156. Il guardaroba dell’eloquenza – Novella

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Prime pubblicazioni: Rassegna contemporanea, col titolo Il commesso pensatore, febbraio 1908, poi in La giara, Bemporad, Firenze 1928.
«Avete un pensieruzzo tisico? E tisico sempre vi resterà, se non avete la guardaroba dell’eloquenza. Ma se avete la guardaroba dell’eloquenza, il pensieruzzo tisico vi uscirà dalla bocca imbottito di tanta stoppa di frasi, che, parrà un gigante, un Ercole parrà, con la clava e la pelle del legone.»

Novella dalla Raccolta “La giara” (1928)

««« Introduzione alle novelle

Il guardaroba dell'eloquenza
Giambattista Tiepolo (1696-1770), Il Trionfo dell’eloquenza, 1724-1725. Affresco su soffitto, Palazzo Sandi, Venezia

Il guardaroba dell’eloquenza – Audio lettura 1 – Legge Lisa Caputo
Il guardaroba dell’eloquenza – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
Il guardaroba dell’eloquenza – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza
Il guardaroba dell’eloquenza – Audio lettura 4 – Legge Valter Zanardi

13. Il guardaroba dell’eloquenza – 1908

             Ascoltando per via o nelle case dei conoscenti o nei pubblici ritrovi le chiacchiere della gente sugli avvenimenti del giorno, Bonaventura Camposoldani aveva intuito che sopra i comuni bisogni materiali e i casi quotidiani della vita e le ordinarie occupazioni, gravita una certa atmosfera ideale, fatta di concetti più o meno grossolani, di riflessioni più o meno ovvie, di considerazioni generiche, di motti e proverbi e via dicendo, a cui nei momenti d’ozio tutti coloro che sogliono stare l’intero giorno sotto il peso delle loro meschine esistenze cercano di sollevarsi per prendere una boccata d’aria. Naturalmente, in questa atmosfera ideale sono come tanti pesci fuor d’acqua; si smarriscono facilmente, abbagliati dallo sprazzo di qualche pensiero improvviso. Bisognava saper cogliere questo momento per prenderli all’amo.

             Bonaventura Camposoldani s’era addestrato meravigliosamente.

             Avere un’idea «unificatrice»; proporla a una dozzina d’amici di qualche autorità e di molte aderenze; indire una prima riunione per lo svolgimento dell’idea e la dimostrazione dei vantaggi da cavarne, delle benemerenze da acquistarne; poi nominare una commissione per compilare uno statuto: tutto era qui.

             Nominata la commissione, compilato lo statuto, indetta una nuova riunione per discuterne e approvarne gli articoli; per la nomina delle cariche sociali; eletto ad unanimità presidente Bonaventura Camposoldani che ne aveva avuto l’idea e aveva trovato la sede provvisoria senza darsi un momento di requie; il circolo nasceva e cominciava subito a morire per tutti i socii che non se ne curavano più; seguitava a vivere soltanto per Bonaventura Camposoldani che – presidente, consigliere, amministratore, cassiere, segretario – al primo d’ogni mese mandava l’esattore a svegliare con garbo, per un momentino solo, gli addormentati, il cui sonno, leggero nel primo mese, diveniva a mano a mano più grave e infine letargo profondo.

             L’esattore di tutti i circoli fondati da Bonaventura Camposoldani era sempre lo stesso: un vecchietto che si chiamava Bencivenni. Squallido piccolo gracile tremulo, spirava dai chiari occhietti cilestri, perennemente pieni di lagrime, una serafica ingenuità.

             Camposoldani lo aveva da un pezzo soprannominalo Geremia, e tutti credevano che si chiamasse davvero Geremia di nome e Bencivenni di cognome.

             Lo proteggeva Camposoldani perché veramente il povero vecchio meritava d’essere protetto: reduce dalle patrie battaglie, superstite di Villa Glori e – per modestia – morto di fame.

             A voltare la pagina, un po’ sciocco era anche stato, per dire la verità. S’era presa in moglie la vedova d’un suo fratello d’armi morto a Digione; s’era tirati su quattro figliuoli non suoi; la moglie dopo cinque anni gli era morta; i tre figliastri, appena cresciuti, lo avevano abbandonato; ed era rimasto solo, così vecchio, nella miseria, con la figliastra femmina, amata come una figlia vera. Se piangeva sempre, dunque, Geremia ne aveva ragione.

             Ma non piangeva nient’affatto Geremia. Pareva che piangesse; non piangeva. Linfatico di natura, andava facilmente soggetto ai raffreddori. E non solo gli occhi gli sgocciolavano, ma il naso, quel povero naso gracile e pallidissimo, affilato, stirato a furia di soffiarselo per impedire ogni volta un’ira di Dio, certe scariche interminabili di starnuti comicissimi, piccoli, rapidi, secchi, durante le quali pareva che, terribilmente stizzito contro se stesso, volesse col naso beccarsi il petto.

             – Mea culpa… mea culpa… meo culpa…  – diceva Camposoldani, imitando a ogni starnuto le scrollatine del vecchio.

             Il quale, andando in giro tutto il giorno, arrivava sempre stanco morto nelle case dei socii. Perduto in vecchi abiti sempre fuor di stagione, avuti in elemosina o comperati di combinazione, coi poveri piedi imbarcati in certe scarpacce legate con lo spago, entrava parlando sottovoce, quasi tra sé, con una larva di sorriso su le labbra, sorriso ragionevole e pur mesto. Certe mossettine di capo aveva poi, aggraziate, e un muover di palpebre pieno di filosofica indulgenza su quegli occhietti chiari, ingenui e acquosi, che tutti a guardarlo non sapevano che pensarne.

             Pareva seguitasse un discorso per cui gli avessero dato corda la mattina, uscendo di casa: un discorso ch’egli forse non interrompeva neanche per via, né salendo o scendendo le scale. Infatti, nelle case dei socii entrava parlando, e parlando ne usciva, senza smettere un momento, neppure mentre con la mano tremicchiante raspava sul registro la ricevuta della tassa mensile.

             Ma nessuno riusciva a capire che cosa dicesse.

            Tutti supponevano che il povero vecchio si lamentasse del troppo camminare, del salire e scendere troppe scale, alla sua età, così mal ridotto. Se non che, in mezzo a quel biascichio fitto, tra un sorrisetto e l’altro mesto e ragionevole, ecco che si coglieva ora il nome di un ministro o di questo o quel deputato al Parlamento, ora il titolo d’un giornale. E tutti allora restavano stupiti e frastornati a mirarlo, non comprendendo come c’entrassero quei nomi e quei titoli di giornali nelle sue lamentele.

             C’entravano, invece, benissimo. Perché Geremia Bencivenni non si lamentava affatto, ma intendeva di conversare, così sottovoce e quasi tra sé; forse credeva ne avesse l’obbligo, avvicinando tanta gente perbene; e parlava di politica, delle belle leggi che si votano in Parlamento, o commentava un fatto di cronaca, o dava notizia del socio A da cui era stato poc’anzi, o del socio B dal quale si sarebbe or ora recato.

             Se qualcuno gli diceva che non intendeva più pagare perché non voleva più far parte del circolo, Geremia non se ne dava per inteso: staccava, come se niente fosse, la ricevuta debitamente firmata e la lasciava lì sul tavolino; quasi che questo solo fosse il suo compito e non dovesse curarsi d’altro, almeno fin tanto che c’era qualche socio, il quale, o per levarselo davanti o per pietà o per dabbenaggine, seguitava a pagare.

             Quando poi Geremia, più cadente che mai, veniva ad annunziare che proprio non c’era più nessuno che volesse pagare e, in prova, tirava fuori rovesciate tutte le tasche della giacca, del panciotto, dei calzoni e mostrava anche la fodera del cappelluccio bisunto; Bonaventura Camposoldani restava per un momento perplesso, se disperdere con un soffio quella larva di circolo di cui Geremia gli rappresentava l’immagine, o se risuscitarla con un lampo geniale.

             Nel primo caso, avrebbe dovuto rimettersi alla fatica di fondarne subito un altro. Gli seccava. E poi, meglio non abusare. Dunque, un lampo… un lampo… Che lampo?

             Contava segnatamente su due cose, Camposoldani. Cioè, su quella che egli chiamava «elasticità morale» del popolo italiano e su la pigrizia mentale di esso.

             Martino Lutero avrebbe voluto pagare centomila fiorini perché gli fosse risparmiata la vista di Roma?

             Martino Lutero era uno sciocco.

             Ecco qua: temperamenti per temperature. Bisognava considerare prima di tutto la temperatura.

             In Germania fa freddo.

             Ora, naturalmente, il freddo, come congela l’acqua, così irrigidisce gli spiriti. Formule precise. Precetti e norme assolute. Non c’è elasticità.

             In Italia fa caldo.

             Il sole, se da un canto addormenta gl’ingegni e intorpidisce le energie, dall’altro mantiene elastiche, accese, in continua fusione le anime. Tirate, le anime cedono, s’allungano come una pasta molle, si lasciano aggirare intorno a un gomitolo qualsiasi, purché si faccia con garbo, s’intende, e pian pianino. Tolleranza. Che vuol dire tolleranza? Ma appunto questo: pigrizia mentale, elasticità morale. Vivere e lasciar vivere.

             Il popolo italiano non vuol darsi la pena di pensare: commette a pochi l’incarico di pensare per lui.

             Ora questi pochi, siamo giusti, anche per poter pensare così in grande, per tutti, senza stancarsi, bisogna che siano ben nutriti. Mens sana in corpore sano. E il popolo italiano li lascia mangiare, purché facciano sempre con garbo, s’intende, e salvino in certo qual modo le apparenze. Poi batte le mani, senza troppo scaldarsi, ogni qual volta i suoi commessi pensatori riescano per avventura a procurargli qualche soddisfazioncella.

             Ecco qua: qualche soddisfazioncella doveva egli procurare ai socii del circolo moribondo per destarli dalla loro morosità.

             E Bonaventura Camposoldani ci riusciva quasi sempre.

             Quest’ultimo non era propriamente un circolo, ma un’associazione nazionale con un intento eminentemente patriottico e civile.

             Si proponeva di raccogliere in esercito operoso, in ogni provincia e comune d’Italia, tutti coloro cui stesse a cuore sanare finalmente la piaga vergognosa dell’analfabetismo e diffondere per via di letture e conferenze il gusto della cultura nel popolo italiano.

             Nel fondo dell’anima Bonaventura Camposoldani stimava pregio inestimabile del popolo italiano la costante avversione a ogni genere di cultura e d’educazione, come quelle che, appena conquistate, rendono necessarie tante cose di cui, per esser saggi veramente, si dovrebbe fare a meno. Ma non osava più dirselo neanche in tacito sinu, ora che ben settantacinque sezioni contro l’analfabetismo s’erano formate in meno d’un anno, delle quali quarantadue (sintomo consolantissimo di salutare risveglio!) nelle provincie meridionali.

            La nuova Associazione nazionale per la cultura del popolo contava ormai più di mille e seicento soci. Sede centrale, Roma. E il Governo saggiamente aveva concesso, per costituirle un fondo di riserva necessario, una tombola telegrafica, che aveva fruttato la bellezza di quarantacinque mila lire, poco più, poco meno.

             Le aveva inaugurate quasi tutte lui, quelle settantacinque sezioni, improvvisando un discorso di un’ora per ciascuna, sui beneficii dell’alfabeto e i vantaggi della cultura. Solo quattro o cinque, per non parer troppo invadente, le aveva lasciate inaugurare a un tal Pascotti, professore di storia in un liceo di Roma, vicepresidente della sede centrale, bell’uomo, tutto quanto rotondo, anche nella voce: rotondo e pastoso. Pover’uomo, bisognava compatirlo; aveva la debolezza di credersi sul serio un forte oratore: aveva veramente una grande facilità di parola, e parlava dipinto, con frasi fiorite, a periodi numerosi; s’impostava che neanche Demostene o Cicerone, e giù per ore e ore, senza mai concludere nulla, abbandonato beatamente all’onda sonora che gli fluiva dalle labbra. Come se fosse una pasta molle, con le mani grassocce levate davanti alla bocca, pareva palpeggiasse quella sua eloquenza e la arrotondasse e la appallottolasse, atteggiati gli occhi di voluttà. Per un momento, tutti stavano a sentirlo con piacere; ma poi, le fronti che s’erano aggrottate nell’attenzione, cominciavano a tirar su a poco a poco le sopracciglia; gli occhi si ingrandivano, si spalancavano intorno smarriti, come per cercare una via di scampo.

             Indignato dell’esito di quei suoi cinque discorsi inaugurali, Pascotti s’era dimesso da vicepresidente e non s’era fatto più vivo. Ottenuta la tombola, sbollito il primo fervore, la sede centrale di Roma s’era profondamente addormentata. Lavoravano ancora con alacrità un po’ inquietante le sezioni, segnatamente due o tre, ma per fortuna molto lontane, in Calabria e in Sicilia.

             Che risate si faceva Bonaventura Camposoldani nel leggere le relazioni in istile eroico dei presidenti di quelle sezioni, poveri maestri elementari! Certuni mandavano finanche allegri trattatelli di pedagogia interi interi. Ma che fatica anche, doverli abbassar di tono, riassumere, e qua raddrizzare un periodo, e là pescare il senso miseramente naufragato in un mare di frasi accavallate e spumanti! Doveva pure mandarle a stampa, quelle relazioni, nel Bollettino dell’Associazione, che aveva stimato opportuno pubblicare almeno una volta al mese, perché le quarantacinquemila lire della tombola dessero qualche segno di vita.

             E questa volta aveva dovuto anche dar sede stabile all’Associazione. Aveva preso in affitto un quartierino al primo piano d’una vecchia casa in via delle Marmorelle, due stanzette e una bella sala per le sedute, caso mai i soci di Roma per qualche miracolo si fossero sognati di tenerne qualcuna.

             Una tavola coperta da un panno verde per la Presidenza e il Consiglio, penne e calamai, una cinquantina di seggiole, tre tende alle finestre, cinque ritratti oleografici dei tre re e delle due regine alle pareti, un mezzobusto di gesso abbronzato, indispensabile, di Dante Alighieri su una colonnina pure di gesso dietro la tavola della Presidenza, un vassojo con due bottiglie da acqua e quattro bicchieri, una cassetta da sputare… che altro? ah, la bandiera dell’Associazione: tutto questo, nella sala delle sedute.

             In una delle due stanzette s’era allogato lui, Camposoldani: non per dormirci, no: per lavorare dalla mattina alla sera, poiché i consiglieri eletti e il segretario, al solito, lo lasciavano solo e doveva far tutto da sé; tanto che, a un certo punto, aveva stimato inutile tenere ancora in affitto la camera mobigliata in via Ovidio, in fondo ai Prati, e la notte, stanco del lavoro di tutta la giornata, si buttava a dormire vestito, lì su l’ottomana, per poche ore.

             Nell’altra stanzetta c’era allogato Geremia con la figliuola. Povero Geremia! Aveva finalmente una retribuzione fissa, sul fondo della tombola telegrafica, e casa franca. Poteva ormai dire che l’Italia, per cui aveva sofferto e combattuto, s’era alla fine costituita e rassettata. In premio delle eroiche fatiche della sua gioventù, in compenso dei molti stenti patiti fino alla vecchiaja, alloggiava nella sede d’una Associazione nazionale, e Tudina, la figliastra, poteva alla fine stendere ad asciugare su le cinquanta sedie della sala tutti i suoi straccetti, talvolta anche sul mezzobusto di Dante Alighieri; per ignoranza, badiamo, povera Tudina, non per mancanza di rispetto al padre della lingua italiana.

             Dante Alighieri, per Tudina, era tutto in quel naso sdegnosamente arricciato. Lo chiamava: Quell’uomo che sente puzza.

             E non capiva, Tudina, perché Camposoldani lo tenesse lì, in capo alla sala, dietro la tavola della Presidenza. Stendendo il bucato su le sedie non poteva soffrire quella faccia di gesso che la guardava dalla colonnina con quel cipiglio sdegnoso, e correva subito a nasconderla con uno straccetto.

             Non era brutta Tudina, ma neanche bella. Belli, veramente belli, aveva gli occhi soltanto, e anche i capelli: neri profondi e brillanti, gli occhi; neri e riccioluti, i capelli.

             Aveva già ventiquattro anni, ma pareva ne avesse quindici, non più. Nelle carni, nell’aria della testa, in quegli occhi brillanti, in quei capelli riccioluti, sempre arruffati, era rimasta ragazza, una ragazza mezzo selvaggia, irriducibile a ogni principio d’esperienza e di cultura.

             Era stata a scuola, da bambina; in parecchie scuole: da tutte era stata cacciata via. Una volta s’era messa sotto i piedi una compagna, e per miracolo non le aveva strappato gli occhi; un’altra volta s’era ribellata con atti non meno violenti di insubordinazione alla maestra. Nessuno aveva voluto tener conto della ragione di quegli atti violenti. Ma s’era messa quella compagna sotto i piedi vedendosi derisa per aver detto che aveva paura dei cani perché una gatta, da bambina, l’aveva sgraffiata. Quella compagna non sapeva ch’ella teneva amorosamente in braccio quella gatta, la quale aveva fatto da poco certi gattini bellini bellini, e che un cane s’era accostato minaccioso, abbajando, e che la gatta allora s’era arruffata e, non potendo sgraffiare il cane, aveva sgraffiato lei: donde, logicamente, la sua paura dei cani. Quella maestra poi, aveva voluto nientemeno costringerla a intingere nel calamajo il pennino, un bel pennino tutto pulito e lucente che figurava una mano con l’indice teso, un amore di pennino che a lei, per altro, pareva quasi un’arma, di cui, mandandola a scuola, la avessero munita e che ella dovesse custodire gelosamente e conservare intatta.

             Più volte, il patrigno, tornando a casa stanco, la sera, s’era provato prima di cena o dopo cena a insegnarle con molta pazienza un po’ di alfabeto sul sillabario.

             Il fatto che b e a fa ba, enunziato dal patrigno con quella vocina di zanzara e quel sorrisetto mesto e ragionevole che gli era abituale, non le era sembrato né serio né verosimile. Era rimasta a mirarlo negli occhi a bocca aperta.

             Spesso, anche adesso, rimaneva a lungo a mirarlo così, per una ragione, che più speciosa non si sarebbe potuta immaginare.

             Non era mica certa, Tudina, che quel suo patrigno fosse vero, un uomo vero, di carne e ossa come tutti gli altri, e non piuttosto una larva d’uomo, un’ombra che un soffio poteva portar via. Lo vedeva parlare, sorridere; ma che dicesse, perché o di che sorridesse, non capiva neanche lei. Non capiva perché talvolta gli brillassero gli occhi chiari dietro il velo perenne delle lagrime. E non sapeva credere che le dita tremicchianti di quelle manine esangui avessero tatto, da sentir le cose che toccavano, o ch’egli avvertisse il gusto dei cibi che mangiava, o che in quella testa candida si potessero volgere pensieri. Le pareva quasi aereo, quel patrigno; un uomo che per sé, di suo, non avesse nulla, a cui tutto venisse di combinazione, non perché lui facesse qualche cosa per averlo, ma perché gli altri glielo davano, quasi per ridere, per il gusto di vedere come stava così parato e messo su, con quella camicia, con quel cappello, con quelle scarpe, con quei calzoni, con quel pastrano: tutto, sempre, troppo largo, tanto largo che vi sembrava dentro perduto.

             Quegli abiti, quel cappello, quelle scarpe conservavano tutti qualche cosa della loro provenienza; Tudina li riconosceva per quelli di Tizio o di Cajo; ma chi era, che consistenza aveva colui che li portava?

             Mai una camicia di suo; mai un pajo di scarpe fatte per i suoi piedi; mai un cappello che gli calzasse giusto in capo!

             La miseria, l’incertezza d’ogni stato, quel vederlo andare sempre vagando quasi per aria, smarrito, dietro a faccende vane, con quel ronzio di parole senza senso su le labbra tra i risolini e le lagrime, le davano quell’idea dell’irrealità di lui, non solo, ma anche di se stessa e di tutto. Dove, in che poteva toccarla, la realtà, lei, in quella perpetua precarietà d’esistenza, se attorno e dentro di lei tutto era instabile e incerto, se non aveva niente né nessuno a cui appoggiarsi?

             E Tudina balzava talvolta d’improvviso a stracciare, a rompere, a fracassare, un fascio di carte, un vaso, un qualunque oggetto, che stranamente a poco a poco le s’avvistasse davanti agli occhi; così, apparentemente per un impeto selvaggio, ma in realtà per un bisogno istintivo, incosciente, di togliersi dinanzi e distruggere certe cose di cui non riusciva a cogliere il senso e il valore, o di sperimentare la sua presenza, la sua forza contro di esse, per il dispetto ch’esse le facevano nel vedersele star lì davanti, ecco, come se lei non ci fosse, come se lei, volendo, non le potesse stracciare, rompere, fracassare. Quel vaso lì… ma sì che lei poteva da lì metterlo qui, e da qui lì, e anche sbatterlo forte, così, sul davanzale della finestra, e fracassarlo… ecco fatto… Perché? Ma per niente… così… perché le faceva dispetto! Invece per certi altri oggetti tenui, labili, minuscoli, di nessun valore, un pezzetto di carta velina colorata, un chicco di vetro, un bottone di camicia di finta madreperla, aveva protezione, cura, delicatezza infinita: li lisciava con un dito e se li metteva fra le labbra. E certi giorni non finiva mai di carezzarsi con le dita i folti riccioli neri, asserpolati sul capo, allungandoli pian piano e poi lasciandoli riasserpolare, non per civetteria, ma per il piacere che le dava quella carezza; cert’altri giorni al contrario se li stracciava col pettine rabbiosamente.

             Bonaventura Camposoldani non aveva mai badato a quella figliastra di Geremia.

             Le donne non entravano, se non per poco e di passata, nella sua vita. Tutt’al più, la donna, ecco, così in astratto, la donna come questione sociale, il problema giuridico della donna, sì, un giorno o l’altro avrebbe potuto interessarlo. Era un problema, una questione sociale come un’altra, da studiare, a cui attendere; e poteva entrare nel campo della sua attività: non da risolvere, Dio guardi!

             Se tutti i problemi sociali, come a mano a mano sorgono dalla vita e s’impongono all’attenzione e allo studio dei commessi pensatori, si risolvessero in quattro e quattr’otto, addio professione!

             E vero, sì, che la vita è prolifica di problemi sociali e se qualcuno per miracolo se ne risolve, ne sorgono subito altri due o tre nuovi; ma è una fatica, mettersi ogni volta daccapo a pensare a un problema nuovo, quand’è così comodo adagiarsi nei vecchi, bastando al pubblico che i problemi sociali sieno posti e il sapere che c’è chi pensa a risolverli. Si sa che è proprio di tutti i problemi sociali esser posti e non mai risolti. I problemi nuovi, del resto, hanno questo di male, che sono avvertiti soltanto da pochi in principio. Non era dunque per lui, che non aveva ancora un ufficio fisso, stabilmente retribuito e con diritto a pensione, per cui si sarebbe potuto prendere il lusso di studii sempre nuovi e difficili, di lente e accorte preparazioni. Egli professava liberamente, creando circoli, istituzioni accanto a quelli dello Stato; e aveva perciò bisogno di problemi posti da lunga data, di cui fosse largamente riconosciuta la gravità.

             Ne aveva uno per le mani, che prima d’esser risolto, non una vita, ma gli avrebbe dato tempo di viverne dieci di novant’anni ciascuna! Il guajo era che i denari della tombola telegrafica, purtroppo, si assottigliavano di giorno in giorno…

             S’accorse di Tudina per quello straccetto bagnato messo ad asciugare sul mezzo busto di Dante Alighieri. La prima volta che lo vide corse a farle in camera una severa riprensione, ma non potè fare a meno di sorridere quando Tudina si mostrò stupita, che meritasse tanto rispetto quell’uomo lì con quel naso arricciato, come se sentisse puzza.

             Tudina interpretò il sorriso di lui come una concessione, e seguitò a stendere lo straccetto, non ostante le rinnovate riprensioni. Bonaventura Camposoldani interpretò questa pervicacia della ragazza come un’arte per attirar la sua attenzione, e una mattina, che si trovava di buon umore, entrò nella cameretta di lei per tirarle l’orecchio come a una bambina discola e impertinente, e dirle che non doveva farlo più, o che, se voleva farlo ancora… Ma Tudina si ribellò a quella tirata d’orecchio, respingendolo gagliardamente; Bonaventura Camposoldani si sentì allora eccitato alla lotta: l’afferrò; tutti e due si dibatterono, un po’ ridendo, un po’ facendo sul serio; finché Tudina, nel vedersi presa da lui come non s’aspettava affatto di potere esser presa, non diventò furibonda: urlò, morse, sgraffiò, dapprima; poi, non volendo concedere, si sentì costretta dal suo stesso corpo a cedere; e restò alla fine come esterrefatta nello scompiglio.

             Basta, eh? Parentesi chiusa, per Camposoldani, o da riaprirsi una volta tanto, a comodo, poiché la ragazza abitava lì, nella cameretta accanto. Curiosa, però, tutta quella ribellione, dopo ch’ella lo aveva provocato… e poi, quello spavento… e ora, che? piangeva? oh là là, che storie! Basta, via! che c’era da piangere così? Geremia poteva sopravvenire da un momento all’altro, e perché dargli un dispiacere, povero vecchio, dopo che il fatto era fatto, e si poteva bene nascondere, e anche di nascosto seguitare… perché no? senza furie, con prudenza…

             – Ah, brava! Così…

             Tudina d’un balzo, come una tigre, gli era saltata al collo, e lo aveva abbracciato freneticamente, quasi volesse strozzarlo. Sentiva tanta vergogna… tanta… tanta… e voleva che quella sua vergogna egli la riparasse con tanto, tanto amore… sempre, perché sempre, se no, ella la avrebbe sentita, quella vergogna, e ne sarebbe morta, ecco.

             Ma sì, ma sì… Intanto perché tremava così? perché piangeva così? Zitta, calma: c’era da godere, non da morire… Perché quella vergogna? Nessuno avrebbe saputo… Stava a lei, che nessuno sapesse…

             A lei? Eh, fosse dipeso soltanto da lei, povera Tudina… Poteva non parlare, Tudina, non dirne nulla neanche a lui; ma, dopo tre mesi…

             Bonaventura Camposoldani rimase per più di cinque minuti a grattarsi la fronte. Oh Dio! oh Dio! un figliuolo… da quella ragazza… in quelle circostanze… E che avrebbe fatto, ora, che avrebbe detto quel povero Geremia?

             Da un giorno all’altro Camposoldani s’aspettava che il vecchio gli si parasse davanti a domandargli conto e ragione di quell’ignominiosa complicazione del suo alloggio gratuito con la figliuola nella sede dell’Associazione nazionale per la cultura del popolo. Stimando ormai inevitabile una scenata, avrebbe voluto che avvenisse al più presto, per uscirne comunque e togliersi questo pensiero.

             Ogni mattina entrava con l’animo sospeso e costernato nella sala, si faceva all’uscio della cameretta ove abitavano il padre e la figliuola; guardava accigliato l’uno e l’altra, che lo accoglievano in desolato silenzio; e, stizzito, domandava quasi per provocarli:

             – Nulla di nuovo?

             Geremia chiudeva gli occhi e apriva le mani.

             Quasi quasi Camposoldani lo avrebbe preso per il petto, gli avrebbe dato uno scrollone, gridandogli in faccia:

             – Ma parla! Smuoviti! Dimmi quello che mi devi dire e facciamola finita! Sicché, quando una mattina, alla sua solita domanda: – «Nulla di nuovo?» –

             Geremia, invece di chiudere gli occhi e aprir le mani, crollò più volte il capo in segno affermativo, Camposoldani non potè fare a meno di sbuffare:

             – Ah, finalmente! Sentiamo!

             Ma Geremia, placido placido, si cacciò una mano nella tasca interna della giacca, ne trasse un foglio di carta protocollo ripiegato in quattro e glielo porse.

             – Che significa? – fece Camposoldani, guardando quel foglio spiegazzato, senza prenderlo.

             Geremia si strinse nelle spalle e rispose:

             –    Non c’è altro…

             –    E che è questo?

             –    Non so. L’ha portato un ragazzino…

             Camposoldani, con le ciglia aggrondate, prese rabbiosamente il foglio; lo spiegò; cominciò a leggere; a un tratto alzò gli occhi a fulminare Geremia.

             – Ah! Hai fatto questo?

             Era una domanda firmata da venticinque socii, perché fosse indetta al più presto un’adunanza. Capolista, il professor Agesilao Pascotti.

             Geremia si portò le mani tremicchianti al petto e aprendo le squallide labbra al solito sorrisetto mesto e ragionevole:

             –    Io? – sospirò con un filo di voce. – Che c’entro io?

             –    Pezzo d’imbecille! – proruppe allora Camposoldani. – E giusto al Pascotti ti sei rivolto?

             – Io?

             – Che ti figuri che ci guadagnerai adesso? Vogliono i conti? Ma subito! Comincerai dal risponderne tu, intanto!

             – Io?

             – Tu, tu per il primo, caro! tu che da tant’anni vai seminando le ricevute delle tasse mensili senza riscuoterne l’importo! Pezzo d’imbecille, sono tutti morosi questi firmatarii qua, tutti… Cardilli, Voceri, Spagna, Falletti, Romeggi… Toh! uno solo no! Concetto Sbardi… O dove sei andato a pescarlo costui? Non sta in Abruzzo? Quello che scrive idega! È a Roma? Ah, è veuto qua? E ti sei rivolto a lui?

             Investito così, il povero vecchio s’era provato più volte a interromperlo, con le mani protese, battendo continuamente le palpebre su gli occhietti acquosi. Pareva cascato dalle nuvole! Non sapeva nulla di nulla, proprio… Se la prendeva con lui?

             All’improvviso sorse in mezzo, tra i due, Tudina, che ormai non pareva più lei. Gonfia, scarduffata, imbruttita, si levò davanti a Camposoldani come l’immagine viva dell’infamia commessa, del laido delitto di cui s’era macchiato. Che c’entrava il patrigno in quell’istanza? Che interesse poteva avere a metter su i socii contro di lui?

             – E allora? – fece Camposoldani.

             Come, donde era venuta fuori quell’istanza? a chi era saltato quel grillo? Per qual ragione, così tutt’a un tratto? Gente che non pagava più, gente che non s’era fatta più viva da tanto tempo…

             Grattandosi nervosamente la bella barba nera spartita sul mento, Camposoldani s’immerse a considerare di nuovo quell’istanza che, dalla prima firma, poteva argomentarsi scritta tutta di pugno dal Pascotti stesso; lesse, rilesse più volte quella filza di nomi; alla fine levò il volto sorridente verso Geremia.

             – Pascotti? – domandò quasi a se stesso.

             E di nuovo si mise a considerare le firme. Una sola gli dava ombra: quella dello Sbardi abruzzese. Aveva sempre pagato, costui, puntualissimamente. Come si trovava lì con quegli altri a schiera? Gli faceva l’effetto d’un lupo tra un branco di pecore. Sì, era lui il nemico; lui, senza dubbio… Era venuto a Roma, era andato a trovare il Pascotti già vicepresidente, e tutti e due… Che volevano da lui? I conti? Padronissimi. Ma se Io Sbardi era andato a trovare Pascotti per eleggerlo comandante supremo della battaglia, era segno che, per lo meno, non sapeva parlare. E se mancava a lui il coraggio dell’accusa, il coraggio più difficile, lo avrebbe avuto il rotondo Pascotti? Via! Lo faceva ridere Pascotti.

             Di nuovo Camposoldani levò il volto sorridente verso Geremia.

             –    I conti… – disse.

             –    I… i conti? – balbettò il vecchio. – Da me?

             Camposoldani lo guatò, come se quella ingenua domanda che i socii volessero i conti da lui Geremia, gli avesse fatto balenare qualche idea.

             – Da te… da me…. vedremo – disse. E si ritirò nella sua cameretta.

             Più tardi Geremia fu mandato in giro a distribuire gli inviti all’adunanza per la sera del giorno successivo. Era come intronato e pareva che le gambe gli si fossero stroncate sotto.

             Camposoldani rimase tutto il giorno all’Associazione a preparare la difesa. Aveva avuto la debolezza di pagare alcuni debiti che lo opprimevano; e questa sottrazione si poteva mascherare benissimo col viaggio che diceva d’aver fatto in Germania per studiare l’organismo dei Circoli di Cultura, fiorentissimi, come tutti sapevano, in quel paese. Poi c’erano le spese per la sede sociale, arredo, pigione; le spese per la pubblicazione del Bollettino; lo stipendio di Geremia… che altro? ah, le spese di viaggio per le inaugurazioni… spese che, venuto meno quasi del tutto l’introito delle rate mensili dei socii, avevano naturalmente assottigliato il fondo della tombola telegrafica. Tutto sommato però, quanto restava?

             Camposoldani tirò la somma. Pur largheggiando nelle spese, pure arrotondando più volte le cifre, la somma totale era ben lungi dal mettersi d’accordo col magro residuo effettivo.

             Perdersi, no: non era uomo da perdersi così facilmente, massime di fronte a quei venticinque firmatarii con un Pascotti per capitano. Ma i conti, no, ecco! i conti doveva trovar modo di non presentarli. Se poi, proprio proprio vi fosse stato costretto… un lampo, uno dei suoi soliti lampi geniali doveva salvarlo… Che lampo?

             Ci pensò tutta la notte Camposoldani e il giorno appresso. Poche ore prima dell’adunanza, si vide all’improvviso comparire davanti Geremia, più che mai come una larva, che un soffio sospingesse: entrò parlando, al suo solito, sottovoce, con un tremolio più accentuato del capo e delle mani, e con l’ombra, l’ombra appena del consueto risolino mesto e ragionevole su le labbra.

             – L’I… l’Italia… che… ta-tanti sacrifizii… tanti eroismi… l’Italia che… Vittorio… Cavour… chi sa che… che cosa credevano… dovesse diventare… ecco qua… donnaccia da trivio… vergogna… figli bastardi… il di-disonore… si sa!… fratelli contro fratelli… la… la pa… la palla d’Aspromonte… bollati d’infamia… patria di ladri… per forza!… madre di… di figlie sgualdrine… per forza!… L’I… l’Italia… l’Italia…

             E bisbigliate queste parole, se n’andò.

             Camposoldani rimase sbalordito; non trovò la voce per richiamarlo indietro, per saper che cosa volesse dire.

             Che niente niente Geremia aveva protestato in quel modo contro la seduzione e la gravidanza della figliastra?

             Alla seduta, oltre ai venticinque firmatarii, intervennero appena una dozzina di socii, che non avevano mai posto piede nella sala dell’Associazione.

             Dei sei consiglieri della sede centrale di Roma, nessuno volle presentarsi. Per lettera, chi dichiarò che, secondo lo statuto sociale, si riteneva già da un pezzo scaduto dalla carica; chi, dimesso anche da socio per non aver più pagato; chi fece finanche le meraviglie che l’Associazione fosse tuttora in vita.

             Alla tavola della Presidenza si presentò solo, a testa alta, Bonaventura Camposoldani. Più a testa alta di lui e con cipiglio più sdegnoso del suo, si ergeva però dietro la tavola della Presidenza qualche altro: Dante Alighieri su la colonnina di gesso abbronzato.

             Dante Alighieri pareva che sentisse più puzza che mai.

             Era evidentissimo che prima di intervenire alla seduta, quei trentasette socii avevano concertato fra loro un piano di battaglia. Si leggeva chiaramente negli occhi dei più stupidi, alcuni intozzati, su di sé, altri spavaldi, altri sdegnosi, col labbro in fuori e le palpebre basse attraverso le quali guardavano le sedie, le tende, la tavola della Presidenza e lo stesso Dante Alighieri, come per compassione.

             Pascotti prese posto in prima fila, nel mezzo; Concetto Sbardi, invece, in fondo, appartato. Era un ometto tozzo, ispido, aggrondato, che teneva continuamente una mano spalmata sul mento e si raschiava con le unghie adunche le guance rase, stridenti. Molti si voltavano a guardarlo, ed egli, seccato, s’insaccava di più nelle spalle. Ma se c’era Pascotti! Perché non guardavano Pascotti? Che stupidi!

             Camposoldani, un po’ pallido, con occhi gravi, ma pur con un sorrisino ironico appena percettibile sotto i baffi, prima di aprir la seduta, chiamò con un cenno della mano Geremia, che s’era seduto, trepidante, presso l’uscio, e gli diede un foglio di carta perché gl’intervenuti vi apponessero la firma di presenza.

             Quando riebbe il foglio firmato, sonò il campanello e disse pacatamente:

             –   Signori, l’adunanza era indetta per le ore 20: sono già circa le 21. Da questa nota di presenza risulta che non siamo in numero. I soci iscritti nella sede di Roma sono novantasei…

             –   Domando la parola! – esclamò Pascotti.

             –   Prego, professore, – seguitò Camposoldani. – indovino ciò che ella vorrebbe dire: di questi novantasei socii molti debbono ritenersi dimissionarii, perché da un pezzo…

             –   Domando la parola! – insistè Pascotti.

             –   L’avrà; ma prima mi lasci dire! – replicò con fermo accento Camposoldani. – Io sono qui anche per far rispettare lo statuto sociale: e dico loro innanzi tutto che avrei potuto benissimo non tener conto della loro istanza, perché tutti i venticinque firmatarii, tranne uno, come del resto la maggioranza dei socii inscritti a questa sede, avrei potuto considerare come dimissionarii.

             – No! no! no! – gridarono a questo punto parecchi insieme. E Pascotti, per la terza volta:

             –    Domando la parola! Dimissionarii perché, signor Presidente? Io già – siamo in un circolo di cultura – mi perdoni – non userei mai codesta parola entrata purtroppo nell’uso, e non nostra! Ma diciam pure dimissionarii, poiché di ben altro qua, che di parole più o meno pure, questa sera, dovremo discutere. Dimissionarii perché, domando io, signor Presidente?

             –    Ecco! – lo interruppe Camposoldani, accennando Geremia in fondo alla sala. – Lo domandi laggiù al nostro esattore, egregio signor Pascotti.

             Tutti si voltarono a guardare: due o tre esclamarono:

             –    E chi l’ha mai veduto?

             –    Non dicano così! – esclamò allora Camposoldani, dando un pugno su la tavola. – Lo hanno veduto benissimo, Lor Signori, per due o tre mesi, puntuale! E non solo lo hanno veduto, ma egli ha lasciato nelle loro case la ricevuta della tassa, fidandosi che, forse impediti per il momento, Lor Signori sarebbero poi venuti a pagarne l’importo qua, nella sede sociale aperta tutto il giorno, a loro disposizione. Nessuno s’è mai fatto vedere! Io sono stato qua a lavorare, qua a mantener vivo il fuoco dell’Associazione, di cui loro questa sera, senza averne il diritto, vengono a domandarmi conto. Sì, o Signori, senza averne il diritto. Perché, delle due l’una: o non debbono ritenersi dimissionarii tutti coloro che non sono in regola coi pagamenti, e allora – c’è poco da dire – qui manca il numero legale, ed io non potrei aprir la seduta; o debbono ritenersi dimissionarii, e allora anche tutti voi, o Signori, tranne uno, non avete più veste di socii e potete andar via. Ma no, no, no, Signori miei – s’affrettò a soggiungere Camposoldani. – Vedete bene che io ho accolto la vostra istanza, felicissimo di vedervi qua, finalmente! in pochi, va bene; ma con la speranza che da questa sera in poi, dietro l’esempio vostro, la nostra Associazione si risvegli a quella vita feconda, ch’era nei miei voti nel fondarla. Ma figuratevi se poteva mai passarmi per la mente di non accogliere la vostra domanda! Io sono qua, sono stato sempre qua a lavorare per tutti, a tenere una continua, attiva corrispondenza con le nostre sezioni, ad attendere alla pubblicazione del nostro Bollettino, che si diffonde anche all’estero! Voi vi siete finalmente risolti a venire, a partecipare alla vita della nostra Associazione? Ma, figuratevi, figuratevi se io, stanco come sono, non vi apro le braccia e non vi benedico.

             Non si aspettava applausi Camposoldani, dopo questa volata. Ottenne però l’effetto voluto. Tutti apparvero lì per lì sconcertati; e di nuovo molti si voltarono a guardar l’unico che non si dovesse sentire fuor di posto e ammesso per indulgenza. Concetto Sbardi, questa volta, si scrollò tutto rabbiosamente e si alzò come per andar via; contemporaneamente quattro o cinque si levarono e accorsero a trattenerlo, mentre gli altri gridavano:

             –    Parli Sbardi! Parli Sbardi!

             –    Parli Pascotti, perdio – urlò lo Sbardi, divincolandosi. – Lasciatemi andare! o parla Pascotti, o io me ne vado!

             –    Ecco, parlo io – disse allora Pascotti, alzandosi un po’ impacciato. – Col permesso dell’egregio signor Presidente.

             –    No! no! Parli Sbardi! Parli Sbardi!

             – Parlo io… – Sbardi! Sbardi!

             Camposoldani sonò, sogghignando, il campanello: – Signori miei, vi prego… Che cos’è?

             –    Parlo io, – tuonò Pascotti. – Domando la parola!…

             –    Parli… Parli…

             –    … soltanto per dire, – seguitò il professor Agesilao Pascotti, levando un braccio maestosamente, – soltanto per dire che nella condizione in cui mi ha messo e ci ha messo il signor presidente, o amici miei, quantunque acceso di candida e, vorrei dire, apostolica condiscendenza, con la sua pregiudiziale, io stimo e faccio notare all’egregio collega Sbardi che il mio discorso non avrebbe più quell’efficacia che dovrebbe avere, che sarebbe giusto che avesse, secondo l’intendimento nostro e la nostra intesa.

             –    Benissimo!

             –    Aspettate! Ragion per cui, io prego, io prego caldamente, a nome di tutti i colleghi qui presenti, e, lasciatemelo supporre, a nome anche di tutti i socii del Sodalizio nostro sparsi per le terre d’Italia. – (Benissimo!)  – Aspettate! – Prego, dicevo, il professor Concetto Sbardi perché voglia far violenza alla sua natural ritrosia, alla sua… un po’ troppo ribelle modestia, e che parli lui, che porti qua lui, con la rigidezza severa che gli è solita, le sante ragioni che ci hanno spinto, o Signori, a domandare questa solenne adunanza!

             Scoppiarono applausi e nuove grida: – Parli Sbardi! Viva Sbardi!  – Signor Sbardi, – disse allora Camposoldani con aria di sfida. – Via! faccia contenti i suoi amici! Sono curioso anch’io di sentire quel che lei ha da dire, quel che aveva divisato d’esprimere con la parola adorna ed eloquente del professor Pascotti.

             Concetto Sbardi diede una bracciata a coloro che gli s’erano fatti intorno e si fece innanzi per parlare. Pareva un bufalo parato per scagliarsi, a testa bassa. Afferrò con una mano la spalliera della seggiola che gli stava davanti, rimase con l’altra sul mento a raschiarsi la guancia, poi cominciò:

             – Agesilago… Agesilago Pascotti e tutti voi, Signori, avete torto a tirarmi per forza a parlare. Vi avevo detto… vi avevo pregato che non so parlare. Io non possiedo come il signor Camposoldani, come Pascotti, il… il come si chiama… sì, insomma, la parola… La guardaroba, volevo dire, signori, la guardaroba dell’eloquenza.

             Alcuni applaudirono alla frase per rianimare l’oratore, altri scoppiarono a ridere.

             –    Sissignori, – riprese Concetto Sbardi. – Io la chiamo così… La guardaroba dell’eloquenza… Avete un pensieruzzo tisico? E tisico sempre vi resterà, se non avete la guardaroba dell’eloquenza. Ma se avete la guardaroba dell’eloquenza, il pensieruzzo tisico vi uscirà dalla bocca imbottito di tanta stoppa di frasi, che, parrà un gigante, un Ercole parrà, con la clava e la pelle del legone… Avete un’ideguccia sporca? fatela entrare nella guardaroba dell’eloquenza e l’oratore, Camposoldani, Pascotti, che farà? ve la farà uscire con la faccia lavata, pettinata, attillata, con certi pennacchi di parole, tutta appuntata di virgole e punt’e virgole, che l’ideguccia sporca non si riconoscerà più neanche lei stessa… Signori, io non possiedo la guardaroba dell’eloquenza; voi mi forzate a parlare; io non ho nemmanco uno straccio, nemmanco un cencio, per vestire le mie ideghe: e se parlo, qua stasera, ho pagura che mi scappi dalla bocca… non so che cosa… ma qualche cosa che al signor Camposoldani, il quale mi sfida anche lui, non farebbe piacere… insomma, ve lo dico, ho pagura che mi scappi dalla bocca… mi scappi dalla bocca…

             –    E se lo lasci scappare! – esclamò Camposoldani, pallidissimo, dando un altro pugno su la tavola. – Parli! dica! siamo qua per parlare e per sentire!

             Concetto Sbardi allora levò il capo, si tolse la mano dal mento, e gridò:

             – Signor Camposoldani, il ladro nudo!

             Successe un pandemonio! Scattarono tutti in piedi; primo fra tutti Camposoldani: un balzo da tigre; brandì la seggiola, si scagliò contro lo Sbardi. Molti lo trattennero, altri afferrarono lo Sbardi; tutti gridavano in grande orgasmo tra le seggiole rovesciate. Pascotti montò su la tavola della presidenza.

             – Signori! signori! È deplorevole! Vi prego, signori! Ascoltatemi! C’è un malinteso, perdio! Ragioniamo! Signori… signori…

             Nessuno gli dava ascolto.

             – Signori! che vergogna! Ci guarda Dante Alighieri!

             Camposoldani, disarmato della seggiola, sconvolto, ansimante, trattenuto per le braccia, cessò alla fine di divincolarsi e disse a quelli che cercavano di calmarlo:

             – Basta… basta… Son calmo… Lasciatemi. Signori, ai vostri posti. Sono il presidente.

             Andò alla tavola, tutti rimasero in piedi, e in piedi egli parlò:

             – Non posso stasera, perché veramente non mi aspettavo una siffatta aggressione. Domani! Ho il modo – semplice – dignitoso – degno di me – di ricacciare in gola a un incosciente l’offesa che ha creduto di scagliarmi. Venite domani sera, signori, voi e tutti gli altri: renderò conto di tutto, minutamente, coi documenti alla mano. La seduta è tolta.

             Sonò il campanello, e tutti uscirono in silenzio dalla sala.

             Dopo mezzanotte, Bonaventura Camposoldani, uscito a prendere un po’ d’aria per riconnettere le idee scompigliate e disporsi, con la calma, ad aver quel lampo geniale che doveva salvarlo, rientrando nella sede dell’Associazione, restò meravigliato su la soglia della sala.

             Geremia ancora col lume acceso, stava seduto davanti alla tavola della presidenza, col capo appoggiato sul tappeto verde di essa.

             Camposoldani pensò che il povero vecchio aveva forse voluto aspettarlo, dopo quella seduta tempestosa, e s’era addormentato lì.

             Attraverso l’uscio della cameretta s’udiva il ronfo cadenzato di Tudina.

             Bonaventura Camposoldani s’accostò alla tavola per scuotere il vecchio e mandarlo a dormire: ma presso la testa abbandonata, di cui il lume lasciava vedere il roseo della cute di tra la rada canizie, scorse una lettera chiusa e allibì.

             Il lampo geniale, lo aveva avuto lui, Geremia Bencivenni.

             – L’I… l’Italia… vergogna… figli bastardi…

             Ma se la figliastra aveva già compreso che l’Italia era fatta male, e che a tutti gli onesti e i modesti che avevano concorso a farla non restava altro che servire ai ladri, che bisogno c’era più di lui?

             Nella busta, due lettere. In una si accusava di essersi approfittato indegnamente della cieca fiducia che il signor Presidente dell’Associazione, suo benefattore, aveva riposto in lui per tanti anni, e d’aver sottratto quasi tutti i fondi della tombola telegrafica. Diceva di averli in gran parte buttati nei botteghini del lotto, e chiedeva perdono al Presidente e a tutti i socii.

             Nell’altra, scritta per il solo Bonaventura Camposoldani, diceva testualmente così:

             «Nella guardaroba dell’eloquenza vesti della mia camicia rossa di garibaldino il tuo furto, o ladro nudo! Mi accuso, mi uccido per salvarti, e ti do la stoffa per un magnifico discorso. In compenso ti chiedo solamente di rendere l’onore alla mia povera figliuola!».

Raccolta La giara
01 – La giara – 1909
02 – La cattura – 1918
03 – Guardando una stampa – 1905
04 – La paura del sonno – 1900
05 – La lega disciolta – 1910
06 – La morta e la viva – 1910
07 – Un’altra allodola – 1902
08 – Richiamo all’obbligo – 1906
09 – Pensaci, Giacomino! – 1910
10 – Non è una cosa seria – 1910
11 – Tirocinio – 1905
12 – L’illustre estinto – 1900
13 – Il guardaroba dell’eloquenza – 1908
14 – Pallottoline! – 1902
15 – Due letti a due – 1909

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