04.03. Ritorno

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Ritorno (2)

04.03. Ritorno

Nella Tavola rotonda, Napoli, anno V, N. 28, 14 luglio 1896, col sottotitolo Il patto, e con la nota «Dal Labirinto, Lib. V, La rete», e in Nuova Antologia, 1° marzo 1907.

1.

– Chiasso! Chiasso!

E il lungo tràino

s’arrestò, fischiando. Scesi.
E ad un tal, che a un ciò! per veneto
riconobbi a volo, chiesi

se tuttor fosse il pontefice
prigioniero a Roma, se
una ancor fosse la patria,
se republica o col re.

Quel signor, stordito, in dubbio
lì per lì che grandi cose
io sapessi, ond’ei notizia
non aveva, mi rispose,

costernato, con viva ansia:
«Coss’è stà? Mi no so gnente!…»
Tanto è vero che in Italia
(io pensai tra me, dolente)

da un istante all’altro, possono
avvenire, per lo meno,
novità di questo genere.
E salii di nuovo in treno.

 

2.

Che baglior d’azzurro! L’aria
ne grillava. Ansia gentile,
gaudio, incanto! Ecco l’Italia,
a cui nuovo or or l’Aprile,

sarto estroso e gajo, un abito
allestito avea di mezza
stagion, florido, mutevole
di color sotto la brezza.

Ma non era poi, di fabbrica
e di taglio, parigino
quel bell’abito? Le acacie
della siepe, in un inchino,

mentre via lungo il binario
s’involavano d’allato,
mi gridavan: – «Non curartene!
Ben tornato! ben tornato!»

Sí, ma i fili telegrafici
che salian pian piano, uguali,
poi d’un tratto s’abbassavano
come all’urto dei lor pali,

io pensavo, che notizie
dell’Italia a gli altri Stati
recheranno? Di miseria
nuovi pianti e nuovi piati?

 

3.

«Bitte, schliessen Sie» – con rauca
voce una tedesca ebrea
(che lasciava lo spettacolo
per veder che ne dicea

la sua Guida) – «Prego, chiudere»
m’ordinò. Donna o giraffa?
Naso a scarpa, fulvo ed ispido
crine, occhiali azzurri, a staffa.

Ah, perdio! Con Frau Germania
viaggiavo in treno! Ancora,
auff, lí dentro, kraut e nebbia!
– Vada via, cara signora,

vada via! Lei mi perseguita
fin qua giú? da me che vuole?
Io, sa lei? sono dell’isola
dei briganti: serpi e sole,

sole e serpi assai. Se in lagrime
le ho lasciata una figliuola,
mi perdoni. È vero, povera
Jenny, sola sola sola

l’ho lasciata col filosofo
Mob, il vecchio mio buon cane,
che – son certo – fedelissimo
le sarà, se n’avrà pane. –

 

4.
Sorda lì, nel cenno storico
della Guida intorno a Como,
Frau Germania pascolavasi,
la vignetta del bel Duomo

foto–incisa in una pagina
non degnando d’uno sguardo.
Pensier’ gravidi il suo leggere
qua e là rendean piú tardo.

– Sí, signora. Dieci o undici
anni in guerra, ed alla fine
di Milan gli eroi ridussero
Como un mucchio di rovine.

E i Comaschi allor chiamarono
quel suo Kaiser dalla barba
rossa, il quale poi… La storia
di quel Kaiser non le garba?

Chiuda il libro, via! Non lottano
piú tra loro, oggi, le belle
città nostre. Grandi e piccole,
si decantano sorelle.

Ed io già sul volto l’alito
della lor concordia sento.
Tutte quante, ora, un centesimo
hanno d’anima, ché cento

le città sono, ed è l’anima
una sola, ed è comune,
comunissima. Lo affermano
panche, cattedre e tribune.

Alza al ciel del comun genio
nostro a gara ogni paese
le profane e sacre glorie:
templi antichi, nuove chiese.

Che peccato che Dio, dicono,
non esista… Poco importa!
Restan l’opere mirabili:
arte viva, fede morta.

Forse, ahimè, la vera patria
nostra è lí soltanto! Io dico
nelle cose morte. L’anima
nostra, forse, d’un antico

libro dorme tra le pagine
e si desta un po’, sol quando
questo libro apriam per leggervi
ciò che fummo, o ricordando.

Ed allor, veda, coi clipei
de’ musei, con l’aste in pugno,
elmi e brandi, e in testa le aquile
dell’antica Roma, il grugno

sappiam rompere, se càpita,
a chi barbaro è per noi
tuttavia, come se Arminio
fosse o Brenno; escon gli eroi

dalle tombe, e già l’Italia
tien di Scipio l’elmo in testa…
Non appena, poi, quest’epico
estro sbolle, e la tempesta

passa, insiem coi clipei l’anima
rimettiamo ne’ musei;
ed a Roma ecco una cattedra
pronta, allora, perché Lei

qualche irsuto suo discepolo
ci spedisca, o dotta amica,
a insegnare a noi la storia
(senza i re) di Roma antica.


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