forte da riuscire a servire senza fondo micidiale coperto odio contro il suo padrone. Soltanto a me verso mio Padre riconosco questa forza, sapendo quante volte fu sforzo, e quante altre volte fu lì per mancarmi». [35]

 [35] Andrea Pirandello, Una testimonianza, cit.,p.cv.

È la vergogna, la ferita narcisistica all’amor proprio, che fa nascondere a Stefano anche i suoi contributi sul piano creativo, come possiamo capire da quanto ora, in proposito, scrive Andrea,[36] tanto più per l’insoddisfazione per quello che aveva fatto o non aveva fatto in quegli anni e che, perciò, gli faceva ritenere di aver sacrificato al padre la propria inventiva.

 [36] Stefano «cercò poi di nasconderli, svalutarli, dimenticarli. Tentò di impedire che venissero riesumati e riconsiderati rappresentando per lui i segni di una disposizione al servigio di cui vergognarsi. (Salvo che per la elaborazione di alcuni motivi della commedia pirandelliana Non si sa come: in una pagina tenuta in bella evidenza in un cassetto e destinata ‘a futura memoria’, cioè a essere vista dopo la sua morte, rivendicò invece l’importanza del proprio intervento creativo, segnalandone persino i punti precisi)» (Ivi, p. cvi).

Vergogna di quello che, scrive Camilleri, è stato invece un «fatto, agli occhi del padre, del tutto naturale. Perché Luigi è riuscito, sicilianissimamente, a far sì che il figlio fosse completamente, interamente, “cosa sua”. Quello che a don Stefano, dopo averci tentato più volte, non era riuscito di fare». [37]

 [37] Andrea Camilleri,op. cit., p. 256. Scrive ancora Camilleri: «Finché Luigi Pirandello resterà in vita, farà indossare la livrea di alter ego minore al figlio Stefano. E questi, con devozione filiale, la indosserà riuscendogli poi quasi impossibile togliersela per sempre. E ci saranno momenti nei quali Stefano si sentirà assai a disagio».

Il rapporto servo-padrone è al centro di un atto unico di Stefano, rappresentato nel 1941 e intitolato Qui s’insegna a rubare. [38]

 [38] Mario Beltramo lo mise in scena con Augusto Selvaggi al Teatro Università di Roma l’8 marzo 1941. Fu pubblicato su «Scenario» del 15.4.1952 e di nuovo su «Sipario» del giugno 1956.

Un’inequivocabile allegoria, se letta sullo sfondo di quanto sin qui detto, del proprio ruolo di figlio servizievole riassunto in quello Stefano della bontà che fra gli apocrifi pirandelliani è uno dei più noti e che, pur nella nascosta ironia e autoironia, rivela aspetti essenziali del rapporto padre-figlio. [39]

 [39] Pubblicato su «L’Illustrazione Italiana», n. 30, 28 luglio 1935; ora in Luigi Pirandello, Saggi e interventi, cit., pp. 1504-1508.

In primo luogo quello dell’amore come dono, capacità di dedizione totale esplicantesi in «qualche sovrumana pazzia di bontà». Se la pazzia del padre era l’arte, che è «una santità sciupata: dovuta sciupare»; la pazzia del figlio, e della sua opera, era proprio quella bontà. Al punto, direi, che Stefano temette, vergognandosene, che la sua bontà fosse stata un’arte sciupata, dovuta sciupare. In parte, forse, a ragione, ma sottovalutando anche, a torto, i risultati più felici della sua opera raggiunti proprio quando quella «bontà», quella «santità» testimoniavano: nel tema ricorrente dell’oblatività pienamente espresso in Un gradino più giù[40]

 [40] Il nucleo drammatico della commedia, consistente nelle vicende che abbiamo già delineato, si lega al tema del rapporto con la diversità che richiede che Gianna scenda il gradino che intitola l’opera, spogliandosi non solo di un certo atteggiamento materno (che carica di connotazioni incestuose il rapporto sessuale e lo inibisce, in Alberico) ma anche e soprattutto della propria intelligenza, del proprio orgoglio, di una serie di caratteri della propria personalità da lei inizialmente considerati irrinunciabili.

       In Qui s’insegna a rubare, il protagonista Battista, «servitore di vecchio stampo», in conflitto con la nuova servitù (che esige rispetto dal padrone o gli ruba) e da essa accusato di essere servo nell’anima, inscena, a seguito di una crisi d’identità, un poco verosimile e paradossale furto nel tentativo – risolto in maniera autopunitiva (infatti ne muore) – di liberarsi dalla propria follia di amorosa servitù. Il ruolo di servitore e il connesso giudizio altrui (che considera ridicola e patetica al contempo, sorpassata e incomprensibile, la volontà di servire) gli pesano al punto che egli preferisce rivelare (presumibilmente: fingere di rivelare) di aver sempre indossato, tartufescamente, una maschera che celava il volto di chi godeva, in segreto delle sventure dei padroni (nella sola attesa del «bottino» testamentario). L’incertezza tra quale sia il volto e la maschera di Battista sembra risolta alla luce dell’innocenza, diciamo così, del furto da lui commesso: un furto che, in realtà, non sottrae nulla a nessuno. Al di là della innocenza presumibile dall’assenza di danno, peraltro, si manifesta conclusivamente un chiaro intento di vendetta.

Questa ironicamente spietata autoanalisi filiale mi pare spiegare la motivazione dell’occultamento del contributo di Stefano all’opera paterna. Battista infatti, per quanto giunto a una diversa interpretazione della sua vita e dei suoi atti (come il protagonista del paterno Tutto per bene, per più versi pertinente), è incapace di vendicarsi rubando a chi gli ha rubato: «Tutta la vita, m’avete derubato!» esclama in una delle scene conclusive, ai padroni, quando attua e rivela la sua terribile e insieme innocente e ridicola vendetta. Battista gode in segreto di quello che, solo ai suoi occhi, è un furto: egli, infatti, lascia gli oggetti ‘rubati’ nella casa padronale, cambiando loro posto e, così facendo, rendendoli ‘propri’. Fuori di metafora, quegli oggetti – nascosti più che rubati – sono le pagine che appartengono a Stefano e la particolare psicologia che emerge è quella del negro, del ghost writer, come può ben capire chiunque interviene (con correzioni o editing) su testi altrui.
Gli apocrifi di Luigi Pirandello dunque, come ogni altra pagina della «collaborazione creativa» di Stefano, erano nascosti non solo per la vergogna della domestica servitù filiale, ma anche per il tutto personale e vendicativo piacere del ‘furto’ commesso: furto legato non all’oggetto, al suo possesso (ché prevarrebbe, allora, il furto vero o il disvelamento del furto: fuori di metafora l’attribuzione a se stesso), ma alla sostituzione d’identità. Furto, in conclusione, dell’identità paterna, come risarcimento della propria identità rubata. Come potrebbe non essere questo il problema, esaminando il «mistero della paternità» e, per di più, nella famiglia il cui nome si è esteso, per antonomasia, a designare i casi di duplice, incerta e molteplice identità?
Identità e filiazione incerta, quella di Stefano Pirandello, nascosta e insieme esibita, a cominciare dallo pseudonimo con il quale tentava di sottrarsi all’«invadente importanza del padre». Così la definiva, in Maupassant e “l’altro”,Alberto Savinio, aggiungendo che la ragione della scelta dello pseudonimo di Stefano Landi non la conosceva nessuno «e tanto meno lui», Stefano; alludendo così, con fine penetrazione psicologica, a un filiale conflitto inconscio, nascosto e manifestato in quel nome che egli interpretava identificandolo con quello dell’ultimo boia del Granducato di Toscana. [41]

 [41] A torto, secondo il figlio di Stefano, Andrea, che lo collega al Lando Laurentano de I vecchi e i giovani. Indipendentemente dall’origine dello pseudonimo va qui ricordato che Stefano non volle deflettere dal suo uso, nonostante le pressioni del suo editore affinché firmasse col suo vero nome. Nella circostanza, ad esempio, della pubblicazione del romanzo Il muro di casa: «Io non ho potuto accettare», scriveva in una lettera al padre del 10 maggio 1935: «sarebbe una volgarità». Solo nel 1953, per la rappresentazione, con la regia di Strehler, di Sacrilegio massimo, Stefano tornerà a chiamarsi Pirandello, rinunciando, come scriveva a Paolo Grassi, a «questa mascheretta, che del resto non mi ha mai celato» (cfr. Sarah Zappulla Muscarà, Enzo Zappulla, La vita e l’opera, in Stefano Pirandello, Tutto il teatro, cit., p. 368).

Per «far giustizia» di quell’invadente importanza «del padre che per lui non ci voleva» postillava, in seguito, Leonardo Sciascia. [42]

 [42] In Alfabeto pirandelliano, alla voce Landi, riprendendo e citando Savinio.

Scriveva ancora Savinio:

Il mio amico Stefano Landi ha scritto una commedia che si chiama Un padre ci vuole. Quanto di vero in quest’affermazione? […] La commedia […] è un jeu subtiltra padre e figlio, nel quale un figlio fa da padre al proprio padre […] è una squisitapirandellata, con questo in più: che il suo pirandellismo è perfettamente decantato, quasi il chiarificato del pirandellismo […]. [43]

 [43] Alberto Savinio, Maupassant e l’altro, Milano, Adelphi, 19954, p. 16.

Savinio aveva già scritto di Pirandello padre e figlio, recensendo, il 10 dicembre 1938, un’altra commedia di Stefano, Il falco d’argento:

Luigi Pirandello noi lo difenderemo sempre e dappertutto. Non perché Pirandello ci piaccia […] ma perché […] egli aveva ciò che agli altri generalmente manca, volontà di grandezza, curiosità di ricerca, fiducia nella pazzia. […]

Ma Pirandello non è morto: egli si continua nel figlio Stefano, come un fiume si continua in un altro fiume. Mai come in questo esempio il mistero della paternità si rivela nella sua forma più profonda e confortante, e quell’incubo, quell’ostacolo, quella “vergogna” che i grandi uomini sono generalmente per i propri figli, qui si risolve nella conseguenza più naturale, più ovvia.[44]

 [44] Idem, Palchetti romani, a cura di Alessandro Tinterri, Milano, Adelphi, 1982, p. 351.

L’ulteriore notazione saviniana sul «continuo, l’invisibile “terremoto della pazzia” [che] scuote questi personaggi» verso le «nere vette della tragedia», può essere estesa ai personaggi della (più pirandelliana) tragedia ridicola, umoristica, di Un padre ci vuole.
Abbiamo già ricordato il tema che costituisce la situazione della commedia: un figlio che fa da padre al proprio padre. Indicheremo uno solo dei possibili riscontri nel-l’opera di Luigi: I piedi sull’erba, una novella del 1934, sulla vita di un padre, divenuto vedovo, nella casa del figlio sposato. «Per suo figlio, tutt’a un tratto, è diventato come un bambino. Ma dopo tutto si sa che avviene quasi sempre così, i padri che diventano i figli dei proprii figli cresciuti». [45]

 [45]  Luigi Pirandello, Novelle per un anno, III, t. i, a cura di Mario Costanzo, premessa di Giovanni Macchia, Milano, Mondadori, 1990, p. 664.

Nella commedia di Stefano il figlio si chiama Oreste. Egli svolge la propria funzione genitoriale in maniera amorevolmente materna, dopo la morte di sua madre e la distruzione di mezza famiglia nel tragico incidente stradale provocato da suo padre Ferruccio. Oreste difende il padre da coloro (tutti, in paese e in tribunale) che lo incolpano della sciagura stradale; lo salva dall’annientamento del lutto e della depressione e dal, conseguente, tentativo di suicidio; provvede a tutte le incombenze necessarie, inclusa la gestione dell’azienda paterna, coinvolta in un sempre più pesante indebitamento.
Per risparmiare al padre ulteriori preoccupazioni, gli nasconde persino l’imminente fallimento, che spera di scongiurare con l’aiuto dell’unico fratello rimasto, allontanatosi per insuperabili dissapori, o, altrimenti, sacrificandosi e sposando la figlia «scema» del socio d’affari del padre. La commedia costituisce, in definitiva, un condensato di circostanze della vita di Stefano e di Luigi (che ripercorreremo solo di sfuggita e indirettamente), [46] trasposte ma riconoscibili, tanto più dopo la recente pubblicazione delle lettere tra Stefano e il padre.

 [46]  A partire dallo spettro del matrimonio combinato e di convenienza di Luigi con Antonietta Portolano che è circostanza biografica risaputa. Meno risaputa, invece, la circostanza del consapevole sacrificio del figlio sull’altare del Padre, dopo le sue inutili resistenze, che emerge dalla lettera di Luigi al fratello Innocenzo pubblicata per la prima volta in Pirandello & lo zolfo, Catalogo della mostra tenuta ad Agrigento nel 1997, Palermo, Regione Siciliana, Biblioteca-Museo “Luigi Pirandello” di Agrigento, 2000.

       Oreste svolge la sua funzione genitoriale anche con l’assolutezza del comando del pater familias, con una minuta e invadente pretesa di regolazione dei comportamenti anche nella sfera affettiva ed erotica. È infatti da una presunta ‘scappatella’ del padre-figlio che si genera, in concomitanza con il precipitare della situazione economica, il drammatico conflitto al centro dell’opera teatrale, in un clima emotivo che richiama quello della famiglia Pirandello a metà degli anni venti, dopo la comparsa di Marta Abba e nel pieno di conflitti e vicende d’interesse che videro contrapposti Lietta e suo marito Manuel a Stefano e Fausto e che sfociarono in traumatiche rotture familiari. La natura drammatica, a tratti tragica, nell’irresolubilità del conflitto, è peraltro, in parte, dissimulata: il paradossale rovesciamento dei ruoli di padre e figlio tocca punte di farsesca comicità che regredisce a un umorismo di conio specificamente pirandelliano, quando talora emerge il patetismo che si affianca al comico e all’ironia.
Per un più puntuale riscontro biografico occorrerebbe, peraltro, conoscere il primo anello, mancante, nella catena evolutiva dell’ideazione e della stesura dell’opera: Il minimo per vivere. Quella commedia, compresa tra i lavori italiani inseriti nel programma del Teatro d’Arte di Luigi Pirandello, era già annunciata su «La Tribuna» del 27 novembre 1924. [47]

 [47]  Interviste a Pirandello. «Parole da dire, uomo, agli altri uomini», a cura di Ivan Pupo prefazione di Nino Borsellino, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, p. 293.

Lo spettacolo, pur inserito tra i 23 titoli della prima stagione, non arrivò sulle scene. [48]

 [48]  Alessandro d’Amico, Alessandro Tinterri, Pirandello capocomico. La Compagnia del Teatro d’Arte di Roma 1925-1928, Palermo, Sellerio, 1987, p. 295.

E che non fosse un progetto irrealizzato, lo testimonia Massimo Bontempelli quando, rievocando le origini del Teatro d’Arte e la lettura d’innumerevoli copioni, cita quello di Stefano: «soltanto Pirandello lo aveva letto, e parlava con una specie di pensosa ammirazione delle qualità profonde di questo lavoro». [49]

 [49]  Ivi, p. 396. Vi è riprodotto: Massimo Bontempelli, Il teatro degli Undici o Dodici, «Scenario», febbraio 1933.

       Quali fossero le ragioni della mancata messinscena non è chiaro. Stefano ne scrive a Luigi, il 5 dicembre 1925, in risposta a una sua lettera, ricevuta tramite Guido Salvini, che spiega perché «non crede opportuno per ora mettere in scena Il minimo per vivere»; [50] ma, mancando questa lettera di Luigi, non ne sappiamo di più.

 [50]  Luigi e Stefano Pirandello, Nel tempo della lontananza, cit., p. 66.

Né ci aiuta una, di poco precedente, lunga lettera a Stefano di Salvini che ne preannuncia la rappresentazione per la successiva Quaresima (assieme al Capitan Ulisse di Savinio); lettera per altri versi importantissima, poiché si sofferma, soprattutto, sul rapporto tra Luigi Pirandello e Marta Abba. Da alcune frasi di Pirandello, scrive Salvini,

ho capito che tu dovevi aver scritto a tuo Padre qualche cosa sui pettegolezzi che si fanno in Italia circa una sua presunta passione per la signorina Abba. Dopo che a Como la famiglia Abba consegnò la propria figlia a Tuo Padre per la tournée ne venne un naturale avvicinamento, derivato dalla convivenza continua sia in treno come negli alberghi e nei Restaurants. Da che cosa sia nata quella strana forma di amitié amoureuse che si sviluppò violentissima nelle forme esteriori, io non lo so. Certo i sensi non hanno parlato, né con sentimentalismo romantico né con bisogno di affetto. Fu una furia improvvisa che però si manifestava solo nelle attenzioni esteriori ch’egli le usava, e che non erano e non furono mai insozzate dal benché minimo sprazzo di sensualità. […]

       Una mattina, a Lipsia, il 26 di ottobre, verso le 10½, scesi in camera di tuo Padre. Lo trovai al tavolino: il letto intatto. Nella notte aveva scritto tutto il primo atto di Diana e la Tuda. [51]

 [51]  Ivi, pp. 248-250. Senza data, ma databile, scrive la Zappulla Muscarà, tra il 26 e il 27 novembre 1925.

Sulle circostanze di quella composizione e il tasso di sensualità di quell’amitié amoureuse, la testimonianza di Salvini differisce alquanto da quella di Orio Vergani. [52]

 [52] Vergani, che fu tra i fondatori della Compagnia degli Undici e che, indirettamente, presentò la Abba a Pirandello, scrive: «Gli attori della compagnia dicevano che Pirandello non “consumava”: si accontentava di contemplare la sua interprete nuda, distesa su un divano mentre lui scriveva» (Orio Vergani, Misure del tempo. Diario 1950-1959, a cura di Nico Naldini, Leonardo, 1990, p. 40).

Ma non è questo il punto che qui c’interessa. Ci preme, piuttosto, evidenziare il fondo autobiografico di quella celeberrima «tragedia», controversa, e per certi versi esemplare, anche sul piano della storia della critica pirandelliana. Vicenda che, scrive Alessandro d’Amico, «sembra nascere traumaticamente» nei giorni della tournée in Germania già ricordata e nei dieci mesi successivi di elaborazione. [53]

 [53] Nella Notizia premessa al testo in Luigi Pirandello, Maschere nude, III, cit., p. 577.

Mesi di grosse tensioni familiari, in parte testimoniate dalle lettere [54] e sfociate nella revoca della procura a Manuel, nella rottura tra fratelli e tra il padre e la cacciata della «coppia delinquente» e il testamento olografo in favore di Marta Abba, ‘figlia’ acquisita.

 [54] Ma solo in parte perché non poche sono le omissioni nelle lettere pubblicate di quei mesi. Alcune recuperabili (quelle dovute alla volontà degli eredi), altre no. Ad esempio lo sfogo di una lettera di 12 facciate cui Stefano accenna nella sua lettera, anch’essa importante, del 10 giugno 1926, in cui ribadisce la sua filiale e amorosa «devozione assoluta», il suo amore «più libero e schiavo del comune affetto dei figli»; e prosegue: «Perché devi avere, Papà mio, questo senso atroce della tua vita e di noi che ne siamo le creature?» (Luigi e Stefano Pirandello, Nel tempo della lontananza, cit., pp. 73-74).

       Anche quella “figlia” d’arte ardeva, nell’ardente vita di Luigi Pirandello, come la «pazza» Tuda dice nella scena conclusiva della tragedia pirandelliana, rivolta prima a Sirio Dossi: «Prendimi, prendimi, prendi la vita che mi resta»; e poi a Nono Giuncano: «Lei cercava una pasta ardente da colare dentro alle statue? Eccola! Eccola! Io ardo! io ardo!». [55]

 [55]  Luigi Pirandello, Maschere nude, III, cit., p. 660.

Nella contesa che si accende tra Giuncano e Sirio che, non dimentichiamolo, è suo figlio (sia pur con qualche dubbio), Sirio è ucciso dal padre. «Qua ora si farà giustizia», aveva anticipato Giuncano a Sara, la donna di Sirio.
Il tema della paternità torna all’inizio del terzo atto quando Giuncano rivela a Sara: «Io lo odio, lo odio […] come lo odiai quando nacque a sua madre!». Sirio, pur rappresentando un parziale alter ego pirandelliano, una componente dell’arte sua e di qualsiasi artista (l’arte che vampirizza la vita, che si nutre del dolore e delle sventure), è anche e soprattutto il figlio. Un figlio che, da un canto, vuole salvare l’anziano padre, assecondandone il (sia pur contraddittorio e contraddetto) desiderio di fuga dalla vita («La vita non mi deve riprendere! non mi deve riprendere!») [56] formulato nella stessa scena in cui, come abbiamo già visto, si affaccia il tema della vecchiaia, del corpo, del rapporto con il padre; ma, d’altro canto, lo condanna alla vecchiaia, all’incipiente morte (allo spegnimento del fuoco creativo), [57] allontanandolo dalla vita da cui quegli si sente nuovamente attratto e anteponendo a lui e a Tuda, il suo sogno d’arte, realizzato con cinica irrisione e spregio della vita e di Tuda.

 [56] Ivi, p. 637.

[57]  «Mantenere l’anima continuamente come in uno stato di fusione; per non farla rapprendere, irrigidire. Ci vuole il fuoco, caro Maestro. Se dentro di voi il fornellino è spento?», dice Sara a Giuncano (ivi, p. 645). Sara, rimproverata, con Sirio, di cinismo, replica a Giuncano: «Non siamo più avvezzi alla bontà».
Guido Salvini, nella già citata lettera a Stefano, così proseguiva, riferendosi a Luigi Pirandello:

Mi disse: “C’è un nuovo personaggio, un vecchio scultore che ama Tuda. All’ultimo atto egli, per impedire che il giovine artista uccida Tuda, a sua volta lo ammazzerà ma, quando davanti ai suoi occhi apparirà la grande statua incompiuta, egli sentirà l’orrore di ciò che ha commesso, per avere impedito il compimento di un’opera d’arte… e tutto ciò per una donna che poi non vale nulla”. Io ero felice: avevo la chiave del mistero, perlomeno credevo di averla.

Se quel mistero fosse o meno collegato a Il minimo per vivere incompiuto come la statua di Sirio, impedito nel suo compimento scenico sino al 1936, non si potrà dire se non quando ne riemergerà il copione. Ma certo è che Un padre ci vuole sembra quasi l’opera «a specchio» diDiana e la Tuda, nascendo dallo stesso «fuoco bianco» di incandescenti emozioni, di magma biografico sotto la spessa crosta di pirandellismo – qui più spessa che altrove, date le note circostanze storico-critiche che non staremo a ripercorrere (e per cui rinviamo alla «Notizia» di d’Amico nella sua edizione delle Maschere nude) – di filosofia della Vita e della Forma, di tilgherismo. Ed è dunque la prova che anche sotto quella spessa crosta c’è la «pasta ardente» che Tuda vuole immettere nella rigida scorza statuaria e che, a riscoprirla, può forse rivitalizzare un testo dei più sfortunati, sulla scena, tra i tanti fortunatissimi del teatro pirandelliano.
Poiché il clima emotivo di Un padre ci vuole è connesso all’apparizione di Marta Abba, converrà accennare brevemente alle relative vicende biografiche nei mesi successivi alla composizione di Diana e la Tuda e ad alcuni sviluppi negli anni che separano quel 1926 dal 1936, anno della pubblicazione e rappresentazione dell’opera di Stefano.
L’unica lettera nota in cui Stefano fa un qualche riferimento al rapporto tra il padre e la Abba, anche se solo in quanto attrice, è quella del 28 ottobre 1926 in cui egli riferisce i pettegolezzi sui manifesti con il nome della Abba a caratteri cubitali. Successivamente Stefano fa qualche allusione nei giorni in cui Pirandello vive a Berlino con Marta. Solo quando Marta lo lascia, Luigi, il 19 marzo 1929, gli risponde:

Parliamoci chiaro, Stenù. […] Vuoi alludere alla mia relazione con la Signorina Marta Abba? Io ti dissi una volta di che natura è questa relazione […]. Hai torto, Stenù. Io sento per la signorina Abba un affetto purissimo e vivissimo, per le cure filiali che ha avuto per me, per il conforto che m’ha dato della sua compagnia in tre anni di vita raminga, per l’amore fervidissimo e l’intelligenza che ha dimostrato sempre d’avere per la mia arte, la difesa che sempre n’ha fatta, le lotte al mio fianco combattute, per la superiorità vera di spirito e l’abnegazione con cui, sfidando il vilipendio, m’è durata accanto, paga soltanto della sua coscienza pura e onesta. [58]

 [58]  Luigi e Stefano Pirandello, Nel tempo della lontananza, cit., p. 118.

In quegli anni i rapporti tra padre e figlio conoscono momenti di forte conflitto legati a questioni economiche, a debiti, alla vendita della villa di Via Onofrio Panvinio costruitagli da Nardelli. [59]

 [59] Seguendone la corrispondenza vediamo Luigi sollecitare Stefano a vendere il villino per ripianare i pesanti debiti del teatro d’Arte e rimproverarlo, prima, di essersi stancato presto di assisterlo come segretario (11.11.1926) e poi, più pesantemente, di aver pensato, come Fausto, a farsi solo i propri affari (25.1.1927). Luigi torna più volte sui debiti per i quali ritiene che Stefano non s’impegni a vendere la villa e gli rinfaccia il suo «sordo silenzio» (30.12.1928). Ancora più pesanti le accuse nella lettera del 13 novembre 1927 di cui gli eredi posseggono solo la copia che Marta Abba esibì durante una causa contro di loro, con l’intento di screditare la condotta di Stefano. Potrebbe trattarsi, dunque, di una lettera non spedita (secondo le notizie che devo alla cortese collaborazione di Andrea Pirandello).

Nella lettera su citata, Luigi, dando a Stefano «l’ordine di vendere», diviene perentorio ma, poi, tenta di ricucire con lui un dialogo, sul piano degli affetti, pur rifiutando la proposta di tornare in Italia per vivere con lui e la nuora: «Ritornare dove e a far che? […] Ho bisogno di fuggire e di fuggirmi. L’idea di dover star fermo mi spaventa […]; ma vedi, Stenù, io non dubito di te, io dubito di me, di guastare la tua pace, con quest’animo mio».
I tentativi di Stefano di far tornare il padre in Italia e di riaverlo con sé (da esaminare in un contesto di relazioni non solo personali ma di lavoro e politiche: con il regime, per il progetto del Teatro di Stato, ad esempio) riusciranno dopo che nel 1932, nel periodo di massima depressione, Luigi chiuderà la propria casa di Parigi. Quando, nell’autunno 1933, Stefano si trasferirà in via Bosio, Luigi, di ritorno dalla tournée nell’America del sud, vi si stabilirà anche lui, in un diverso appartamento preso in affitto.
Luigi sperava sempre, in realtà, di prendere casa con Marta Abba ma negli ultimi anni il distacco tra i due aumenta: prima con gli impegni della Abba nella sua compagnia (che pure Luigi segue), poi, soprattutto, e definitivamente, con la partenza di lei, per Londra e poi per gli Stati Uniti. Marta Abba sottoscrive un contratto con un impresario americano nell’aprile 1936, lo stesso mese della pubblicazione, su «Scenario», di Un padre ci vuole che era già andato in scena il 21 gennaio, al Teatro Alfieri di Torino, con la Compagnia Tofano-Maltagliati-Cervi. Le lettere di Pirandello a Marta Abba ne registrano l’attesa della vigilia, quando Luigi è in partenza da Roma, con Stefano, per assistervi, ma non le reazioni dell’indomani. Registrano invece gli esiti delle successive messinscene milanesi e romane. [60]

 [60] «A Milano, purtroppo, la commedia di Stefano ha avuto esito sfavorevole, e non s’è nemmeno replicata. Eppure, era una bella commedia: mah!» (4.3.1936). E (il 24.6.36) sulla più fortunata prima romana al Quirino: «nel complesso è andata bene […] tanto che stasera si replica» (Luigi Pirandello, Lettere a Marta Abba, a cura di Benito Ortolani, Milano, Mondadori, 1995, p. 1292 e p. 1340).

       Un padre ci vuole si apriva con la discussione all’alba, in casa Tressa, tra Oreste e la domestica Filippa sulla scomparsa del padre di lui, il sessantenne Ferruccio, alla presenza di Bruti, che ha aiutato Oreste nelle vane ricerche durate l’intera notte. Oreste è donchisciottescamente chiuso nel suo ruolo ideale di padre di suo padre, uomo un tempo «d’un’energia sbalorditiva» e ridotto, dalle vicende che abbiamo già riassunto, in un’assoluta prostrazione depressiva. Filippa, a mo’ di Sancho Panza, tenta inutilmente di distoglierlo da quel ruolo («Bada che ti sei fissato, tu, nella parte di tutore di tuo padre. Non lo fai più respirare»). La situazione iniziale si presenta su un crinale drammatico e potenzialmente tragico, con il ricordo di un tentativo di suicidio di Ferruccio (che parrebbe giustificare le ansiose cure del figlio-padre) e della «tirannia» di Ferruccio, secondo Filippa, nei confronti della moglie e dell’altro figlio, Alfredo, fuggito in cerca di una propria vita. La vicenda s’incanala però subito dopo su un crinale comico-farsesco che culmina con la visita di Francesca Ciàmpoli, madre della trentenne Clelia, scomparsa anch’essa: fuggita con Ferruccio, rapita, sostiene la madre che la rivuole indietro, senza scandali. È la conferma della ‘scappatella’ sessuale subito ipotizzata da Filippa: «i calori del sangue: ecco tutti i tormenti di quell’uomo: e lui [Oreste] si monta la testa! Ma fa finta di montarsela: […] per costituire rimorsi […] al padre». L’ostentazione del ruolo paterno al quale Oreste è «fissato», è dunque una sorta di maschera alla quale egli non può rinunciare (e insomma, in breve, e fuori di scena: la maschera di filiale «bontà» di Stefano quale contraltare di quella vedovile di Luigi). La scena tra Oreste e Francesca è un susseguirsi di comicissimi equivoci: il figlio, dato il suo aspetto senile, è scambiato per il padre, da cui Francesca esige la ripa razione e le spiegazioni che, a sua volta, le chiede Oreste, quando protesta: «mio padre non ha rapito: è stato rapito!». Francesca, allora, deve difendere la figlia dalle illazioni di Oreste a proposito di certe «ragazze avide, disposte a subire un vecchio, se ricco: ma mio padre non è neanche ricco! siamo all’orlo del fallimento!». Oreste vuol fare «giustizia» (proprio come Giuncano nei confronti del figlio), essere il giudice di un «giudizio […] spassionato». Non, come equivoca Francesca, indulgente: al contrario, inflessibile, nel «tribunale della coscienza».
E quest’intento appare molto più pirandelliano di quello, tragicamente vendicativo, di Giuncano; perché richiama, nello spirito e nella lettera, il giudizio della critica umoristica, della riflessione che scompone, come uno specchio, ogni illusione e velleità. [61]

 [61] Luigi Pirandello, L’umorismo, introduzione di Nino Borsellino, prefazione e note di Pietro Milone, Milano, Garzanti, 1995, p. 172. È il passo che precede la giunta del 1920 che esemplifica con «una vecchia signora coi capelli ritinti» l’umoristico sentimento del contrario.

Non era stato proprio Luigi a far dire all’anonimo grande mascherato protagonista dell’Enrico IV: «Ecco: quando non ci rassegniamo, vengono fuori le velleità. Una donna che vuole essere uomo… un vecchio che vuol esser giovine… Nessuno di noi mente o finge! C’è poco da dire: ci siamo fissati tutti in buona fede in un bel concetto di noi stessi». [62]

 [62] Idem, Maschere nude, II, a cura di Alessandro d’Amico, Milano, Mondadori, 1993, p. 817.

Nella redazione del 1936 di Un padre ci vuole, il più velleitario e ridicolo dei due protagonisti appariva il figlio, fin dalla caratterizzazione fisica. [63]

 [63] Nelle didascalie iniziali che presentavano un Oreste dall’aspetto senile e «arcigno» (poi ridicolmente degradato anche nei malanni fisici: nei piedi gonfi, per il lungo cammino in cerca del padre) e un Ferruccio «vigoroso […] gli occhi chiari ridenti o feroci», i capelli folti e neri, vesti giovanili («con una fascetta da lutto al braccio»).

Anche per questo essa non doveva dispiacere a Luigi.
Al figlio che, nel secondo atto, si preoccupa dello «stato di ebbrezza» prodotto nel padre da Clelia come un’«illusione di felicità, di … di liberazione, che glifa paura», Ferruccio ribatte di aver ricominciato a vivere; ma per Oreste si tratta di «pazzie» da ostacolare in tutti i modi. [64]

 [64] «risparmiarmi! Pensare un po’ anche a me stesso, alla fine!».

Per Ferruccio, invece, è Oreste ad essere «pazzo», per la sua fissazione a fargli da padre. A lui e al figlio Alfredo, sopraggiunto, Ferruccio ribadisce: «vi volete mettere in testa che non sono finito? E che voglio seguitare a essere il padre?». Affermazione poco convincente per Clelia che, andandosene, gli ingiunge: «Bisogna che lo dimostri che sei tu il padre, non solo, ma anche il padrone».
La dimostrazione arriverà nel terzo atto, con un Ferruccio inferocito: «Via i traditori!», urla, contro Oreste, al quale imputa anche la colpa dell’imminente fallimento e persino la sua intenzione di sacrificarsi, sposando la figlia scema di Cravanzola, che giudica solo come una prova della sua dabbenaggine. Solo Clelia trattiene Ferruccio dal cacciare di casa Oreste che, di fronte a questa cieca incomprensione paterna, prorompe in un lungo, intervallato, monologo sulla paternità: «L’uomo nasce orfano» e «ha bisogno d’esser partorito due volte»; una seconda volta, in spirito, dal padre o da chi ne fa le veci. Perché «Un padre ci vuole!». «Ogni volta che gridiamo aiuto abbiamo chiamato il padre!». Discorso serissimo, drammatico, se non fosse che Oreste lo pronuncia «in pigiama e ciabatte, con un fazzoletto di colore stretto attorno alla fronte» e «furente, commosso, spiritato» in quanto, malato, appena alzato dal letto, febbricitante e, poi, con una borsa di ghiaccio in testa.
Ferruccio, propenso a trattare con Alfredo le condizioni per cedergli le redini della ditta, finisce per schiaffeggiarlo quando questi, prospettandogli le insormontabili difficoltà legate alla possibile nascita di altri figli, lo rimprovera per «la più solenne delle pazzie». La commedia si conclude con la riconciliazione tra Ferruccio e Oreste.
Come già detto, questa prima redazione non doveva spiacere a Luigi Pirandello. Clelia ha un ruolo pacificatorio e trionfa, conclusivamente, con Ferruccio, che riconquista il ruolo di padre (e padrone, salvato dalla bancarotta da Bruti). Oreste, buono, onesto, incapace negli affari e nel capire gli altri (e Clelia), vi appare come un pazzo dal raziocinio esagitato, al pari di tanti personaggi pirandelliani. Il suo folle donchisciottismo smaschera la sua patetica e ridicola velleità di sostituirsi al padre che ci vuole del titolo. Insomma: vince il padre, l’autorità e il potere del vecchio sul giovane e umoristico – a tratti ridicolo e a tratti tragico – usurpatore (punito e perdonato).
La redazione che leggiamo oggi, in Tutto il teatro, è ben diversa: fu cambiata profondamente e nel 1955 tornò in scena e fu ripubblicata con il titolo La scuola dei padri. [65]

 [65] Uscì su «Scenario» del giugno 1955, dopo esser stata rappresentata, il 17 maggio, dalla Compagnia dello Stabile di Trieste. La profonda revisione risalirebbe però al 1952, come testimonia un quadernetto di appunti di Stefano che operò ulteriori revisioni: nel 1960, ripristinando il vecchio titolo iniziale, e sino al 1969 (devo queste notizie al figlio Andrea).

Stefano scriveva a Valentino Bompiani del suo lavoro:

Non soltanto riscritto: l’ho proprio rifatto. Approfondendo il tema, liberandolo, nella sostanza e nella forma. Esprimeva allora – a te che conosci la mia storia di figlio posso confidarlo – uno strano atteggiamento, quasi una voluttà di umiliare e schernire la mia patetica devozione a mio Padre: che anchilosava il personaggio, rendendolo in qualche tratto perfino burattinesco. Soltanto adesso che il mio spirito si è maturato, finalmente capace di reggere il peso di certe affermazioni, ho riscattato quel mio strano peccato contro la bellezza dei miei sentimenti, e ho potuto dire tutto di me, e di tanti padri diversi e della figura paterna. [66]

 [66] Cfr. il 13 gennaio 1955 de Sarah Zappulla Muscarà, Enzo Zappulla, La vita e l’opera, in Stefano Pirandello, Tutto il teatro, I, cit., p. 396.

Il personaggio di Ferruccio è caratterizzato più negativamente e il finale è più carico di tensioni, sotto la solo apparente facciata di riconciliatorio happy end; il registro da umoristico, con uno sfondo autopunitivo, [67] diveniva più ironico, con toni impensabili nella prima redazione, a tratti ferocemente irridente nei confronti del padre. [68]

 [67]Il tratto autoironico e autopunitivo della genesi dell’umorismo pirandelliano, emerge nell’analisi del Don Quijote: «come si spiegherebbe altrimenti la profonda amarezza che è come l’ombra seguace d’ogni passo, d’ogni atto ridicolo, d’ogni folle impresa di quel povero gentiluomo della Mancha? È il sentimento di pena che ispira l’immagine stessa nell’autore, quando, materiata com’è del dolore di lui, si vuole ridicola […] per […] punirsi con la derisione che gli altri faranno di lui» (Luigi Pirandello, L’umorismo, cit., p. 135).

 [68] Si veda, ad esempio, l’importante variante del ritorno a casa di Ferruccio. Nella prima redazione avviene per ellissi, tra primo e secondo atto. Apprendiamo poi che Oreste si è sfogato con Clelia, non con Ferruccio che, invece, nella redazione definitiva, alla fine dell’atto I, è sottoposto a una lavata di testa alla quale egli cerca di sottrarsi, provocando, al contrario, una più violenta sfuriata del figlio-padre: «Non ti vergogni d’usare questo tono con me?».

    Per riassumere: Ferruccio intende l’amore, al pari di Alfredo, come una rapina, mentre Oreste l’intende come dono. Ferruccio, oltre che un «energumeno» (con Filippa) si rivela un cinico egoista di cui Clelia stessa inorridisce quando egli, alla fine, sostenendo che nella vita ci sono i forti e coloro che sono nati per sacrificarsi, implicitamente ammette la propria indifferenza all’amorevole sacrificio del figlio. Bruti, allora, non trattenuto, come gli altri, da alcun riguardo, lo rimprovera di una cieca, mostruosa insensibilità. [69]

 [69]  «Che almeno se lo senta dire!», dice riferendosi a Ferruccio, con una battuta tragicamente ironica, visto che nella prima edizione, Pirandello vivente, la battuta non c’era.

       Nella redazione definitiva il personaggio di Bruti assume un ruolo molto diverso e da protagonista, quasi fratello e alter ego di Oreste che, conclusivamente, va via con lui. Il titolo, che si carica molto più profondamente di un opposto senso ironico-antifrastico, significa che il padre che ci vuole è quel certo tipo di padre di cui proprio Bruti discorre distinguendolo da un tipo opposto da cui, invece, bisogna guarirsi, per dirla come, a Stefano, diceva Valentino Bompiani (a lui s’ispira, forse, la nuova caratterizzazione del personaggio?); e come diceva Debenedetti a proposito di un’intera generazione, in Personaggi e destino, dopo il sacrificio della seconda guerra mondiale.
Esaminiamo, in proposito, le parti che Stefano aggiunge alla commedia: nell’atto I Bruti fa una lunga tirata contro i padri autoritari e la presunta sacralità del comando, mentre, sostiene lui, sacro è il figlio. Il padre autoritario comanda per «vedere come si rattrappisce sotto una tonnellata di suasporca volontà una piccola anima ingenua di figlio». Ci vuole il padre che ti rende libero, dice sempre Bruti, non quello che cinicamente t’immola sull’altare del suo egoismo. Luigi, che da figlio si era immolato in un rovinoso matrimonio per interesse, avrebbe dovuto intenderlo, ma, da padre, non capiva i sacrifici di suo figlio, stando a quanto Stefano gli rimproverava, per il tramite dei suoi personaggi. Le varianti della redazione definitiva [70] segnano un notevole scarto anche nel fondamentale tema della paternità.

 [70] Da segnalare anche che Clelia non è più conclusivamente circonfusa da un’aureola di bontà salvifica: è lei a fomentare le sfuriate di Ferruccio che, infatti, l’accusa d’insincerità quando ella cerca di mostrarsi conciliante. Viene inoltre maggiormente contraddetta da Oreste, in un’ampia e importante variante del ii atto, contenente una lunga perorazione dello speciale rapporto che lega il padre al figlio. Là dove Oreste da figlio-padre semplicemente rimproverava l’irresponsabilità della scappatella del padre-figlio, Oreste sostiene ora che Ferruccio l’ha ingannata: «”un figlio”… E tutto qui? […] Bastava… dirle i fatti e lei stessa avrebbe visto l’assurdità di venirsi a cacciare in mezzo» in un rapporto umano di piena fusione: «così (fa di colpo le mani come attorno a una pallottola più volte)»; «e chi ormai è il figlio e chi il padre… chi può distinguerlo più?» (Stefano Pirandello, Tutto il teatro, II, cit., pp. 614-615).

Oreste infatti, che porta nel nome l’ipoteca del destino di un vendicatore paterno, volontario matricida – pur portando anche i riconoscibili segni (i piedi gonfi e fasciati) di Edipo, involontario parricida – smentisce quel destino rifiutando una propria identità costituita, all’interno delle relazioni parentali, nel nome del padre; come si vede da una delle discussioni scientifiche che Oreste, biologo, ha con il padre: «Quando abbiamo approfondito che i nostri primi accordi con l’Essere noi li abbiamo con la madre…». [71]

 [71] Ivi, p. 600.

Tema ripreso e sviluppato nel ii atto in un lungo discorso sulla paternità ben più serio del febbricitante ridicolo delirio della prima redazione. Dice Oreste citando Ferruccio: «”Ricordati che sono stato io, che ho messo al mondo te!”. Progenitore! se ci tieni tanto a questo gran titolo: progenitore, benissimo, chi te lo nega? Ma “padre” … via, padre è un’altra cosa». [72]

 [72] Ivi, p. 607.

Il dato biologico, ribadisce qui Oreste, è casomai a favore del predominio del rapporto con la madre:

Tu sai che, in bocca tua, è tutto boria! perché “t’ho messo al mondo io” può dirlo la madre! che a farmi, c’è stata di persona, lei, al lavoro! congiunti io e lei in quel lavoro dove tu – atto di presenza! […] Sai, in realtà, come siamo alla nascita? rispetto al padre… […] L’uomo nasce orfano! […] Comodo sarebbe, intontirmi col nome sacro. [73]

 [73] Ivi, p. 608

La negazione della paternità sul piano biologico, dunque, e la concomitante affermazione sul piano spirituale, culturale, del ruolo di padre come guida, comporta che quel ruolo possa essere criticato, analizzato, desacralizzato (come di fatto la commedia fa):

nella bestia padre è chi è, ma nell’uomo, solo chi fa, chi fa da padre! Che può esser l’istesso, ma non importa se è un altro! chiunque! ma perfino dentro di te puoi trovarlo: te lo fai da te! e può perfino apparire in tuo figlio. Ma un padre ci vuole! […] Perché chi non lo trova… Non entra nella vita da uomo. Resta una forza di natura, capisci? uno… “increato”, caotico! destinato più a distruggere che a fare! [74]

 [74] Ivi, p. 609

A chi si riferiva Stefano, per bocca di Oreste, suo riconoscibile, per quanto letterariamente trasposto, alter ego? A sé o al padre? L’ambiguità paradossale, pirandellianamente umoristica, del rapporto padre-figlio al centro della commedia, autorizza entrambe le ipotesi. Luigi egli lo vedeva, certo, come una forza di natura, potenzialmente distruttiva, quantomeno nella sfera familiare della vita sociale: [75] il figlio del Caos (letteralmente e metaforicamente) che porta in sé il caos, la follia; ma anche il genio della creazione, se il lato distruttivo viene regolato e indirizzato nell’arte grazie ad altri che, come Stefano, avevano consentito a Luigi, di fare, di creare.

 [75] Lo testimonia anche il racconto inedito Ritorno intempestivo pubblicato in questo stesso numero di «Pirandelliana».

Salvo a riaffiorare, di tanto in tanto, in diverse circostanze, costituendo una ragione in più, per il figlio, di richiamarlo al dovere di creare. [76]

 [76] Come nell’importante lettera del 24 febbraio 1932, su cui torneremo.

Stefano, peraltro, si riferiva certamente anche, e con maggior ragione, a sé, visto che, avendo fatto da padre a suo padre, egli un padre non l’aveva avuto e rischiava di essere sempre figlio, l’eterno figlio, increato: il Figlio, l’unico, infatti, tra i sei personaggi, ad accettare la sua condizione di personaggio in cerca d’autore. [77]

 [77] A proposito del Figlio, del suo accanito sottrarsi alla rappresentazione, in rapporto alla figura di Stefano, si veda una variante del 1921, poi soppressa, che gli attribuisce un atteggiamento che abbiamo visto essere di Stefano e da lui rappresentato ne La casa a due piani: «Si lamenta, lui, d’essere stato scoperto dove e come non doveva esser veduto, in un atto della sua vita che doveva restar nascosto, fuori di quella realtà che doveva conservare per gli altri. E io? Non ha fatto forse in modo che toccasse anche a me di scoprire ciò che nessun figlio mai dovrebbe scoprire? come il padre e la madre vivono e sono uomo e donna, per sé, fuori di quella realtà di padre e di madre che noi diamo loro; perché appena questa realtà si scopre, la nostra vita non resta più attaccata che per un solo punto a quell’uomo e a quella donna – tale da far loro vergogna, se noi lo vediamo?» (Luigi Pirandello, Maschere nude, II, cit., p. 990).

     Negli anni Cinquanta, dunque, Stefano – riscrivendo Un padre ci vuole e facendosi padre a se stesso – finalmente chiudeva il suo destino di figlio increato, di personaggio alla ricerca vana del padre e si riconosceva, conclusivamente, in quello di creatore. Negli anni trascorsi dal 1936 aveva sviluppato la sua drammaturgia, con opere come Un gradino più giù, una prova di assoluto valore, o, nel 1953, Sacrilegio massimo, prova scenicamente più complessa con la quale, non a caso, era tornato a chiamarsi Pirandello. [78]

 [78] La tragedia in tre atti Sacrilegio massimo andò in scena il 18 febbraio 1953 al Piccolo Teatro della Città di Milano, per la regia di Giorgio Strehler; tra gli interpreti: Tino Carraro, Giancarlo Sbragia, Elsa Albani, Tino Buazzelli, Romolo Valli. Si rinvia a Sarah Zappulla Muscarà, Enzo Zappulla, La vita e l’opera, in Stefano Pirandello, Tutto il teatro, cit., per un’antologia delle recensioni e per il significativo carteggio tra l’autore e Paolo Grassi e, soprattutto, Giorgio Strehler che dà conto dei suoi rimaneggiamenti del testo. L’opera di Stefano, solitamente incentrata sul tema della famiglia, si apre, con Sacrilegio massimo, a una meditazione sulla storia, la guerra, la violenza, il male.

Egli era altresì alle prese con il romanzo Timor sacro, poi rimasto incompiuto. Il tabù paterno era ormai rotto, sul piano della scrittura, della creatività; meno – forse per altri concomitanti fattori – su quello della testimonianza biografica.
La feroce critica al padre, nella revisione di Un padre ci vuole, era compiuta proprio con gli stessi strumenti da lui ereditati e in nome degli stessi princìpi da lui appresi, alla fonte della sua opera, nel lungo colloquio, intessuto di fecondi scambi, sino al ‘tradimento’ che anche Stefano poteva imputare al padre (come questi imputava ai figli, per altri versi). Luigi aveva tradito il primo Pirandello, letterato forestiere della vita che scriveva e, da dimissionario, non viveva; il Pirandello emblematicamente racchiuso nella conclusione dell’Uno, nessuno e centomila che anche per Stefano era divenuto un «breviario di fede». [79]

 [79] La definizione è dello stesso Stefano, nella sua prefazione al romanzo paterno. Ci torniamo per ribadire- con il già citato passo che la riferisce a chi si è posseduto per intero «come un pazzo, come un eroe, come un santo»- la presenza di una concezione e di termini poi ripresi a definire la propria «bontà», nello scritto ad essa intitolato.

L’annullamento estremo, peraltro, in quella stessa conclusione, trapassava in una forma di perpetua rinascita nel momento effimero di un presente che, in quello stesso periodo, per il suo autore si realizzava quotidianamente sulle scene, grazie a Marta Abba, nuova Musa di quella rinascita di vita.
Luigi aveva ‘tradito’ la letteratura, ma non l’arte creatrice; era ancora creatore ma di un’arte che nasceva giorno per giorno sulla scena, che, per il Pirandello capocomico (e diversamente dal letterato) non traduceva più ma realizzava, direttamente, l’idea creatrice. Il Luigi Pirandello capocomico e teatrante, inoltre, si disperdeva a rincorrere grandiosi progetti produttivi, teatrali e, ancor più, cinematografici, che si rivelavano illusori ed effimeri. Stefano considerava quella rincorsa un’illusione da criticare e richiamava il padre al dovere di comporre il capolavoro letterario conclusivo. Se la vena paterna talora sembrava inaridirsi, a ravvivarla contribuiva il destino di farsi del male dei Pirandello: il dolore ardente che esso originava manteneva vivo, in fin dei conti, il fuoco bianco di quell’arte anche quando sembrava consumarsi in (apparentemente) gelide palestre ginniche di filosofemi tilgheriani, come con Diana e la Tuda.
Oreste, vedendo Ferruccio con «gli occhi da pazzo» di fronte alla giovane Clelia, gli dice: «tu non ti vedi! questo stato d’ebbrezza, papà! quest’illusione di felicità!». [80]

 [80] Stefano Pirandello, Tutto il teatro, II, cit., p. 612.

Oreste, così facendo, mette pirandellianamente Ferruccio dinanzi a uno specchio critico, proprio come Stefano fa con Luigi (pur entro certi limiti) con le sue prime opere. Pur se a fini ‘pedagogici’, dietro una maschera di bontà, Stefano compie, così, nello stesso tempo, una raffinata, inconscia, vendetta della distruzione subita, sin dalla più tenera età, di tutte le necessarie illusioni: quelle relative all’amore materno, in primo luogo, della cui assenza Stefano soffrì come di un’infanzia rubata (come testimonia il dramma in un atto I bambini).
Una forma mascherata di vendetta erano state anche le critiche di Adriano Tilgher, a partire da Diana e la Tuda. Dopo la stroncatura su «L’Italia che scrive» del marzo 1927, [81] Tilgher tornò, anonimamente, ad attaccare Pirandello in maniera ferocemente sarcastica:

A lui ormai sulla soglia della vecchiezza, piovono di colpo a diluvio, a grandinate, onori, ricchezza, fama. Le belle donne mostrano finalmente di accorgersi di lui, lo guardano, gli sorridono, gli si offrono. E nell’anima attristata di lui scende finalmente un raggio di luce. La vita gli par bella, amabile, degna di esser vissuta. Egli vorrebbe cantare la gioia, l’amore, la vita. E no, non lo può. Egli è onorato, celebrato e pagato perché faccia il pessimista, l’uccello di malaugurio, e canti l’orrore e la malinconia di vivere. […] Sazio deve cantare lo strazio del digiuno. Naturalmente lo canta contro genio e lo canta male. […] Ed egli si vede minacciato di tornare a digiunare perché, sazio, non sa più cantare lo strazio del digiuno. [82]

 [81] Tilgher scriveva, tra l’altro, di «un concitato e ansante dialogo tra personaggi allegorici in giacchetta», teso a inscenare la filosofia della Vita e della Forma, concludendone che «acquistare coscienza troppo precisa della filosofia implicita nella propria arte, non è eccessivamente igienico per un artista».

 [82] L’articolo, sulla rivista romana «Humor» del 1º giugno 1927, fu riportato alla luce in Leonardo Sciascia, Pirandello e il pirandellismo, Caltanissetta, Sciascia, 1953. Si può ora leggere in Luigi Pirandello, Maschere nude, III, cit., pp. 585-586.

Depurata dalle punte più sarcastiche e acrimoniose, la diagnosi tilgheriana non era poi molto lontana dal vero e coincideva, in larga parte, con le preoccupazioni di Stefano: erede non solo e non tanto di una ricca ‘ditta’ familiare, ma, sul piano dell’arte, della concezione dei tanti paterni personaggi ‘dimissionari’ e appartati dal mondo: in una chiesa sconsacrata, divenuta biblioteca deserta di lettori, in un ospizio o in una villa di Scalognati.
A quell’isolamento del letterato, non più possibile all’uomo di teatro, voleva ricondurlo il figlio Stefano? Così, certamente, pareva a Luigi, mentre Stefano cercava, più probabilmente, solo di togliergli dalla testa tutte quelle imprese in cui si era imbarcato, per sé e per Marta Abba, soprattutto da quando era andato all’estero: il sogno del cinema, innanzi tutto. Si pensi alla lettera del 24 febbraio 1932, in cui Stefano, in risposta a un grido di angosciata richiesta di aiuto del padre (a Parigi, in depressione e sull’orlo del suicidio), lo invita a ritornare in patria per dedicarsi a un grande libro conclusivo, al progettato romanzo di Adamo ed Eva:

Tu hai bisogno della tua Patria (come la tua Patria ha bisogno di te), hai bisogno dei tuoi figli, come essi di te, e dei tuoi nipoti, come essi di te: e soprattutto della tua arte: l’arte tua di prima, quella a cui davi tutto disinteressatamente, quella che non rende(e che poi t’ha reso milioni), il lavoro fatto solo per la soddisfazione di farlo […]! Pensa a te solo. Pensa cioè a darti tutto. Da’ un calcio a tutte le vanità […]. O tu coroni la tua vita con la vittoria più grande, e lasci il grande libro, che stia contro ildon Chisciotte, contro Guerra e Pace, o tutta Italia, più o meno coscientemente, te ne vorrà […] Tu capisci bene che io non ti chiedo di diventare sedentario materialmente. [83]

 [83] Luigi e Stefano Pirandello, Nel tempo della lontananza, cit., pp. 153-155.

Quel romanzo Pirandello non l’avrebbe lasciato, pur ritornando in Italia e con il figlio. Ma avrebbe ugualmente vissuto, in quegli ultimi anni, una nuova e felice stagione creativa. D’altronde a Marta Abba, poco più di un anno prima, aveva scritto:

Ogni volta che sono arrivato a toccare proprio il fondo dell’abisso, una fortuna improvvisa m’ha sempre rialzato e ritirato a galla, e il mio petto oppresso s’è rigonfiato di vita, e la benedizione dell’estro mi ha illuminato la fronte. Il mio spirito è ancora tanto ricco, e così pronta l’ideazione: mi mancano le forze perché il cuore è bujo e chiuso, dacché nessuna parola Tua più vi spira un po’ di luce e lo riapre. [84]

 [84] Luigi Pirandello, Lettere a Marta Abba, cit., p. 617.

E in quanto alla casa, nel novembre del 1932:

«L’idea di riavere una casa, Ti confesso, Marta mia, mi è intollerabile come una prigione. Potrei aver casa solamente con Te». [85]

 [85] Ivi, p.1059.

       Fosse a causa di questo senso di prigionia, fosse a causa di altro che non sappiamo, la riannodata vicinanza di Luigi e di Stefano, nella casa di via Bosio, si sarebbe dovuta interrompere sul finire del 1936. In una delle ultime lettere alla Abba, del 25 ottobre 1936, dopo averle parlato, tra l’altro, del terzo atto dei Giganti da finire e del ritorno della figlia Lietta, le scrive:

Io ho disdetto l’appartamento per la fine di quest’anno, e conto d’andarmi in un albergo per non stare con nessuno dei miei tre figli. Ma questa non può essere una sistemazione per me. Lo capisco; ma non ne vedo altre. Rimettermi alla mia età con una valigia in mano, è ben duro. Ma che fare? Potessi almeno lavorare! [86]

 [86] Ivi, p.1376.

Pirandello non arrivò alla fine dell’anno e morì, si può dire, con quella valigia nuovamente in mano, in un gesto di rinnovato distacco dal figlio. Sarà anche per questo che Stefano visse la scomparsa improvvisa del padre in maniera ancora più traumatica, perché emotivamente più ambivalente,come da lui stesso testimoniato (nella lettera del 15 gennaio 1942 a Bompiani nella quale scriveva, come abbiamo già visto: «non capivo più che ci fosse da fare nella vita. Poi ho cominciato a grado a grado a sentirmi nascere io»). Una testimonianza in proposito ci viene anche da Paola Masino che conobbe Pirandello – già prima della sua relazione con Bontempelli – e che nell’anniversario della morte lo sognò. Non si trattava di un sogno, scrive la Masino nel racconto che ne fa, ma di un’apparizione che Pirandello le raccomandò di non raccontare a nessuno,dicendole tra l’altro:

Muore chi vuole morire, ma io non volevo, non ho mai voluto morire. Ho ancora tante cose da dire, e voglio dirle io, con il mio nome e cognome. Non credo alle storie delle eredità spirituali. […] Quelli che sfruttano qualche scintilla sfuggita alla mia fucina, cosa vuoi che facciano? Sono epigoni, gente che non ha midollo spinale, non son vivi per se stessi, vivono una vita d’accatto, posticcia, portano abiti smessi da altri. [87]

 [87] Paola Masino, Io, Massimo e gli altri, Milano, Rusconi, 1995, p. 62.

Vediamo il seguito dell’episodio, sempre nelle parole della Masino:

Purtroppo, raccontai quel sogno. A Massimo, subito, poi al figlio di Pirandello, Stefano. Stefano si mise a piangere e mi confessò di non essere mai riuscito, in quel lungo anno, a sognare suo padre se non sotto forma d’incubo. Che ne udiva la voce chiamarlo, ad esempio, e quando lui accorreva udiva ancora la voce del padre urlare: “Va’ via, non voglio vederti”. Oppure qualcuno lo avvertiva di affrettarsi, che Pirandello era tornato a casa, ma Stefano giungeva sempre troppo tardi, appena in tempo per sentir sbattere l’uscio e capire che suo padre se n’era di nuovo andato.

La reazione di Stefano, con la confessione di circostanze biografiche che abbiamo già riscontrato e con il suo clima emotivo incandescente (per la profonda ambivalenza e il senso di colpa, naturali ma alimentati e ravvivati dalle circostanze ultime del rapporto tra i due e della morte improvvisa del padre), costituisce un’ulteriore e preziosa, per quanto indiretta, testimonianza della vita ardente di padre e figlio. È questa testimonianza a interessarci, nel racconto della Masino, al di là del duro giudizioin esso formulato sugli epigoni. [88]

 [88] Giudizio attribuito fondatamente a Pirandello, data la sua costante polemica, nel nome dell’organicità e della sincerità dell’opera letteraria, contro gli imitatori e le mode: dagli scritti critici giovanili (Gli occhiali, Sincerità, Sincerità e arte ad esempio) a vari passi dell’Umorismo e ai continui attacchi contro d’Annunzio e il dannunzianesimo, sino al discorso su Verga.

Un giudizio mirato a qualcuno in particolare? Nel caso, potrebbe indirizzarsi a Bontempelli,al quale per primo ella raccontò il sogno, non meno che a Stefano.Ammettiamone pure il possibile riferimento a Stefano, non per condividerne, qui, l’eventuale intenzione di una stroncatura dell’opera, infondata e ingenerosa, ma per meglio definire quest’opera, conclusivamente, individuandone una fondamentale e specifica caratteristica a partire, peraltro, ancora una volta, dal paradossale legame psicologico che, nella vita e nell’arte, legava Stefano al padre.
Scrivendo a Bompiani nel 1942 (nella lettera del 15 gennaio più volte richiamata) Stefano rivelava quanto la propria «amorosa servitù» avesse comportato la dolorosa, difficile e all’apparenza impossibile, rinuncia a «quelle che gli parevano le ultime difese della sua personalità». Vuoi per un minimo insopprimibile di amor proprio, vuoi per un minimo, ancor più irrinunciabile, di individuazione personale, Stefano tendeva a sminuire la portata di quella rinuncia(che costituiva, in altre parole, una possibile prova dell’assenza di una sua autonoma identità) riconoscendo di aver «conquistato il potere e il modo e il diritto di farlo ora tutta cosa mia, mio Padre: come io sono stato cosa sua»; evidenziando cioè la reciprocità del suo rapporto di fusione con il Padre (con l’immagine interna, inconscia, assoluta e divinizzata della figura paterna). [89]

 [89] La negazione della natura lineare, univoca e non reciproca, del rapporto di paternità e la connessa affermazione della natura fusionale di quel rapporto emerge in una importante ed estesa giunta al secondo atto di Un padre ci vuole già citata nella nota 5 di p. 157.

Si tratta del medesimo atteggiamento ambivalente e della medesima negazione (intesa nel senso della freudiana Verneinung: una negazione che afferma ciò che nega) che abbiamo visto espressi nella figura del servo ladro di Qui s’insegna a rubare e che sono, invece, manifestamente superati quando nel 1955 (sempre in un lettera già citata a Bompiani, a proposito della riscrittura di Un padre ci vuole),dichiarandosi finalmente «capace di reggere il peso di certe affermazioni», Stefano scrive di aver «riscattato quel suo strano peccato contro la bellezza dei suoi sentimenti» grazie al «suo spirito [che] si è maturato». Il figlio era divenuto Padre,creatore, traduttore e prosecutore del padre e maestro e non più suo epigono, imitatore, illustratore: proteso ad annullare se stesso per identificarsi con lui ma, poi, in grado di proseguirlo differenziandosene. Paradossalmente identico e distinto come ogni vero traduttore: «la vera traduzione è metempsicosi», aveva scritto Pirandello. [90]

 [90] In Illustratori, attori e traduttori, citando dai Pensieri e discorsi di Pascoli (cfr. Luigi Pirandello, Saggi e interventi, cit., pp. 648-649).

E lo stesso potrebbe dirsi dei paradossali rapporti tra padri e figli, tra maestri e allievi, tra scrittori e tra scrittori e critici. [91]

 [91] Non entrando, qui, nel dettaglio di un insieme di prospettive psicoanalitiche ed epistemologiche, legate alla bi-logica matteblanchiana, utili a interpretare, a più livelli, questioni connesse alla creatività, all’imitazione, al rapporto tra padri e figli e tra maestri e allievi, mi limito a rinviare a Ignacio Matte Blanco, Creatività ed ortodossia, «Rivista di psicoanalisi», 1975, pp. 223-289.

       Rapporto paradossale, quello tra Stefano e l’ancora vivente Luigi, in cui Taviani ha rintracciato «il fervore d’una mente collettiva», [92] utilizzando una definizione che bene esprime la profonda comunanza sul piano creativo, dell’ideazione, fondamentale nell’opera di Luigi.

 [92] Nelle Notizie sui testi degli Scritti con «Taluno», sezione conclusiva dell’edizione da lui curata di Luigi Pirandello, Saggi e interventi, cit., p. 1598.

Tale definizione, peraltro, rischia di retrocedere da paradosso a mera assurdità critica se finalizzata a non distinguere le diverse e distinguibili mani di Luigi e Stefano in certi scritti apocrifi come il Non parlo di me, dalla prosa fiacca e involuta, e Insomma, la vita è finita, dalla scrittura brillante e dal fulminante e pirandelliano incipit. Il che conferma che, in definitiva, nella critica letteraria, come in qualsiasi genere di relazione con uomini o prodotti della mente umana, si pone la questione ineludibile di tener conto dell’esistenza della bi-modalità bi-logica. Ovverosia, in altre parole, della compresenza di due opposti e antitetici atteggiamenti che le relazioni e distinzioni ammettono ed esaltano, nel giudizio di valore, o che viceversa annullano, quando, nell’irrinunciabile impulso a comprendere mediante l’immedesimazione, mediante l’atteggiamento empatico che porta alla fusione con l’oggetto di conoscenza, sembrano rinunciare o rinunciano al pensare per non rinunciare al sentire. [93]

 [93] Questo secondo atteggiamento era preferito da Pirandello che, in un’intervista del 1931, dichiarava: «La vera critica dovrebbe aiutare a comprendere l’opera d’arte. Amare, non giudicare. Illustrare, vivere. Come l’opera d’arte, il giudizio critico ha da essere una nuova creazione di realtà» (Luigi Pirandello, Saggi e interventi, cit., p. 1391)

Quando, in altri termini, paiono scendere un gradino più giù della critica, per riprendere il titolo della più riuscita commedia di Stefano.

       E nel segno della medesima immagine di quel titolo si può dire che se innegabilmente l’opera di Stefano è almeno un gradino più giùdi quella paterna (nella scala dei valori del giudizio critico), essa è un’opera che raggiunge i suoi risultati migliori proprio quando accetta di scendere il gradino richiamato da quel titolo (nella scala del rapporto tra modalità del pensare e del sentire). E, così facendo, l’opera di Stefano si distingue e vive di vita propria rispetto a quella del padre, poiché quel titolo riprendeva e ribaltava, polemicamente, una locuzione (che fa riferimento alla necessità di salire «un gradino più su») dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore. [94]

 [94] Si tratta di una delle opere pirandelliane più amate da Stefano, come testimoniano le lettere scritte nel corso della sua prigionia. Si veda la lettera di Stefano del 24 marzo 1916, da Mauthausen: «ieri ho ricevuto il Si gira… Come mi sono buttato a leggerlo! Ma non ho potuto durare a lungo: il ricordo della tua voce, Papà, quando, ancora in cartelline, lo leggevi a S. Secondo… Quando ho riletto di quel pover’omo che suona il violino alla tigre mi sono sorti avanti agli occhi i cipressi e i pini di Villa Torlonia, nel riquadro della finestra del tuo studio, attraverso la tenda. […] … Basta».La tigre, la bestia feroce era, fuor di metafora, Antonietta (come confermano alcuni passi delle lettere) con la sua furente e ormai incontenibile follia. Cfr. Andrea Pirandello,Il figlio prigioniero, cit.

        E ribaltava, di conseguenza, una delle componenti più riconoscibili dell’arte del padre: quella consistente in un moto di ascetico distacco della persona dalla realtà, mediante l’intelletto e una scrittura che aveva rischiato di far divenire l’opera pirandelliana, e certamente l’aveva fatta apparire, un’astrazione intellettualistica, priva di sentimenti, di emozioni(data la sua dichiarata funzione di difesa psichica dagli effetti traumatici della realtà e di sterilizzazione delle emozioni). Tale componente (che era divenuta il famigerato «pirandellismo») era in realtà umoristicamente e inscindibilmente legata a quella di un più nascosto moto opposto che continuamente lo rivivificava e riscaldava al sentire del «fuoco bianco» da cui, pur distaccandosi, traeva origine. [95]

 [95] In un passo, poi soppresso, della prima edizione dei Sei personaggi in cerca d’autore, il Padre si faceva portavoce dell’autore e, rispondendo al Direttore – e a un’obiezione che non pochi critici avevano mosso a Pirandello – diceva di ragionare proprio perché soffriva: «creda ch’io “sento”, “sento” quello che penso» (Luigi Pirandello,Maschere nude, II, cit., p. 1029). Pirandello scriveva a Tilgher parole molto simili: «Cerco una cosa sola: esprimere ciò che sento. Sento perché penso. Penso perché sento» (la lettera, non datata, è compresa tra quelle indirizzate al critico tra il 1921 e il 1925). Cfr. Leonardo Sciascia, Pirandello e il pirandellismo, cit., p. 99.

E ben lo sapeva Stefano che con e in quel «fuoco bianco» paterno convisse in una vita resa più ardente dalla scelta di non condividere le difese paterne e di non distaccarsi perciò, asceticamente,dalle ragioni del cuore e dai drammi della realtà, per quanto traumatici, ma di parteciparvi, con ben diverso spirito religioso. In ciò consiste, appunto, come dicevamo, l’intento di non salire ma scendere il gradino nella scala che dal fondo degli abissi del sentire dell’umanità dolente ascende alle vette della distanziata visione critica intellettuale e artistica (quella della pirandelliana «filosofia del lontano» trapassata poi nella poetica dei personaggi). Gradino di una scala che separa l’io dello scrittore dagli altri come Serafino Gubbio dice all’infelice Fabrizio Cavalena nel seguente passo che costituisce la già richiamata fonte implicita del titolo della commedia di Stefano:

Un gradino più su, signor Fabrizio; salga un gradino più su di codeste considerazioni astratte, di cui ha voluto darmi un saggio in principio. Creda che, se vuole confortarsi, è l’unica. […]
– Evadere, signor Fabrizio, evadere; sfuggire al dramma! […] E-va-po-rar-si in dilatazioni, diciamo così, liriche, sopra le necessità brutali della vita, a contrattempo e fuori di luogo e senza logica; su,un gradino più su di ogni realtà che accenni a precisarcisi piccola e cruda davanti agli occhi. […] Appena un dramma le si delinea davanti, appena le cose accennano di prendere un po’ di consistenza e stanno per balzarle davanti solide, concrete, minacciose, cavi fuori da lei il pazzo, il poeta crucciato, armato di una pompettina aspirante; si metta a pompare dalla prosa di quella realtà meschina, volgare, un po’ d’amara poesia, ed ecco fatto!
– Ma il cuore? – mi domanda Cavalena.
– Che cuore?
– Perdio, il cuore! Non bisognerebbe averne!
– Ma che cuore, signor Fabrizio! Niente. Sciocchezze. [96]

  [96] Luigi Pirandello, Tutti i romanzi ,II ,a cura di Giovanni Macchia e Mario Costanzo, Milano, Mondadori, 1973, pp. 720-21.

Il rimedio prospettato non preserva Serafino Gubbio, nella conclusione del romanzo, dalla realtà traumatica che gli balza avanti, come la tigre, solida, concreta, minacciosa, ineludibile. La realtà della guerra dentro casa e nel mondo, [97] dei traumi familiari e collettivi di Luigi, vissuti anche da Stefano che però, nel corso del successivo traumatico conflitto mondiale, scrive, in Un gradino più giù, di un opposto rimedio che ne testimonia e spiega la fondamentale diversità dell’identità personale e artistica rispetto a quella paterna:

VALERIO […] Però tu, bada … tu non sei una buona moglie: lui è nelle tue mani, e tu … non sei onesta con lui. […] E mio figlio … è giù – dicono – più in basso degli altri: così è giudicato dagli … altri … e anche tu…sua moglie, non sai fare a meno di giudicarlo, insieme con gli altri … e ci vorresti anche me! […] E il figlio mio non è vivo, lui, com’è, lui: non è vivo nel cuore di nessuno. […]
GIANNA […] Non posso mica distruggermi come creatura pensante, se Dio m’ha dato … m’ha dato…
VALERIO […] Che cosa t’ha dato? Una mente? […]
GIANNA […] Ma dovrei esser la moglie, io, la «moglie» di Alberico: di lui così, e io come lui, ma per di più «moglie»! Riesca o non riesca a sentirmici: ma starci, dovrei starci. Un gradino più giù, perché lui comunque è l’uomo! E lei resta il padre! Sempre invece più alto! [98]

 [97] Cfr., in proposito, Andrea Pirandello, Il figlio prigioniero, cit.. Mi permetto di rinviare, inoltre, al mio «Un’altra vita?» Pirandello, la guerra e l’arte, in Pirandello e la politica, a cura di Enzo Lauretta, Milano, Mursia, 1992, pp. 109-160.

 [98] Stefano Pirandello, Un gradino più giù, in Idem, Tutto il teatro, III, cit., pp. 1089-1090.

Quel gradino più giù, Gianna lo scenderà, rinunciando alla «schifosa intelligenza», come successivamentela definirà Valerio,giudicandola un elemento «superfluo». La rinuncia pesa inizialmente a Gianna, che sente di eliminare le ultime difese della propria personalità, ma le apre le porte di una più piena esistenza, come a tanti dimissionari pirandelliani. E come al suo autore, che aveva legato la propria vita e la propria opera all’affermazione di una «bontà» coincidente con la rinuncia, perché legata all’oblatività dell’amore, come anche nell’invito rivolto al padre a darsi tutto(nella citata lettera del febbraio 1932). In questa sua natura si manifestava il senso della sua drammaturgia più matura (in alcune opere rimaste solo ai margini del nostro discorso, come Un gradino più giù) e forse anche della sua vita, se quel senso era effettivamente colto da coloro che lo frequentavano, come Siro Angeli: «C’era nel suo sguardo uno slancio che anticipava l’abbraccio, una bontà che chiedeva di prodigarsi. E a me sembrava che si fosse creato un tacito accordo tra la luce dei suoi occhi e la luce calda e accogliente della sua casa». [99]

 [99] I ricordi personali di Siro Angeli, Un’amicizia durata trentacinque anni, fanno parte di una sezione monografica, dedicata a Stefano Pirandello, della rivista «Hystrio», 1, gennaio, 1991.

       Era nell’alveo della casa, della famiglia, tema centrale della sua opera e della sua vita,[100] che scorreva il fiume di Stefano che continuava quello del padre: nel solco del pirandellismo, inizialmente, e con la sua autonoma, individuale e specifica differenza, poi, nel segno appunto di una pietas, di un riconoscimento e di un’amorosa dedizione agli altri. [101]

 [100] Intervistato ancora qualche anno dopo, nel 1961, a chi gli chiedeva di motivare la «tematica familiare sempre ricorrente» del suo teatro, rispondeva: «Dipenderà, credo, dall’enorme e determinante peso che hanno avuto su di me fin dall’infanzia le due entità Padre e Madre. Essi hanno assunto talora aspetti tragici, in conflitto com’erano e chiuse ognuna in una sua sfera di integrale giustificazione: il che scindeva il mio animo». Nella quiete domestica della villa di Grottaferrata, «tra un branco di nuore e nipotini», lo aveva descritto, incontrandolo nel 1954, Paola Masino, dapprima manifestando una «grande malinconia» ma, poi, interrogandosi dubitativamente: «Forse la felicità è nel rinunciare a tante cose».

 [101] Stefano Pirandello nella sua opera è «affascinato e tormentato dalla contraddizione tra libertà individuale e necessità collettiva, legge della polis»; il suo personaggio non è più solo ma «sempre collegato all’intrico degli altri» (Ruggero Jacobbi, In ricordo di Stefano Landi drammaturgo malgrado l’ombra del padre, «Il Dramma», aprile 1972, p. 23).

       Era la stessa bontà già affiorata in Stefano, della bontà, l’apocrifo che abbiamo già citato, là dove si manifestava il gioco degli sguardi tra padre e figlio:

Mio figlio mi teneva con gli occhi.

Conosco il sorriso di quei suoi occhi intensi: che mi consigliano per lo più d’accorgermi di me stesso, richiamandomi con un affetto quasi materno. Allora mi persuadevano alla sopportazione e alla prudenza […]. «Perché temi?» gli rispondo con un altro sguardo. «Sono qua, compiacente. Non ti sembro buono abbastanza?»

[…] Forse gli piace che fra noi viva questo sottinteso, che di noi due, chi ha cura dell’altro sia lui. Anche lui è nato per dare. Poi, naturalmente, quando il bisogno del mio aiuto gli si fa sentire imperioso, è costretto a manifestarmelo lui stesso […]. E, ricevuto l’aiuto, vedo che resta poi per qualche tempo in un curioso stato d’umiliazione come se non avesse più diritto a darmi prove della sua devozione.

Non ti sembro buono abbastanza?

[…] Spirito religioso! Penso che s’approfitta di quel meglio di me che io gli ho trasfuso, per essere così. Ma anche lui lo sa. [102]

 [102] Luigi Pirandello, Saggi e interventi, cit., p. 1507.

Nel gioco di specchi di quegli sguardi era difficile distinguere chi più avesse bisogno di aiuto e anche qui, dunque, il problema dell’identità nel rapporto padre-figlio si manifesta con una certa, sia pur lieve e nascosta ironia – come in Un padre ci vuole– e con una paradossalità qui indistinguibile, se non al momento di scoprire che lo scritto è apocrifo, di mano di Stefano. «Stringiti al figlio, stringiti al padre, / padre e figlio resti. / E il mondo è un giro / che ripassa, dentro», aveva scritto Stefano in una delle sue poesie più belle, intense ed ispirate. [103]

 [103] Stefano Pirandello, Giro, in Idem, Le forme, cit., pp. 21-23.

       Un gioco d’identità, dentro un altro gioco d’identità, quello degli apocrifi. Gioco speculare a quello del Quando si è qualcuno, dell’anziano e celeberrimo scrittore, trasparente alter egopirandelliano, che rivivificava la propria opera nascondendo la propria identità dietro quella di un presunto giovane poeta. I versi erano di Stefano, tratti dalla stessa lirica su citata:

Un giro di pensieri chiari e buj
che non si rompe mai.
Non si può mai finire
d’avere il giro delle cose in noi.
Morire non si può.
E nascere neppure. In verità
come da sempre nati, come per sempre vivi, siamo qua.

Pietro Milone

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