Luigi Pirandello: dalla maschera denudata al mito

Di Franco Sepe

Pirandello non appartiene alla categoria dei rifacitori, bensì a quella dei creatori di miti. I miti “dichiarati” di Pirandello sono i tre drammi che ne recano, a mo’ di sottotitolo,  l’inequivocabile specificazione: La nuova colonia(1928), Lazzaro (1929), I giganti della montagna (1931-34).

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Il mito e Pirandello
Pirandello dirige Marta Abba e Lamberto Picasso ne La nuova colonia, 1928. Immagine dal Web.

Luigi Pirandello: dalla maschera denudata al mito

Il mito, ovvero la sua elevazione rituale sotto forma di iniziazione ai misteri, è risaputo, è alle origini dell’evento teatrale. E l’evento teatrale delle origini è la tragedia, che nasce dal ditirambo, cioè dall’inno originariamente intonato al nume cui è devoluto l’atto rituale – come, ad esempio, nelle piccole e grandi dionisiache. Il ditirambo, dapprima libero poi fissato in versi, riunisce in coro attorno all’ara su cui si compie il sacrificio coloro che vi si votano esprimendosi con il canto. Dalla suddivisione in semicori e dal dialogo dei corifei fino alla nascita del dramma, il passo è più o meno breve. Pure, nel momento in cui le parole di Dioniso vengono pronunciate da un hypocritès, da un attore, e il canto si fa epico-lirico attraverso la proiezione dei personaggi invocati dal coro, viene a scadere il significato religioso primario del rituale, e l’evento subirà quelle trasformazioni che più in là lo laicizzeranno in spectaculum (da spectare, guardare), cioè in qualcosa a cui si assisterà prevalentemente con gli occhi. Il mito, ridotto a testimonianza stilizzata dell’epifania divina – di cui si è persa d’altronde la potenza ispiratrice originaria ( il famoso oudèn pros ton Dionyson, nulla più di Dioniso), trova nel dramma il suo simulacro e nella maschera dell’attore la contraffazione (sia tragica che ludica) del nume o dell’eroe invocato, personificato e fatto uscire e rientrare dalla skenè, dalla misera tenda che immette su quella che un tempo era la thymele, l’ara del dio, ora divenuta proskènion, palcoscenico (ma non nel senso in cui lo intendiamo oggi).

La maschera, la cui funzione è di far tabula rasa della personalità dell’attore sostituendovi la simbolizzazione del dio o dell’eroe, in breve volgere di tempo raffigurerà una tipologia di caratteri individuali, mentre spetterà al dramma, in senso strutturale, offrire un contesto significativo al personaggio e una processualità che consenta di dialettizzare le distorsioni verificatesi nella natura umana. La caratterizzazione del personaggio, etica o parodistica che sia, attraversa un arco quasi ininterrotto – la parentesi medievale e rinascimentale, con i Drammi sacri e le Sacre Rappresentazioni, non riesce a escludere lo spettacolo comico di stampo popolare, il mimo con le sue irriverenti demistificazioni – e si arricchisce, durante il tragitto, della consapevolezza civile maturata dallo scrittore di teatro affinatosi sempre più nell’osservazione della società e dei costumi.

La via pirandelliana al teatro, si sa, passa per il romanzo e soprattutto per le novelle, materia prima cui attingere più o meno fedelmente per la stesura del dramma. Al di là del colore locale e di certe figure più terragne e bozzettistiche, a Pirandello interessano le operazioni con le quali l’individuo moderno si presenta a se stesso e agli altri con quel costrutto dell’Io che gli consente di tenere a bada o persino di superare il disagio del vivere. La maschera che Pirandello si propone fin dall’inizio di mettere a nudo, ha a che fare con la vita prima che con il teatro – Adriano Meis alias Mattia Pascal viene prima dei Sei personaggi, la fissità di Serafino Gubbio dietro la macchina da presa anticipa quella di Enrico IV di fronte alla storia. Questi personaggi sono diventati tali perché l’esistenza non li ha risparmiati dall’umiliazione del vivere conformemente alle regole sociali, alla cui necessità però essi non si sono piegati, a differenza dei comuni mortali, ma con uno sforzo supplementare hanno reinventato se stessi per mezzo di espedienti, talvolta spingendosi nel fondo del paradosso (come lo scrivano Ciampa del Berretto a sonagli ), talaltra mutilandosi (come l’operatore Serafino Gubbio), oppure sdoppiandosi (come Mattia Pascal). Strategie più o meno consapevoli, o difetti, come preferisce chiamarli Pirandello – la psicologia ufficiale usava definire e classificare questi sintomi come nevrosi – difetti risultati da quella “fittizia costruzione” che i personaggi, con l’ausilio della fantasia dell’autore “han messo su di sé e della loro vita, o che altri hanno messo sù per loro: i difetti insomma della maschera finché non si scopre nuda” (Tutti i romanzi, a cura di G.Macchia e M.Costanzo, Milano 1973, vol. I, p. 584).

Ma la nudità della maschera, che avviene per sprazzi di luce nella opacità della coscienza, comporta il dolore di chi d’un tratto si scopre nella sua inermità – è la caduta freudiana dei meccanismi di difesa dell’Io, che, fuori del contesto terapeutico, anziché giovare, espone l’individuo al disagio della nevrosi; e si noti anche l’affinità tra la maschera e la “corazza caratteriale” di cui parla Wilhelm Reich nella sua analisi della psicologia di massa del Fascismo, nell’opera omonima – dunque di chi si riscopre persona reale ma priva dell’illusoria sicurezza che l’essere personaggio poteva garantirgli. E conviene qui ricordare, non solo e non tanto per amor di filologia, che abbiamo a che fare con due termini storicamente intrecciati: persona deriva dall’etrusco phersu, maschera; personaggio dal francese personnage, a sua volta da personne, persona. Una complementarietà questa che rispecchia semplicemente il nesso da sempre esistente tra poesia, teatro e vita.

 Dunque, se già nell’esistenza concreta risulta quasi impossibile lasciarsi alle spalle scorie e orpelli del proprio carattere, nell’arte di Pirandello, radicale come è appunto l’arte per definizione, se vi è abbandono della maschera, esso non è mai definitivo: Adriano Meis, nel finale del più noto e fortunato romanzo pirandelliano, reca fiori sulla tomba dello sconosciuto che scambiarono con lui, e a chi gli chiede chi sia, risponde: “Eh, caro mio…io sono il fu Mattia Pascal”; per non parlare dell’iperbolico Enrico IV, il quale, una volta sfumato il gioco con la storia ma non il travestimento, si sente condannato a trascorrere il tempo, come gli farà affermare Pirandello, “in questa eternità di maschera”.

 Se è vero che nella produzione teatrale pirandelliana realismo analitico e visionarietà si alternano – ma spesso convivono anche – succedendosi con una regolarità quasi ciclica, è altrettanto vero che nell’ultima fase vi è un incremento dell’irrazionale – termine questo, nella cultura del Novecento, carico di valenze negative, soprattutto per le implicazioni ideologiche che vi si connettono (paradigmatica è la demolizione da parte di Lukàcs delle teorie di derivazione schopenaueriana e nicciana fatte culminare nell’ideologia fascista).

L’interesse per il mito, frequente in autori diversissimi (dagli espressionisti ai surrealisti, da Kokoshka a Cocteau fino al Brecht dell’Antigone, da D’Annunzio a Thomas Mann fino a Cesare Pavese) consiste nella stragrande maggioranza dei casi in una riscrittura della tragedia classica o della mitologia ellenica o altro; oppure in una attualizzazione a fini propagandistici diretti o indiretti – Kèrenyi, l’ha definita “tecnicizzazione” – del mito svuotato del suo carattere genuino originario.

Pirandello non appartiene alla categoria dei rifacitori, bensì a quella dei creatori di miti (nonché a quella dei distruttori di miti, come ha ben messo in luce Rössner; e qui valga ancora una volta l’esempio del Serafino Gubbio, opera demolitrice del mito cinematografico allora in ascesa). I miti “dichiarati” di Pirandello sono i tre drammi che ne recano, a mo’ di sottotitolo, l’inequivocabile specificazione: La nuova colonia (1928), Lazzaro (1929), I giganti della montagna (1931-34) – mentre la frequentazione della materia mitologica avviene già in giovanissima età, durante il soggiorno a Bonn, con il poemetto Pasqua di Gea (1991), questa versificazione nostalgica , come è stato detto, di epifanie telluriche pagane. Ma “mito” si presterebbe ad essere definita anche La Sagra del signore della nave (1925), opera comunque anticipatrice di quelle tematiche che sottintendono uno studio degli archetipi del comportamento individuale e collettivo, anteriore a qualsiasi discorso sull’ essere e sull’apparire, discorso che pure non manca qui di ripresentarsi. Quali complementi necessari del mito troviamo in questa sorta di tragedia esistenziale il sacrificio e la festa, il rito religioso e la liturgia sociale; e la confessione dei peccati, intesa come espulsione e rigenerazione – rigenerazione che però non ha luogo, per cui alla collettività non rimane che sciogliersi in pianto davanti al Cristo insanguinato della processione.

Termini questi assenti nella Nuova colonia, per quanto concerne il sacro in senso stretto. Sebbene il meccanismo che muove quest’altra tragedia sociale appaia fortemente affine a quello della Sagra del signore della nave : solo che qui la coralità si ripresenta nella fattispecie di un ripudio di gruppo della norma esistente, con l’insediamento robinsoniano sull’isola – dialettica di palingenesi sociale e vitalismo corsaro – nell’illusione di una anarchica ribattezzazione dei modi dell’agire collettivo. Tentativo, anche questo, abortito di inventarsi una identità nuova, più genuina e primitiva, che non corrisponde all’abbassamento parziale e temporaneo della maschera – marinai e contrabbandieri sfuggiti e infine riacciuffati dal moralismo falso e meschino di Padron Nocio – bensì all’utopia irrealizzabile della caduta di ogni maschera. Ma a punire la tracotanza dei marinai della Nuova colonia, la loro sfida nei confronti della società, è la stessa natura da essi mitizzata sotto forma di isola, un’isola che nel finale sprofonda se stessa e i suoi indegni abitatori nelle acque marine. La minaccia incombe fin dalle prime battute del prologo, quando di essa viene detto che per ordine superiore è stata sgomberata dopo l’ultimo terremoto, e che s’abbassa sempre più; la sua sorte è già tutta nell’oracolo dell’ex-galeotto Tobba: “La sentenza è data: scomparirà dalle acque, un giorno o l’altro”(L. Pirandello, Maschere nude, vol.II,p.1067, Mondadori Milano 1958). Ma a chi si oppone alla proposta di colonizzare l’isola “maledetta”, La Spera, l’eroina positiva del dramma, ricorda: “Più a fondo di come sei qua, non potrai sprofondare”(ibid. p.1083). Ed è sempre lei a incarnare la speranza, quando, dopo aver raccontato dell’improvvisa comparsa del latte, a cinque mesi dalla nascita del suo bambino, grida insieme agli altri al miracolo, mentre Tobba, dal canto suo, si fa interprete della volontà divina, affermando solennemente: “Il segno di Dio, per tutti noi: che ci guiderà Lui! – Ora sì, si deve partire. Questa notte stessa. -Inginocchiamoci!”( ibid. p.1087).

Dunque, giardino dell’Eden, terra promessa, terra di libertà, l’isola si rivela come pura illusione; e la comunità che vi si è insediata, che si accorge di non riuscire davvero a fare a meno di capi e di leggi, per dirla con la battuta sulfurea di Crocco, altro non è che “La colonia dei liberi coatti”(ibid. p.1099). Mentre Burrania, con la mente allucinata da una solitudine sconfortante, verso la fine del primo atto, corre incontro agli altri urlando di aver visto affondare l’isola: “L’ho vista calare, vi dico! Ho sentito, sentito, che cala! E un fragore, un fragore grande ho sentito, come se tutto il mare friggesse! Sì! Sì!”(ibid. p.1104). E alla fine del terzo atto la visione apocalittica si avvererà, sotto gli occhi della Spera, unica superstite insieme al bimbo che stringe tra le braccia, a suggello di un’esperienza comunitaria impotente e fallimentare avvilita dalla revoca con la quale, cedendo alle lusinghe di Padron Nocio, il manipolo degli eletti mancati fantastica un inverosimile ritorno al mondo. Ma la catastrofe è alle porte e non vi è più posto per le maschere – così ha deciso l’autore – né per chi , pentito e ammaliato come i marinai, ha cercato rapidamente di risollevarsela; e neppure per chi non l’ha mai smessa, come Padron Nocio, e la usa fino in fondo.

Fine del mito – mito qui inteso sia come impresa favolosa passibile di essere narrata (dunque mitopoiesis), sia come costrutto mentale illusorio e fallace. Per quanto concerne il primo significato, pare abbastanza chiaro che Pirandello in questo genere di lavori prediligesse la creazione di situazioni e personaggi con un sapore di leggenda, o di ispirazione biblica (come nel Lazzaro) o ancora da favola metafisica (come nei Giganti della montagna), pur talvolta dentro una cornice realistica. Secondariamente, la dichiarata apoliticità dell’autore siciliano, una volta raffreddatosi l’entusiasmo verso il regime, e in mancanza di una vera simpatia per i programmi anarcoidi di artisti e intellettuali antifascisti, trova sbocco nella sospensione del tempo storico a favore di quello mitico. Il secondo “mito”, quello esplicitamente religioso, designa il dramma intitolato Lazzaro, del 1929. Dove però alla tematica evangelica (il miracolo che ridà vita al corpo e risveglia la coscienza) è saldamente connessa quella dionisiaca (l’ebbrezza primitiva del ritrovamento e della rinascita nella natura). Qui, la fuga della protagonista Sara verso una campagna orgiasticamente esaltata, ha buon esito se la si confronta con quella dei coloni, arenatasi sull’isola, lontana da qualsiasi barlume di redenzione. La trasfigurazione di Sara in menade dei nostri tempi, il suo congedo dalla maschera borghese, incarnata invece dalla mentalità scientista o fideistica degli altri personaggi maschili del dramma, appare come una sorta di tributo del raisonner, della cattiva coscienza pirandelliana, alle regioni sommerse dell’istinto vitale. Senza ombra di beffa, anzi con una serietà stupefacente, l’autore chiude la pièce all’insegna della speranza.

Ma, insuccessi a parte, si capisce da questi tentativi di farsi creatore di miti che Pirandello non ha imbroccato ancora la strada giusta. L’accesso al mito, al suo inesauribile arsenale di immagini e simboli richiede un distacco totale dalla realtà storica e dalle sue contaminazioni. E questo vale tanto per l’autore quanto per i suoi personaggi. Nei Giganti della montagna ritroviamo il motivo della fuga dalla civiltà, presente già nei primi due “miti”, nella figura di Cotrone, il mago degli Scalognati. Anche qui, come nella Nuova colonia, il fuggiasco ha trovato dimora su un’isola, sebbene il paesaggio sia tutt’altro che meditteraneo. La Villa della Scalogna, è stato già detto, appare situata infatti in una dimensione surreale che sembra far sue le suggestioni della Tempesta di Shakespeare. Benché non manchino elementi di richiamo che alludono alla Sicilia – l’ulivo saraceno, (ma qui siamo nel paratesto), risultato gioioso di un’affannosa ricerca di soluzione scenica interna al dramma, di cui parla il figlio Stefano nella sua testimonianza sugli ultimi giorni di vita di Pirandello, ne è soltanto il suggello finale.

Sappiamo di Cotrone che praticava modi di pensiero non consueti già prima dell’esilio volontario, esilio a cui lo ha spinto il subbuglio provocato dalle sue “verità”. “Tutte quelle verità – dice Cotrone – che la coscienza rifiuta. Le faccio venir fuori dal segreto dei sensi, o, a seconda, le più spaventose, dalle caverne dell’istinto. Ne inventai tante al paese, che me ne dovetti scappare, perseguitato dagli scandali. Mi provo ora qua a dissolverle in fantasmi, in evanescenze. Ombre che passano”(ibid. p.1343-44). Cotrone conclude il suo viaggio iniziatico sull’isola, ma già prima si muoveva in direzione del mito, che narra oralmente eventi immaginosi a cui chi presta ascolto crede come a delle verità. Su quest’isola, sebbene in parte abitata dai Giganti e dai loro sudditi – nascosti, come le antiche divinità, dietro le cime dei monti – dunque dal potere costituito, Cotrone può dar vita, senza restrizioni, alla produzione di ombre e fantasmi. Apparenze, a prima vista; anzi trucchi e lenocini, come le pareti che si colorano, i fantocci dotati di vita nella villa degli spiriti, pratiche illusionistiche capaci persino di stupire la compagnia di guitti e di attori al seguito della Contessa Ilse. Apparenze, che nel racconto di Cotrone diventano atti di una spiritualità rinata alla coscienza, una spiritualità capace di accogliere in sé lo stupore delle cose.

Ma Cotrone, si è davvero liberato della maschera che faceva di lui un personaggio, dalla fissità del ruolo che le convenzioni sociali avevano imposto a lui come a chiunque? La setta che si è formata intorno a lui, è poi tanto diversa, nell’adorazione del suo capo, dagli altri gruppi sociali?

Sul versante opposto troviamo Ilse, che si è autoinvestita della missione di recitare vita natural durante La favola del figlio cambiato, (tematicamente appartiene anche questa alle opere mitopoietiche dell’ultimo Pirandello) quale pegno verso il poeta, morto suicida per lei, che gliel’aveva dedicata. La sua lotta per affermare se stessa, la compagnia teatrale e l’autore di cui intende onorare il sacrificio, si rivela vana. La sua misera fine – stando alle intenzioni di Pirandello dettate al figlio Stefano in punto di morte -, spezzata come un fantoccio dal pubblico inferocito al cospetto di un’arte che non comprende, è lo scotto sociale da pagare in un’epoca non ancora matura per delle novità sostanziali (al pubblico gaudente piacciono i lazzi di Cromo, non certo la poesia che Ilse è costretta a ricacciarsi in gola). La donna Ilse non è stata in grado di smettere la maschera, quella delle convenzioni sociali, restando al fianco di suo marito, che non ama, ma che è stato ed è di sostegno a lei e alla compagnia. Come attrice, alla maschera può rinunciarvi ancor meno, non tanto perché è il mestiere a reclamarla, ma perché ha preferito votarsi caparbiamente, nonostante gli insuccessi, al mito dell’arte, inteso nella sua accezione romantica, soccombendovi.

Cotrone invece si è prodotto nell’arte del mito, un’arte che può fare a meno delle mediazioni e dei compromessi – egli, a differenza di Ilse, non è asservito alla struttura teatrale; e quello di un teatro svincolato dalla rappresentazione era anche il vecchio sogno di Pirandello: lo spettacolo privo di maschera che fa ritorno al mito; la voce pura del poeta che celebra le sue visioni come un rito assoluto. Perché mito e sogno attingono allo stesso arsenale di immagini della cui materia è fatta l’umanità.

Pirandello, prima della dipartita, si è concesso questo ultimo grande sogno terreno, “al limite – come dice la didascalia dei Giganti – tra la favola e la realtà”.

Franco Sepe
da Deutsches Pirandello-Zentrum e.V.

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