La ragione degli altri – Atto secondo

Premessa
Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo

En Español – La rázon de los demás

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La ragione degli altri - Atto II
Maddalena Crippa, La ragione degli altri, 1985. Fermo immagine video RAI.

1915
La ragione degli altri
Atto Secondo

        In casa di Leonardo Arcioni. Lo studio, arredato con ricca e sobria eleganza. Quattro scaffali pieni di libri, ampia scrivania con libri e carte, una sedia, una greppina, ecc. Uscio comune infondo. Usci laterali. Finestra a destra. Al levarsi della tela Guglielmo Groa sarà sdrajato su la greppina con una coperta su le gambe, un giornale su la faccia. Sulla scrivania è ancora accesa la lampadina elettrica riparata da un montino verde.

        Entra Livia, vede il padre lì steso, tentenna lievemente il capo con un sospiro, poi va ad aprire gli scuri della finestra: entra la luce del giorno. Livia spegne la lampadina della scrivania e va a scuotere il padre.

        LIVIA: Babbo… babbo… (Gli toglie il giornale dal volto.)

        GUGLIELMO (destandosi): Oh! (Tirandosi su, a stento, a sedere:) Ahi! ahi!

        LIVIA: Hai dormito lì?

        GUGLIELMO: No. Che dormire! È giorno? To’ to’ to’, ho dormito davvero! E tu?

        LIVIA: Non è tornato.

        GUGLIELMO: Tutta la notte? E tu, in piedi?

        LIVIA: Son già le nove, babbo.

        GUGLIELMO: Ah, sì? (Si alza, guarda l’orologio.) Perbacco… le nove… (Resta assorto un pezzo.) Non è tornato dunque? Benone. Ha trovato il pretesto. Perché, infine, che gli ho detto io?

        LIVIA: Oh, è bastata una parola…

        GUGLIELMO: Ma non gli ho detto nulla! Volevo che parlasse lui, anzi. Che gli ho detto io?

        LIVIA: Nulla, babbo. Io dico: una parola qualunque. C’era un’apparenza di vita, qua, che si reggeva… così, sul silenzio. È bastata una parola… È crollata.

        GUGLIELMO: Che è crollato? Eh, no, cara! Così? Finché sto io in piedi, perdio, sta’ pur sicura che non crolla nulla!

        LIVIA: E che vorresti più fare adesso?

        GUGLIELMO: Ah, niente? Non c’è più niente da fare, secondo te? E sfido io! Mi sembri una barca senza vela… Ma ci sono io, oh! E me lo dirà lui, intanto, che cosa intende di fare!

        LIVIA (quasi sgomenta nel cordoglio): Vorresti andare a cercarlo?

        GUGLIELMO: Ma sicuro che ci vado! Ora stesso ci vado!

        LIVIA (con impeto): No, no, babbo! Non voglio! Non voglio! Non voglio asso­lutamente!

        GUGLIELMO: Come non vuoi? Scusa, che c’entri tu? E cosa che devo vedermi io con lui!

        LIVIA: No, te ne scongiuro, babbo! Non voglio! È cosa che riguarda me! E tu non puoi farlo se io non voglio. Basta, ora, basta! Non m’importa più di nulla, credi!

        GUGLIELMO: Ma allora domando io a te: che cosa vuoi fare, tu?

        LIVIA: Nulla… non voglio più nulla io. Non so… non lo so io stessa, oramai…

        GUGLIELMO: E io dovrei acquietarmi così? Vedere mia figlia rimanere in questo stato, perché il marito, dopo averla ingannata e poi abbandonata, si metta in­fine con la figlia avuta da un’altra donna?

        LIVIA: No, babbo, non è questo!

        GUGLIELMO: E che altro è? Se n’è andato. Finché stavi muta, stava qui. Ho par­lato io, e ha trovato il pretesto per andarsene. Voleva il silenzio, lui! Sfido! Che nessuno parlasse! Che nessuno ragionasse! Perché non poteva ragionare lui. È sopra ogni ragione, lui! S’accusa, sì, ma è anche sopra ogni accusa. Sopra ogni accusa e sopra ogni scusa. Non si dichiara anche senza scuse? Concede tutto. E poi non si lagna, oh! Avessi a credere che si lagna? Non si lagna! E ha avuto anche la degnazione di dirmi che tu, sì, tu avresti tutto il diritto di ribellarti; ma non lo fai perché capisci che non c’è rimedio… Un sacco di gentilezze commoventissime… Cose da trasecolare! Ma dove siamo? Oh, io mi tocco e dico: ma, ho la testa a posto? In che mondo sono cascato? La meraviglia non è di lui… Ma vedo te, così… Ohe; figlia mia! Che sortile­gio t’ha fatto? Va’, va’, senti, ho la bocca amara, un po’ di caffè, ti prego. Sono calmo, vedi? Fammi ragionare un po’ con te, almeno. Ma prima un po’ di caffè, va’…

        Livia, commossa, fa cenno di sì, esce per l’uscio laterale a sinistra. Gu­glielmo resta assorto, fa gesti di stupore, di sdegno. Poco dopo rientra Livia.

        LIVIA: Ecco, a momenti…

        GUGLIELMO: Vieni qua, accostati. (La abbraccia; le carezza il capo.) Sei cre­sciuta senza mamma, tu, povera figliuola mia… E lo so, tante cose ti sono ri­maste chiuse dentro… E questo tuo padre, così grosso… preso da tanti affari… non t’ha saputo mai parlare… non ha saputo mai farti parlare… farti dire ciò che ti stava sul cuore… Ma ora… ora bisogna che tu mi parli… sì, a poco a poco, piano… Io mi faccio quanto più posso vicino a te… va bene? per sentire quello che non hai potuto dire mai a nessuno… A lui, no di certo, se ha po­tuto trattarti così… Lo dirai a me? Su. Mettiamo in chiaro prima di tutto, que­sto: Tu gli vuoi bene… ancora? (Livia chiude gli occhi dolorosamente; poi, appena, col capo, fa segno di no.) No? Devi dirmelo: No.

        LIVIA: Ti dico no…

        GUGLIELMO: Me lo dici bene! Non cominciare a negare: perché la vera disgra­zia è questa, figliuola mia. Siedi, siedi. (Seggono.) Ecco, guarda: tu puoi benissimo crederti una, ed essere due, invece. Due, due… Voglio dire: divisa tra l’orgoglio e l’amore. L’orgoglio, in bocca, ti dice: no; mentre l’amore, in petto, ti dice: sì.

        LIVIA: No, t’inganni.

        GUGLIELMO: M’inganno? Sta bene. E allora perché?

        LIVIA (si volge a guardare verso l’uscio a sinistra): Non vorrei che…

        GUGLIELMO: Pensi al caffè, io non ci penso più.

        LIVIA: No, non vorrei che sentissero…

        GUGLIELMO: Parlo tanto piano! (Con uno scatto:) Ma che cos’è? Piano di qua, piano di là! non si può più davvero parlare? Fare, sì, si può tutto. Gli atti qua non offendono. Appena si parla invece: piano! piano! V’offendono le parole? Ma guarda! (Afferrandosi i lobi degli orecchi:) Pare che gli orecchi soltanto in città vi diventino così delicati!

        LIVIA: Hai ragione. Ma perché far sapere?

        GUGLIELMO: Vedono, figliuola mia! Ti pare che, se non sentono nulla, per que­sto non debbano vedere? Vedono! O forse egli, altre notti…?

        LIVIA: No, ah no, questo mai!

        GUGLIELMO: Meno male! Con codesta remissione, poteva anche darsi che ti fossi avvilita fino a tanto.

        LIVIA: Che dici, babbo? Ma veramente allora tu non mi conosci! Io non mi sono mai avvilita. Fin dal primo giorno che seppi, tra me e lui è finito tutto. Egli non m’ha visto neppure una lagrima negli occhi. È rimasto qui, perché così ho voluto; non per me, per gli altri. Ma io non l’ho più guardato. E per­ciò ora voglio che… Zitto! Si sente picchiare all’uscio a sinistra.

        LA CAMERIERA. Permesso?

        GUGLIELMO: Avanti.

        LA CAMERIERA (entra, recando un vassoio con una tazza, ecc. Depone tutto su un tavolino; poi): Comanda altro?

        GUGLIELMO: No, grazie. (La cameriera, via. Guglielmo sì versa il caffè e co­mincia a sorseggiarlo in silenzio; poi dice, come a se stesso:) Mia figlia… in questa situazione! E chi sa per quanto tempo ci saresti rimasta, se non fossi venuto io a muovere le acque.

        LIVIA: Eh, sarebbe stato meglio forse, meglio, babbo, che non fossi venuto.

        GUGLIELMO: Ah, vedi? Puoi dire così? Ma dunque, via, non negare!

        LIVIA: No. Non lo dico per quello che tu credi! Ti giuro, babbo, t’inganni! Tu sei convinto che fosse necessario quest’urto violento, questa spinta che sei venuto a dare a quell’apparenza di vita che ti dicevo… che si sorreggeva qua sul silenzio… Ebbene, io non avrei voluto, te lo confesso. E Dio sa se ho fatto di tutto perché non t’accorgessi di nulla. Non per altro, credi, ma perché so che… Non posso… non posso parlare…

        GUGLIELMO: Come non puoi? Perché? Chi te lo proibisce?

        LIVIA: Ma chi vuoi che me lo proibisca? Io stessa. Vedi, babbo: comprendevo bene, che tu, venendo a conoscere soltanto ora, dopo tanto tempo, ciò che è accaduto, quando la colpa è veramente finita, scontata, e ci sono soltanto come punizione per lui le conseguenze, dovessi credere ancora necessario, utile, il tuo intervento. Non può sembrarti tardi, insomma, a te, poiché vieni a sapere soltanto ora, tu. E non vedi più lui come veramente è, ma come la sua colpa, conosciuta ora all’improvviso, inattesamente, te lo fa vedere; hai vo­luto ragionare con lui, fargli intendere la ragione: è naturale. Io sapevo invece ch’era inutile ormai. Inutile parlare, inutile ragionare… Ma scusa, che vuoi più parlare? Non vedi come s’è ridotto?

        GUGLIELMO (con infinito stupore, che gli toglie quasi la parola): Ma allora… ma allora… perdio… Io sbalordisco… Tu hai compassione di lui?

        LIVIA: No, non compassione… ribrezzo… non so! L’ho veduto a poco a poco cadere così… avvilirsi… perché non può… vedi?… non può col suo lavoro… (Un nodo angoscioso alla gola le impedisce per un momento di proseguire; ma riesce a dominarsi subito.) Non sa più come fare…

        GUGLIELMO: Ma dunque tu speravi – ?

        LIVIA (subito): – nulla, no; non speravo nulla!

        GUGLIELMO: Aspettavi, almeno, che…

        LIVIA (subito): No, no! (Con fierezza:) Perché se egli fosse venuto qua a dirmi che per me aveva abbandonato la figlia in mezzo a una strada (con forza, con sdegno:) io l’avrei scacciato!

        GUGLIELMO (sbalordito): E allora proprio non ti capisco più!

        LIVIA: Forse non so dirtelo. Vedi, babbo: per l’odio ch’io sento dell’offesa ch’egli m’ha fatto, questa non sarebbe stata per me una soddisfazione. Se egli avesse abbandonato la figlia, perché convinto di non poterla più mantenere, e fosse tornato a me, agli agi della sua casa, mi avrebbe fatto ribrezzo, orrore. Capisci, adesso?

        GUGLIELMO: Come se quella fosse tua figlia! Va bene: se egli la avesse abban­donata per le considerazioni che tu dici… sì, posso anche comprendere… Ma se gliel’impongo io, ora?

        LIVIA: Tu? E come puoi imporglielo tu?

        GUGLIELMO: Ma non c’è mica bisogno che la abbandoni in mezzo a una strada. Si provvedere a lei, alla madre…

        LIVIA: E ti pare ch’egli possa rinunziare, così, alla figlia, babbo?

        GUGLIELMO: Ah, sì? Bel ragionamento! E debbo io permettere che sia abban­donata, invece, mia figlia? Che modo di ragionare è codesto? Sono padre an­ch’io, e mi difendo la mia figliuola!

        LIVIA: Vedi dunque? È proprio lo stesso caso!

        GUGLIELMO: No, cara, no. Non è lo stesso! Sarebbe lo stesso, se io non fossi tuo padre, ma il padre della sua amante, e pretendessi che per lei egli abban­donasse la figlia ottenuta dalla sua sposa legittima: che è un’altra cosa! ben altra! ben altra!

        LIVIA: Parole, babbo! Come vuoi ch’egli faccia codeste distinzioni, quando non ha che una figlia sola?

        GUGLIELMO (trasecolato): Ma che debbo vedermi anche questa, dunque? Che tu prenda le sue difese?

        LIVIA (con un grido): Non lo difendo, né l’accuso! Io vedo me, babbo; quel che mi manca! Dove sono i figli è la casa! E qua, lui, figli non ne ha!

        GUGLIELMO (commosso improvvisamente, accorrendo a lei e abbracciandola): Povera figlia mia! povera figlia mia! Ah, dunque è per questo? E che colpa hai tu, se Dio non te n’ha voluto dare? Ah, è per questo! Tu dunque capisci che cosa vuol dire aver figli, e non ne hai! E perché allora non vuoi capir me? Egli ha la sua casa, là, dov’è sua figlia? Ma tu hai la tua, anche tu… la mia! Vieni via con me, dunque! Vieni via con me!

        LIVIA (sul petto del padre, gemendo): No… no…

        GUGLIELMO (seguitando con foga): Che stai più a farci qua, se il tuo silenzio da martire, se la tua prudenza non bastano a muovergli il cuore? Se tu stessa t’impedisci finanche di desiderare, di sperare ch’egli ritorni a te?

        LIVIA: Sì, sì… proprio così… Non lo desidero, perché egli non potrebbe esser più, ora, quello che era! E non voglio che sia. Non posso volerlo.

        GUGLIELMO: E che vuoi allora? morire di pena, qua?

        LIVIA: Eh, ora forse… chi sa! Senza volerlo, tu… vedi? credendo di far bene… hai, in un momento… disperso il frutto delle mie sofferenze di tanti anni.

        GUGLIELMO: Io? Ma scusa, quale frutto?

        LIVIA: Il suo contegno verso me… Il suo rispetto… Mentre ora…

        GUGLIELMO: Era soddisfazione per te il supplizio di tutti i giorni? Non le capisco, io, codeste imprese, figliuola mia! Ti sei avvelenata l’esistenza. Basta ora. Basta. Bisogna decidere.

        LIVIA: E ti pare che mi sarebbe stato difficile, in tanti anni, far quello che tu hai fatto in un momento solo? Prima, prima bisognava farlo!

        GUGLIELMO: Ma perché non l’hai fatto? Non dirmene nulla! Nulla… neppure un cenno che mi facesse intendere!

        LIVIA: Io dico prima che gli nascesse la figlia.

        GUGLIELMO: Ebbene?

        LIVIA: Quando? Se mi sono accorta del suo tradimento già troppo tardi.

        GUGLIELMO: Quando già era nata la figlia? Ma com’eri? Cieca?

        LIVIA: Eh, sì… l’arte! Che ne sapevo io? Egli non ci pensava più, dacché s’era sposato. Vivevamo tranquilli, insieme, in pace –

        GUGLIELMO: – e sotto sotto, intanto –

        LIVIA: – no: arrivò un giorno una lettera – (Si ferma.)

        GUGLIELMO: – che lettera? –

        LIVIA: – una lettera: la leggiamo insieme (egli non aveva segreti per me); non riconobbe in prima la scrittura; io stessa gli feci notare: Non vedi? È di tua cugina –

        GUGLIELMO: – quella Orgera? –

        LIVIA: – che era stata sua fidanzata: si erano lasciati per un puntiglio –

        GUGLIELMO: – lo so. E quella lettera?

        LIVIA: Le era morto il marito. Non avendo altri parenti a cui rivolgersi, chie­deva a Leonardo un soccorso

        GUGLIELMO: – sfacciata! –

        LIVIA: – e io stessa, insistentemente, spinsi Leonardo a mandarglielo.

        GUGLIELMO: Ah… sei stata proprio tu?

        LIVIA: Come avrei potuto sospettare? Ma neanche lui, neanche lui suppose allora ciò che doveva accadere!

        GUGLIELMO: E poi? In principio?

        LIVIA: Circa tre mesi dopo, egli si rimise a scrivere, a scrivere, come non aveva mai fatto. Certe notti, appena venuto a letto, tornava ad alzarsi. Alle mie interrogazioni, rispondeva che io non potevo comprendere che cosa fosse. Gli era ritornato l’estro, diceva.

        GUGLIELMO: Ah, bell’estro! Bell’estro! Magnifico!

        LIVIA: Così m’ingannò.

        GUGLIELMO: Per non doverti più nulla, è vero? Che pudori ha la coscienza! Ma gliel’ho detto, sai? Gliel’ho detto!

        LIVIA: Se ci rifletti un poco, devi riconoscere anche tu che, dopo tutto, non po­teva fare altrimenti.

        GUGLIELMO: Eh già! Da uomo onesto… Galantuomo! S’è messo a lavorare… per mantenere col sudore della fronte…

        LIVIA (piano, assorta): E potesse almeno! Ma non può… non basta…

        GUGLIELMO: Che dici?

        LIVIA: Dico che non può più… non basta…

        GUGLIELMO (irritato): E perciò? Secondo te, che dovrei fare io? Andargli a chiedere scusa, umilmente, e pregarlo di ritornare?

        LIVIA: Babbo! Ancora?

        GUGLIELMO: T’offendi? Io non ti capisco, non riconosco più te, invece! Vuoi restare così? Ma se non sai tu stessa quello che vuoi! Mi ringrazi così d’aver tentato almeno di mettere le cose a posto?

        LIVIA: Eh… Se avessi potuto metterle, a posto…

        GUGLIELMO: Ma se tu mi leghi le braccia! Oh bella! Se mi dici che non devo far nulla!

        LIVIA: Ebbene, guarda: vuoi andare a trovarlo, è vero? Che gli dirai? Tornerai a ragionare con lui. Ma per quante cose tu possa dirgli, né con la ragione, né con la forza potrai ottenere che egli abbandoni la figlia. Ripeto: qua, lui, figli, non ne ha. Dunque?

        GUGLIELMO: Ma qua lui ha la moglie, perdio! Non rappresenti dunque nulla, tu?

        LIVIA: Sì, la moglie, rappresentavo. Finché tu non l’hai messo al bivio: tra la moglie e la figlia. Se n’è andato dalla figlia, vedi.

        GUGLIELMO: Oh, dunque. Tu vuoi ancora seguitare a soffrire, così, senza scopo? Bene, senti, cara, accomodati! Io me ne vado. Ah, mi rivolta, capisci! questo spettacolo mi rivolta! Non posso sentirti parlare così! Non sarei sicuro di me. La mia casa è aperta, lo sai. Quando ti parrà, ci verrai. Vado a farmi subito le valige.

        Esce furiosamente per l’uscio a sinistra. Livia resta in mezzo alla stanza; si copre il volto con le mani: sta un po’ così; finché, udendo picchiare all’uscio a vetri, infondo, si scuote e cerca di nascondere le lagrime.

        LIVIA: Chi è? (La cameriera entra con un biglietto di visita in mano e lo porge a Livia, che lo prende e legge.) Di’ che il padrone non c’è.

        LA CAMERIERA: Gliel’ho detto. Ma vuol parlare col padre della signora, dice.

        LIVIA (resta un po’ sopra pensiero, poi dice): Fallo passare. Entra poco dopo Cesare D’Albis.

        D’ALBIS (dalla soglia): Permesso? (Si fa avanti, s’inchina, porge la mano.) Oh, signora… Mi scusi se ho insistito… M’hanno detto che Leonardo non c’è… Non importa. Basta che ci sia suo padre, perché veramente avrei bisogno di lui.

        LIVIA: S’accomodi, prego. Ma non so se mio padre… in questo momento…

        D’ALBIS: Sa, mi premerebbe molto, proprio molto di vederlo.

        LIVIA: Scusi… Lei viene forse da parte di Leonardo?

        D’ALBIS: Io? No. Perché?

        LIVIA: Ah, bene. Nulla. Aspetti un momento. Vado a vedere se mio padre…

        D’ALBIS: Permette? Volevo propriamente parlargli d’una cosa che… sì, può anche interessare Leonardo, questo sì; anzi l’interessa davvicino. Ecco, per il Ruvo, insomma.

        LIVIA: E… lei non l’ha veduto?

        D’ALBIS: L’onorevole Ruvo? No. È stato qua?

        LIVIA: No, no. Prego, segga. Vado a chiamarle mio padre. Esce per l’uscio a sinistra. D’Albis resta un po’ sconcertato, fa un gesto come per dire che non capisce nulla. Sta un po’ seduto, poi si alza e si reca a guardare i libri di uno scaffale. Sbuffa, torna a sedere. Entra poco dopo Gu­glielmo Groa.

        GUGLIELMO: Gentilissimo signore! Lei vuol parlare con me?

        D’ALBIS: Se non le dispiace, signor Groa. Due paroline. Lei ha fretta? Ho una gran fretta anch’io. Ecco… una preghiera.

        GUGLIELMO: Comandi! s’accomodi!

        D’ALBIS: Troppo gentile, prego…

        GUGLIELMO: Lei è un uomo di spirito. Mi faccio meraviglia! Preghiera… co­mandi. Cose che si dicono, caro signore. Non ne teniamo conto per carità. Perché io, scusi, la fretta ce l’ho veramente. S’accomodi.

        D’ALBIS: Grazie.

        GUGLIELMO: Non c’è di che, prego. Eccomi qua, tut,t’orecchi.

        D’ALBIS: Leonardo, io non l’ho veduto.

        GUGLIELMO: E neanch’io, caro signore!

        D’ALBIS: Glielo dicevo, sa? perché la signora… non so… mi ha domandato, se venivo da parte di lui…

        GUGLIELMO: Ah… come, come? Lei viene per parlarmi di mio genero?

        D’ALBIS: No, no. Anzi… le dico che non l’ho veduto…

        GUGLIELMO: Ah, benone! Perché, se permette, desidero di non parlarne affatto.

        D’ALBIS: C’è forse qualche novità?

        GUGLIELMO: Niente. No. Affari miei. Scusi, in che potrei servirla?

        D’ALBIS: Ecco, sì, lasciamo andare. Volevo domandarle, signor Groa: è stato dal Ruvo, lei?

        GUGLIELMO: Io? dal Ruvo? Nossignore. Perché voleva che ci andassi?

        D’ALBIS: Ma perché… credevo che… come amico…

        GUGLIELMO: Qua? Nossignore! Al paese!

        D’ALBIS: Come sarebbe, al paese?

        GUGLIELMO: Ma perché, qua, lui, non mi conosce. Laggiù, al paese, siamo ami­coni; e viene lui a trovar me. Io non so neppure dove stia di casa.

        D’ALBIS: Eh, via! Mi vuol dare a intendere adesso che se lei, dopo la vittoria di jeri, si recasse a congratularsi…

        GUGLIELMO: Io? Me ne guardo bene, caro signore! Lei non mi conosce.

        D’ALBIS: Perché? Scusi. Non vedo che male ci sarebbe.

        GUGLIELMO: Ma nossignore! Non ho questo vizio, creda pure!

        D’ALBIS (ridendo sforzatamente): Ah, lei è graziosissimo!

        GUGLIELMO: E abbia pazienza! Lui non ha bisogno delle mie congratulazioni, in questo momento; io, per grazia di Dio, tanto meno… Dunque, perché? Per la patria? Lasciamo stare, caro signore. Piuttosto, facciamo così: mi congratulo sinceramente con lei, che è stato suo strenuo paladino…

        D’ALBIS: Eh, già… eh! Lei ha un po’ l’aria di canzonarmi?

        GUGLIELMO: Io? Nossignore.

        D’ALBIS: Ma tanto, sa? una canzonatura di più, una di meno… Purché poi mi faccia il favore che le chiedo. Questo è l’importante.

        GUGLIELMO: Ho capito, sa? Si tratta del Ruvo? Non ne facciamo niente.

        D’ALBIS: Permette? Mi lasci spiegare. Sono voci, ancora, voci, a cui non voglio credere.

        GUGLIELMO: Vuole un consiglio mio? Ci creda.

        D’ALBIS: Ma sa di che si tratta?

        GUGLIELMO: Nossignore. Ma lei ci creda, dia ascolto a me.

        D’ALBIS: Eh, no, scusi! Dopo tutto quello che ho fatto per lui, mi ripugna troppo! È infido, sì, ha fama d’infido; ma con me, no; con me, se ne deve guardare! perché io posso farlo pentire. Egli mi conosce; e perciò non credo ancora… A ogni modo è meglio prevenire. Nell’interesse del giornale, e dunque nell’interesse anche di Leonardo…

        GUGLIELMO: Scusi tanto. La richiamo ai patti.

        D’ALBIS: Che patti?

        GUGLIELMO: Le ho detto che desidero di non parlare di mio genero.

        D’ALBIS: Ma ora si tratta d’affari…

        GUGLIELMO: Non m’immischio negli affari di mio genero.

        D’ALBIS: Anche quando, scusi, la condizione di lui potrebbe d’un tratto diven­tare tanto difficile che…

        GUGLIELMO: No! niente, sa!

        D’ALBIS: Le conseguenze…

        GUGLIELMO: Ma se non voglio saperne!

        D’ALBIS: Glielo avverto, mi dispiace, ma io mi vedrei costretto, senz’altro, an­nunziare alla sua collaborazione che non mi serve affatto.

        GUGLIELMO: E lo dice a me? Ma contentissimo, caro signore!

        D’ALBIS: Forse perché lei ignora…

        GUGLIELMO: Non ignoro. Giusto, anzi, per questo! Non mi faccia parlare, la prego! (Si alza. Entra dall’uscio infondo Leonardo, pallidissimo, sconvolto.) Eccolo qua, del resto, il signor Arciani. Se la veda con lui.

        LEONARDO: Caro D’Albis. Un momento di tempo. Il tempo di prendere dalla scrivania alcune carte, e andiamo via.

        GUGLIELMO: Non ce n’è più bisogno, sai!

        LEONARDO: Come dice?

        GUGLIELMO: Dico che puoi restare, perché me ne vado via io. Parto fra mez­z’ora, solo. (A D’Albis:) Caro signore, le auguro buona fortuna, e mi com­piaccio d’averla conosciuta.

        D’ALBIS: Ma parte davvero?

        GUGLIELMO: Stavo a far le valige, quando lei è venuto. Non ho un momento da perdere. (A Leonardo guardandolo negli occhi:) Dunque, intesi, parto io, io solo. (Accostandosi al D’Albis, piano:) Me ne scappo a rotta di collo, per ri­portarmi salva in questa valigetta (si batte la fronte) la mia piccola provvista di raziocinio. La riverisco, caro signore. (Via per l’uscio a sinistra.)

        D’ALBIS (a Leonardo): Per carità, non me lo far partire! Almeno per oggi! Bi­sogna che vada dal Ruvo assolutamente!

        LEONARDO (scrollando il capo e ridendo amaramente): Tu capiti proprio al momento opportuno…

        D’ALBIS: Ma non c’è un momento da perdere! Perché? Che cos’è? Ti sei bistic­ciato?

        LEONARDO: E tu… liquidazione, è vero? Il Ruvo, arrivato, ti volta le spalle. Tu mi metti alla porta. Di bene in meglio!

        D’ALBIS: Ma non ti metto nient’affatto alla porta! Il momento è grave, certo! Siamo nella tempesta e siamo come in una scialuppa. Bisogna ora dalla scia­luppa arrampicarsi alla nave arrivata in soccorso miracolosamente. Bisogna che la fune ce la faccia gettare tuo suocero.

        LEONARDO: Bella immagine, caro. Ma se fosse per impiccarmi, la fune… Parte, lo vedi. Parte lui, dice. Dovevo andar via io. Questa non è più casa mia.

        D’ALBIS: Ma va’ là! Che tragedie! Al solito! Non mi far ridere! Queste sono stupidaggini! Con un suocero come quello? Con una moglie così prudente…

        LEONARDO: Lascia… Ti prego!

        D’ALBIS: Ma no, scusa! Sai a quanti parrebbe facilissima la vita, al tuo posto! Tu non sai vivere, caro!

        LEONARDO: Eh, sì, forse hai ragione.

        D’ALBIS: Non sai vivere! Che diavolo! Con un po’ di… sì, dico… di savoir faire. C’è bisogno di guastarsi così? Ragazzate, via! E, quel che è peggio, guasti, anche a me, le uova nel paniere! Credi pure che in questo momento l’unica cosa seria è…

        LEONARDO: Eh, lo so, il tuo giornale!

        D’ALBIS: Molto più seria, da qualunque parte fa consideri!

        LEONARDO: Eh, sì, da una parte, almeno, per me…

        D’ALBIS: Su, dunque! Va’ subito a far pace con tuo suocero. Quello è capace d’impartirti anche la santa benedizione. Levagli di mano la valigia e spediscimelo dal Ruvo.

        LEONARDO: Tu scherzi, caro.

        D’ALBIS: E tu mi fai rabbia! Io ho contato su te!

        LEONARDO: Se non hai altro santo, amico mio…

        D’ALBIS: Ma perdio, pensa che ho pure fatto sacrifizii per te!

        LEONARDO: Credi, D’Albis, non posso. Le cose sono arrivate a tal punto, che non posso davvero.

        D’ALBIS: Vuoi che t’ajuti io? Che mi metta io di mezzo per la pace?

        LEONARDO: No, che! Impossibile.

        D’ALBIS: Oh va’ là! Non ho tempo da perdere coi matti! T’avverto intanto che… mi dispiace…

        LEONARDO: E va bene. Ho capito.

        D’ALBIS: Se hai il gusto di rovinarti! Ti porgo la mano, per tirarti su: la re­spingi!

        LEONARDO: Come devo dirti che non posso?

        D’ALBIS: E dunque, basta. Addio. Non ne parliamo più. Resta… resta pure. So la via. Addio.

        Leonardo, esausto, sfinito, accompagna automaticamente il D’Albis fino all’uscio in fondo; poi ritorna; s’avvicina alla scrivania, apre il cassetto, ne trae alcune carte. Entra Livia dall’uscio di sinistra.

        LEONARDO (quasi tra sé, stupito): Livia!

        LIVIA: Mio padre t’ha detto di rimanere?

        LEONARDO: Mi ha detto che partiva.

        LIVIA: Io vengo invece a dirti che, se a te non accomoda, puoi pure andare. Nessuno ti trattiene.

        LEONARDO: Sono venuto soltanto per raccogliere le mie carte.

        LIVIA: Non intendi quello che voglio dirti. La risoluzione di mio padre non deve parerti un invito a rimanere qua.

        LEONARDO: Tu non mi trattieni. Ho inteso. So che hai cercato anche d’impedire ch’egli s’intromettesse. E ho fatto anch’io di tutto, credi, per sfuggire alla di­scussione, alle sue domande che mi stringevano, mi torturavano; senza voler capire, per quanto io gli dicessi, che quella discussione non poteva condurre che a questo. Ma non capisco più perché egli parta, se tu sei venuta a dirmi che non mi trattieni.

        LIVIA: Parte appunto per questo, semplicemente perché gli ho fatto intendere ch’era inutile s’adoperasse a trattenerti qua in modo diverso di prima.

        LEONARDO: Ma dunque, se a te dispiace, per gli occhi del mondo, che io ab­bandoni la casa…

        LIVIA: No, no, ormai! L’hai già abbandonata…

        LEONARDO: Ma noi sono stato, sai? dove tu credi.

        LIVIA: Non m’importa di sapere dove sii stato. So che la tua casa è ormai al­trove.

        LEONARDO: La mia casa? Ma di’ soltanto che non può più esser questa, se credi ch’io faccia un sacrifizio o una concessione a rimanere. Io invece te lo dicevo anche per me.

        LIVIA: Ah, se è per te…

        LEONARDO: Perché… Io ti sono tanto grato, Livia, del modo con cui hai guar­dato e seguiti a guardare il mio errore, grato del silenzio che hai saputo im­porre al tuo sdegno.

        LIVIA: Ma non rimani, certo, col pensiero che io accetti la tua gratitudine?

        LEONARDO: Oh, no! Deve sembrar così poco a te, lo so, la mia gratitudine; ma è pur grande, credi, è la cosa più viva e più forte che io senta in questo mo­mento.

        LIVIA: E non temi neppure che possa offendermi?

        LEONARDO: No, no. Perché so che tu comprendi. Puoi disprezzarmi. Ma com­prendi perché sono così. È vero? Non puoi non comprenderlo, perché tu stessa mi vuoi così. Non è vero?

        LIVIA: Sì.

        LEONARDO: E ti par poco? Vorrei che tutti così mi disprezzassero, ma com­prendessero come te e mi lasciassero stare… così, come posso, come debbo, purtroppo… Di questo appunto ti sono grato. Ho inteso, sai? ho inteso il tuo grido…

        LIVIA: Che grido?

        LEONARDO: A tuo padre… là. Mi ha provato la commiserazione che senti per il mio castigo che dura, quando la colpa è finita. Io non ho casa, Livia! Là ho soltanto… tu lo sai…

        LIVIA: E come? Non ti basta?

        LEONARDO: Che dici? vuoi che mi basti? Come potrebbe bastarmi? Se tu sa­pessi…

        LIVIA: Credevo che non dovesse più importarti di nulla.

        LEONARDO: Ah, non è vero; non lo credi: tu lo sai che è il mio supplizio e che non può essere altrimenti.

        LIVIA: Tua figlia, il tuo supplizio? Ah, no, questo non lo comprendo davvero! E non comprendo anzi più niente, adesso, se puoi dire così.

        LEONARDO: Oh, Livia! Ma come? Se non ho più altro, io! Tutta la mia esi­stenza s’è ristretta là, in quella bambina. Dovrebbe compensarmi di tutto, è vero? Ma come? Se io stesso non posso esser lieto per lei… Lo capisci? d’a­verla messa al mondo… là… dove non posso abbandonarla, è vero?

        LIVIA: Va bene! Ma questo, se qualcuno ti dicesse d’abbandonarla!

        LEONARDO: Tu, no! Lo so, non me lo dici tu! Ma mia figlia non è qua, con te!

        LIVIA: E chi può volere, là dov’è tua figlia, che tu l’abbandoni?

        LEONARDO: Là? Che lo si voglia espressamente, no; ma che si creda che io finga, per stancar la pazienza, aggravando apposta le difficoltà che mi oppri­mono, con lo scopo d’uscirmene, questo sì. Ebbene: «Padrone! Perché no? Finiamola pure! Ecco la porta!». Capisci? Senza comprendere, come te, che io non posso. Magari potessi!

        LIVIA: Ti hanno dunque proposto d’abbandonare la bambina?

        LEONARDO: Ma sì! Tutto… Perché io ormai… che sono più io?

        LIVIA: Ma come potrebbe lei provvedere?

        LEONARDO: Oh! Il suo lavoro frutterebbe meglio del mio, dice. E può darsi, sai? può darsi che sia vero! Perché il mio non merita compenso… altro che di parole…

        LIVIA: Sarà forse perché vede mancare alla bambina…?

        LEONARDO: No. Sa, sa che io non invidio più neppure chi può attendere al pro­prio lavoro, al lavoro per cui è nato, di cui solo è capace, e ne abbia com­penso, tanto che basti a farlo vivere, anche male… M’arrabatto, fo di tutto, cerco di fare anche quello che non posso e non so fare… quello che mi ripu­gna… Ma, hai veduto? Oggi stesso, or ora, è venuto il D’Albis! «Addio, caro! Non c’è più posto per te!» Anche lui: «Alla porta!». Perché pretendeva che io mi servissi di suo padre, ora!

        LIVIA: Di mio padre.

        LEONARDO (smarrito nell’eccitazione): Oh, oh… io parlo con te… di queste cose… Perdonami! perdonami! Perdo la testa!

        LIVIA: E vuoi seguitare così?

        LEONARDO: Perdonami, perdonami… Come, altrimenti? Appunto perciò t’ho detto che è il mio supplizio.

        LIVIA: Ma se lei ha potuto proporti di abbandonare la figlia…

        LEONARDO: Sì. Ma come l’abbandono?

        LIVIA: Aspetta. Non ti dico d’abbandonarla. Lo sai. Voglio sapere se…

        LEONARDO: Livia? Tu mi perdoni?

        LIVIA: Aspetta, aspetta. Dimmi questo: Ti vuole… ti vuole bene, molto, la… la bambina?

        LEONARDO: Perché?

        LIVIA: Rispondi. Vuole più bene a te o alla madre?

        LEONARDO: Non so…

        LIVIA: Di più alla madre?

        LEONARDO: Sì, forse…

        LIVIA: Perché tu non le sei tanto vicino!

        LEONARDO: Certo, sì… per questo…

        LIVIA: Ma se potessi invece averla sempre con te…

        LEONARDO: Dove?

        LIVIA: Ma dico con te!

        LEONARDO: Se fosse nostra, dici? Ah, non me lo dire! Qua, alla luce… Come sarei felice! E lei, anche lei, la bambina…

        LIVIA: Ah, sì? Senza la madre?

        LEONARDO: No, dico, se fosse tua! Se fosse tua, Livia!

        LIVIA (oscurandosi e irrigidendosi come per un brivido spasimoso): Potrei… sì, potrei anch’io volerle bene…

        LEONARDO: Perché tu sei buona, lo so! tanto… tanto… Oh Livia… Tu mi hai perdonato, è vero? Mi perdoni?

        LIVIA: Sì… zitto… dimmi… dimmi…

        LEONARDO: Quanto t’ho fatto soffrire! E ancora… Ma non ho potuto esaurire la tua bontà…

        LIVIA: Basta, basta… ti prego… dimmi…

        LEONARDO (seguitando, con foga): Mi raccogli dall’abisso in cui sono caduto, per ricondurmi qua, presso te, buona, come a un rifugio di pace. Oh, Livia, e qua, anch’io, come te, l’ho desiderata, sai, l’ho immaginata… l’ho sognata tante volte qua, nella nostra casa… e che strazio!

        LIVIA (con un che di felino involontario, quasi per accendere di più lo strazio di lui e illuminare il suo): È bella?

        LEONARDO: Sì, tanto…

        LIVIA: Come si chiama?

        LEONARDO: Dina.

        LIVIA: Parla?

        LEONARDO: Parla, sì…

        LIVIA: È bionda, è vero? Me la immagino bionda…

        LEONARDO: Sì, sì, bionda… una testolina d’oro…

        LIVIA (si torce all’ improvviso quasi spremendosi, dentro, il cuore): Ah nostra! (E si copre il volto con le mani.)

        LEONARDO (con impeto): No, no… Povera Livia! È troppo, è troppo crudele… Perdonami… perdonami. (L’abbraccia, le carezza i capelli, appassionata­mente.)

        LIVIA (sentendosi mancare sotto la carezza, ma dominandosi a un tratto e quasi irrigidendosi imperiosa): Qua tu non puoi più rimanere, ora. Seguita la concitazione d’entrambi per tutta la scena, rapidissima fino alla fine.

        LEONARDO (vinto, ebbro dalla passione): No? Perché?

        LIVIA: Non voglio, non voglio.

        LEONARDO: Ma non mi hai perdonato?

        LIVIA: Sì, sì, ma ora devi andare… via! via!

        LEONARDO: Non mi vuoi? non mi vuoi? Perché?

        LIVIA: No, no… Leonardo, va’! Qua tu non puoi più rimanere come prima.

        LEONARDO: Se tu mi hai veramente perdonato…

        LIVIA: Proprio per questo… Va’…

        LEONARDO: Ma io ti giuro, Livia…

        LIVIA (forte, staccatamente): No! Due case, no! Io qua e tua figlia là, no!

        LEONARDO: E allora?

        LIVIA: Allora… chi sa! Lasciami.

        LEONARDO: Ma che pensi? Che vuoi dirmi?

        LIVIA: Lasciami per ora… Vattene!

        LEONARDO: Ma io non posso, se tu non mi dici…

        LIVIA: Non posso dirti nulla. Ti dico soltanto: Vattene, per ora… Lasciami pen­sare. So quello che tu desideri…

        LEONARDO: Te! te! Non desidero che te, Livia! Non desidero più altro che te!

        LIVIA: Come? E tua figlia?

        LEONARDO: No, te! te, soltanto!

        LIVIA: Lasciami… basta… no… te ne scongiuro, Leonardo! Basta. (Svincolan­dosi.)

        LEONARDO: Neanche il segno del tuo perdono?

        LIVIA: No. Addio! (Gliporge la mano.)

        LEONARDO: Così?

        LIVIA: Sì. Basta. Te ne prego… te ne prego…

        LEONARDO: Io non t’intendo…

        LIVIA: Devi intenderlo. Così, né tu né io possiamo ora rimanere, è vero?

        LEONARDO: E come, allora? Dimmelo!

        LIVIA: Chi sa! Lasciami riflettere… Addio! (Leonardo le bacia forte, a lungo, la mano; poi le chiede con gli occhi un altro bacio. Livia risolutamente:) No. Va’, va’…

        Leonardo esce. Livia, appena sola, alza il volto raggiante; ma subito dopo, vinta dall’intensa commozione, si nasconde il volto con le mani, cade a se­dere, scoppia in pianto.

Tela

1915 – La ragione degli altri – Commedia in tre atti
Premessa
Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo

En Español – La rázon de los demás

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