L’abito nuovo – Audio lettura
Legge Gaetano Marino.
«A casa non disse una parola né alla madre né alla figliuola. Del resto, non aveva mai ammesso, da sedici anni, dal giorno della sciagura in poi, nessun discorso che non si riferisse ai bisogni momentanei della vita.»
Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 16 giugno 1913, poi in Le due maschere, Quattrini, Firenze 1914.
L’abito nuovo
Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino
Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)
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L’abito che quel povero Crispucci indossava da tempo immemorabile, nessuno riusciva più a considerarlo come una cosa soprammessa al suo corpo, una cosa che si potesse cambiare. Agli occhi di tutti egli era ormai in quel suo abito, come un vecchio cane randagio nel suo pelame stinto e strappato.
Per questa ragione, l’avvocato Boccanera, suo principale, non aveva mai pensato di potergli regalare uno dei tanti suoi abiti smessi ancora in buono stato. Così com’era, gli serviva a meraviglia; scrivano e galoppino a centoventi lire al mese.
Quel giorno, il signor avvocato Boccanera stava a tenergli un interminabile e amorevole discorso. Di solito, bastava che gli dicesse, con un certo ammiccamento degli occhi: – Crispucci, eh? – e Crispucci intendeva tutto. In quel momento, però, davanti la scrivania, tutto ripiegato e scivolante come un’S, le due lunghe braccia da scimmia ciondoloni, pareva che non capisse più nulla.
Apriva di tratto in tratto la bocca, ma non per parlare. Era una contrazione delle guance, o piuttosto, come un’increspatura di tutta la faccia gialliccia, che, scoprendogli i denti, poteva parere una smorfia, così di scherno come di spasimo; ma forse era soltanto un segno d’attenzione.
– Dunque, caro Crispucci, tutto considerato, vi consiglio di partire. Sarà per me un guajo serio; ma partite. Avrò pazienza per una quindicina di giorni. Eh, almeno quindici giorni vi ci vorranno per tutte le pratiche da sbrigare e le formalità. E anche perché, mi figuro, venderete tutto.
Crispucci aprì le braccia, con gli occhi biavi fissi nel vuoto.
– Eh sì, vendere, vi conviene vendere. Gioje, abiti, mobili. Il grosso è nelle gioje. Così a occhio, dalla descrizione dell’inventario, ci sarà da cavarne da centocinquanta a duecento mila lire; forse più. C’è anche un vezzo di perle. Quanto agli abiti (voi capite) non li potrà certo indossare la vostra figliuola. Chi sa che abiti saranno! Ma ne caverete poco, non vi fate illusioni. Gli abiti si svendono, anche se ricchissimi. Forse dalle pellicce (pare ce ne sia una collezione) sapendo fare, qualche cosa caverete. Oh, badate: per le gioje, sarebbe bene che appuraste da quali negozianti furono acquistate. Forse lo vedrete dagli astucci. Vi avverto che i brillanti sono molto cresciuti di prezzo. E qui nell’elenco ce ne son segnati parecchi. Ecco: una spilla… un’altra spilla… anello… anello… un bracciale… un altro anello… ancora un anello… una spilla… bracciale… bracciale… Parecchi, come vedete.
A questo punto Crispucci alzò una mano. Segno che voleva parlare. Le rarissime volte che gli avveniva, ne dava l’avviso così. E questo segno della mano era accompagnato da un’altra increspatura della faccia ch’esprimeva lo stento e la pena di tirar su la voce da quell’abisso di silenzio in cui la sua anima era da tanto tempo sprofondata.
– Po… potrei, – disse, – farmi ardito… uno di… uno di questi anelli… alla sua signora?
– Ma no, che dite, caro Crispucci? – scattò il signor avvocato. – La mia signora, vi pare? uno di quegli anelli!
Crispucci abbassò la mano; accennò di sì più volte col capo.
– Mi scusi.
– Ma no, anzi vi ringrazio. Piangete? No, via, via, caro Crispucci! Non ho voluto offendervi! Su, su. Lo so, lo comprendo: è per voi una cosa molto triste; ma pensate che non accettate per voi codesta eredità: voi non siete solo, avete una figliuola, a cui non sarà facile trovar marito, senza una buona dote, che ora… Eh, lo so! è a un prezzo ben duro! Ma i denari son denari, caro Crispucci, e fanno chiudere gli occhi su tante cose. Avete anche la madre. Non avete molta salute, e…
Crispucci, che aveva approvato col capo le precedenti considerazioni del signor avvocato, a questa su la sua salute, sgranò gli occhi con un piglio scontroso. S’inchinò; si mosse per uscire.
– E non prendete le carte? – gli disse l’avvocato, porgendogliele di su la scrivania.
Crispucci tornò indietro, asciugandosi gli occhi con un sudicio fazzoletto, e prese quelle carte.
– Dunque partite domani?
– Signor avvocato, – rispose Crispucci, guardandolo, come deciso a dire una cosa che gli faceva tremare il mento; ma s’arrestò, lottò un pezzo per ricacciare indietro, nell’abisso di silenzio, quel che stava per dire; alzò un poco le spalle, aprì un poco le braccia e andò via.
Stava per dire: «Parto, se vossignoria accetta per la sua signora un anellino di questa mia eredità!».
Di là, agli altri scritturali dello studio che da tre giorni si spassavano a torturarlo, punzecchiandolo con fredda ferocia, aveva promesso, digrignando i denti, a chi una veste di seta per la moglie, a chi un cappello con le piume per la figliuola, a chi un manicotto per la fidanzata.
– Magari!
– E qualche camicia fina, velata e ricamata, aperta davanti, per tua sorella?
– Magari!
Voleva che di quella eredità tutti, con lui, fossero insozzati.
Leggendo nell’inventario la descrizione del ricchissimo guardaroba della defunta, e di quel che contenevano di biancheria gli armadii e i cassettoni, s’era figurato di poterne vestire tutte le donne della città.
Se un resto di ragione non lo avesse trattenuto, si sarebbe fermato per via a prendere per il petto i passanti e a dir loro:
«Mia moglie era così e così; è crepata or ora a Napoli; m’ha lasciato questo e quest’altro; volete per vostra moglie, per vostra sorella, per le vostre figliuole, una mezza dozzina di calze di seta, su fino alla coscia, finissime, traforate?».
Un giovanotto spelato, dalla faccia itterica, che aveva la malinconia di voler parere elegante, si sentiva finir lo stomaco da tre giorni, in quella stanza degli scritturali, a tali profferte. Era da una settimana soltanto nello studio, e più che da scrivano faceva da galoppino; ma voleva conservare la sua dignità; non parlava quasi mai, anche perché nessuno gli rivolgeva la parola; si contentava d’accennare un sorrisetto vano a fior di labbra, non privo d’un certo sprezzo lieve lieve, ascoltando i discorsi degli altri, e tirava fuori dalle maniche troppo corte o ricacciava indietro con mossettine sapienti i polsini ingialliti.
Quel giorno, appena Crispucci uscì dalla stanza del signor avvocato, prese dall’attaccapanni il cappello e il bastone per andargli dietro, mentre gli altri scrivani, ridendo, gridavano dall’alto della scala:
– Crispucci, ricordati! La camicia per mia sorella!
– La veste di seta per mia moglie!
– Il manicotto per la mia fidanzata!
– La piuma di struzzo per la mia figliuola!
Per istrada lo investì, con la faccia più scolorita che mai dalla bile:
– Ma perché fate tante sciocchezze? Perché seminate la roba così? Porterà scritta forse in qualche parte la provenienza? Vi tocca una fortuna come questa, e non sapete profittarne. Siete impazzito?
Crispucci si fermò un momento a guatarlo di traverso.
– Fortuna, sì! – ribatté quello. – Fortuna prima e fortuna adesso! Prima, per esservene liberato tant’anni fa, quando vi scappò di casa.
– Te ne sei informato?
– Me ne sono informato. Ebbene? Che noje, che impicci, che fastidii ne aveste più? Ora è morta; e non vi sembra un’altra fortuna? Perdio! Non solo perché è morta, ma anche perché di stato vi farà cangiare!
Crispucci si fermò a guatarlo di nuovo.
– T’hanno detto forse che ho una figliuola da maritare?
– Vi parlo così per questo!
– Ah! Franco.
– Franchissimo.
– E vuoi che pigli l’eredità?
– Sareste un pazzo a non farlo! Duecentomila lire!
– E con duecentomila lire, vorresti che dessi la figliuola a te?
– Perché no?
– Perché, se mai, con duecentomila lire, potrei comprare una vergogna meno sporca della tua.
– Oh, voi m’offendete!
– No. Ti stimo. Tu stimi me, io stimo te. Per una vergogna come la tua non darei più di tremila lire.
– Tre?
– Cinque, va’ là! e un po’ di biancheria. Hai una sorella anche tu? Tre camice di seta anche a lei, aperte davanti! Se le vuoi, te le do.
E lo piantò lì, in mezzo alla strada.
A casa non disse una parola né alla madre né alla figliuola. Del resto, non aveva mai ammesso, da sedici anni, dal giorno della sciagura in poi, nessun discorso che non si riferisse ai bisogni momentanei della vita. Se l’una o l’altra accennava minimamente a qualche considerazione estranea a questi bisogni, si voltava a guardarle con tali occhi, che subito la voce moriva loro sulle labbra.
Il giorno appresso partì per Napoli, lasciandole non solo nell’incertezza più angosciosa sul conto di quella eredità, ma anche in una grande costernazione, se – Dio liberi – commettesse là qualche grossa pazzia.
Le donne del vicinato fomentavano questa costernazione, riferendo e commentando tutte le stranezze commesse da Crispucci in quei tre giorni. Qualcuna, con rosea e fresca ingenuità, alludendo alla defunta, domandava:
– Ma com’è ch’era tanto ricca? E un’altra:
– Ho sentito dire che si chiamava Margherita. La biancheria intanto, dicono che è cifrata R e B.
– E fi? No, R e C, – correggeva un’altra – Rosa Clairon, ho sentito dire.
– Ah, guarda, Clairon… Cantava?
– Pare di no.
– Ma sì che cantava! Ultimamente no, più. Ma prima cantava.
– Rosa Clairon, sì… mi pare.
La figliuola, a questi discorsi, guardava la vecchia nonna con un lustro di febbre negli occhi affossati, e una fiamma fosca sulle guance magre. La vecchia nonna, con la grossa faccia gialla, sebacea, quasi spaccata da profonde rughe rigide e precise, s’aggiustava sul naso gli occhialoni che, dopo l’operazione della cateratta, le rendevano mostruosamente grandi e vani gli occhi tra le rade ciglia lunghe come antenne d’insetto, e rispondeva con sordi grugniti a tutte quelle ingenuità delle vicine.
Molte delle quali sostenevano con calore, che via, in fin dei conti, non solo non era da stimar pazzo, ma forse neppure da biasimare quel povero signor Crispucci, se voleva che nessuno di quegli abiti, nessun capo di quella biancheria toccasse le carni immacolate della sua figliuola. Meglio darli via, se non voleva svenderli. Naturalmente, come vicine di casa, credevano di poter pretendere che, a preferenza, fossero distribuiti tra loro. Almeno qualche regaluccio, via! Chi sa che.fiume di sete gaje e lucenti, che spume di merletti, tra rive di morbidi velluti e ciuffi di bianche piume di cappelli, sarebbero entrati fra qualche giorno nello squallore di quella stamberga.
Solo a pensarci, ne avevano tutte gli occhi piccoli piccoli. E Fina, la figliuola, ascoltandole e vedendole così inebriate, si storceva le mani sotto il grembiule, e alla fine scattava in piedi e andava via.
– Povera figliuola, – sospirava allora qualcuna. – È la pena. E un’altra domandava alla nonna:
– Credete che il padre la farà vestir di nero?
La vecchia rispondeva con un altro grugnito, per significare che non ne sapeva nulla.
– Ma certo! Le tocca!
– E infine la madre.
– Se accetta l’eredità!
– Ma vedrete che prenderà il lutto anche lui.
– No no, lui no.
– Se accetta l’eredità!
La vecchia si agitava sulla seggiola, come Fina si agitava sul letto, di là. Perché questo era il dubbio smanioso: che egli accettasse l’eredità.
Tutte e due, di nascosto, al primo annunzio della morte, s’erano recate dal signor avvocato Boccanera, spaventate dalle furie con cui Crispucci aveva accolto la notizia di quell’eredità, e lo avevano scongiurato a mani giunte di persuaderlo a non commettere le pazzie minacciate. Come sarebbe rimasta, alla morte di lui, quella povera figliuola, che non aveva avuto mai, mai un momento di bene da che era nata? Egli metteva in bilancia un’eredità di disonore e una eredità d’orgoglio: l’orgoglio d’una miseria onesta. Ma perché pesare con questa bilancia la fortuna che toccava alla povera figliuola? Era stata messa al mondo senza volerlo, quella poverina, e finora con tante amarezze aveva scontato il disonore della madre; doveva ora per giunta essere sacrificata anche all’orgoglio del padre?
Durò un’eternità – diciotto giorni – l’angoscia di questo dubbio. Neppure un rigo di lettera in quei diciotto giorni. Finalmente, una sera, per la lunga scala erta e angusta le due donne intesero un tramestio affannoso. Erano i facchini della stazione che portavano su, tra ceste e bauli, undici pesanti colli.
A pie della scala, Crispucci aspettò che i facchini andassero a deporre il carico nel suo appartamento al quarto piano; li pagò; quando la scala ritornò quieta, prese a salire adagio adagio.
La madre e la figliuola lo attendevano trepidanti sul pianerottolo, col lume in mano. Alla fine lo videro apparire, a capo chino, con un cappello nuovo, verdastro, insaccato in un abito nuovo, peloso, color tabacco, comprato certo bell’e fatto a Napoli in qualche magazzino popolare. I calzoni lunghi gli strascicavano oltre i tacchi delle scarpe pur nuove; la giacca gli sgonfiava da collo.
Né l’una né l’altra delle due donne ardì di muovere una domanda. Quell’abito parlava da sé. Soltanto la figliuola, nel vederlo diretto alla sua stanza, prima che ne richiudesse l’uscio gli chiese:
– Hai cenato, papà?
Crispucci, dalla soglia, voltò la faccia, e con una smorfia nuova di riso e una nuova voce rispose: – Wagon-restaurant.
L’abito nuovo – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
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L’abito nuovo – Audio lettura 3 – Legge Valter Zanardi
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