La ragione degli altri – Personaggi, Atto primo

Premessa
Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo

En Español – La rázon de los demás

Personaggi
Livia Arciani
Elena Orgera
Leonardo Arciani
Guglielmo Groa
Cesare D’Albis
Ducci
Un Uscere
Una Cameriera
Un Tipografo

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La ragione degli altri - Atto I
Lina Sastri, Remo Girone, La ragione degli altri, 1985. Fermo immagine video RAI.

1915
La ragione degli altri
Atto Primo

        Sala di redazione del giornale politico quotidiano La Lotta. Uscio comune in fondo, che dà su un corridojo. Due scrivanie, disposte lateralmente, quasi di fronte. Un tavolino in mezzo, ingombro di giornali. Due vetrine; scaffali; un canapè; poltrone; seggiole. Alle pareti un orologio, un manifesto illustrato del giornale La Lotta; altri avvisi, ecc.

        Al levarsi della tela, la scena è vuota. Poco dopo s’apre l’uscio e Cesare D’Albis mostra dalla soglia la stanza vuota a Livia Arciani.

        D’ALBIS: Ecco, vedete? non c’è. Prego. (Lascia passare Livia:) Non c’è dav­vero.

        LIVIA: Ma sì, lo credo… lo vedo.

        D’ALBIS: No, scusate: insisto; ho voluto darvi la prova, perché non abbiate a sospettare.

        LIVIA: Ma io non sospetto. Per me, può ricevere chi gli pare e piace.

        D’ALBIS: No, no! Al contrario! Ordine espresso, signora mia, di non introdurre mai nessuno.

        LIVIA: E… posso aspettarlo qua?

        D’ALBIS: Ah! Volete… volete aspettarlo?

        LIVIA: No, se non posso.

        D’ALBIS: Ma sì… perché no? Sì, che potete. Oh bella! oh bella! Voi diffidate.

        LIVIA: Non diffido nient’affatto. Vedo che qua ci sono due scrivanie. Non vor­rei incomodare.

        D’ALBIS: Ma se non c’è nessuno! E poi, che dite incomodare? Voi non potete incomodare. È una fortuna! Non vi si vede mai! Siete… siete la donna del mi­stero…

        LIVIA: Uorsa, già.

        D’ALBIS (sorpreso, sconcertato): No… che!

        LIVIA: So che mi si chiama così. E non me ne importa. Son orsa davvero. Lo dico perché lei… (Si corregge:) Voi… non so…

        D’ALBIS (sorpreso, sconcertato): Vi chiedo scusa, se…

        LIVIA: Ma no, che scusa? Siccome voi, m’è parso, cercavate di tradurre gen­tilmente l’espressione… Ditemi pure orsa.

        D’ALBIS: Senza nessun mistero?

        LIVIA: Ma sì, senza nessun mistero.

        D’ALBIS: Impossibile. Orsa, con codesti occhi, impossibile, senza che ci sia sotto, ben covato, un mistero.

        LIVIA: Se lo dite voi…

        D’ALBIS: Lo sanno tutti.

        LIVIA: Ah sì? E che mistero allora? Curioso però che tutti saprebbero in me una cosa, che io non so.

        D’ALBIS: Curioso? Che gli altri vedano in noi quello che noi non vediamo? Ma questo avviene sempre! Io non mi vedo, e voi mi vedete. Non possiamo uscire fuori di noi, per vederci come gli altri ci vedono. E più viviamo assorti dentro, in noi stessi, e meno ci accorgiamo di quel che appare di fuori.

        LIVIA: Oh Dio mio, e che appare in me?

        D’ALBIS: Vedo i vostri occhi. E vedo che siete venuta qua.

        LIVIA: Ma ve l’ho detto perché sono venuta; non c’è nessun mistero: so che deve venire qua mio padre e sono venuta a prevenirne mio marito. Sospettate voi, invece, che ci sia sotto un’altra ragione misteriosa.

        D’ALBIS: Ma la vostra impazienza, io la vedo, voi non la vedete.

        LIVIA: Perché non so come fare adesso… Potessi almeno incontrare mio padre…

        D’ALBIS: Ritornerà presto, credo, Leonardo. Deve essere in tipografia. Aspetta­telo. Ma favorite, meglio, in salotto. Dico salotto, per modo di dire. Siamo per ora qua in un attendamento provvisorio. Ma starete almeno un po’ meglio. Venite.

        LIVIA: No, grazie. Sarà meglio che gli lasci un biglietto. Chi sa quando verrà… Ritornerò più tardi, se mai. Ora gli scrivo.

        D’ALBIS: Fate come vi piace.

        LIVIA: E nel caso che mio padre venisse prima di lui?

        D’ALBIS: Lo riceverei, io. Avrò molto piacere di conoscerlo. So che è molto amico dell’onorevole Ruvo. Anzi avevo pregato Leonardo di condurlo qua, qualche giorno…

        LIVIA: Sarà qui tra poco certamente. Ma se il vostro uscere, avete detto, ha l’ordine così rigoroso di non introdurre mai nessuno?

        D’ALBIS: Oh, l’avvertiremo subito, il nostro Cerbero, non dubitate. Ecco. (Suona il campanello elettrico alla parete.) Vi assicuro che è un ordine ne­cessario, per la salute, di quel pover’uomo di vostro marito, dacché voi siete per lui… permettete?

        LIVIA: Dite, dite pure.

        D’ALBIS: Crudele.

        LIVIA: Ah sì? Io, crudele? E chi ve l’ha detto?

        D’ALBIS: I suoi debiti! Ah, lo strillano ai quattro venti, sapete!

        LIVIA (andando a sedere innanzi a una delle scrivanie): E che c’entro io nei suoi debiti? Vi assicuro che non c’entro affatto.

        D’ALBIS: Lo so. Ma via, dovreste perdonare… Perché in fin dei conti…

        LIVIA (indicando le cartelle su la scrivania): Posso scrivere qua?

        D’ALBIS: Spero che non vi siate offesa di nuovo.

        LIVIA: Oh, per così poco…

        D’ALBIS: Ah, no: sono molti. Crivellato. Aspettate: dove scrivete?

        LIVIA: Non fa nulla: due parole: posso scriverle anche qua.

        D’ALBIS: Ma no! Aspettate: vi farò dare un foglietto da lettere. Perdio, ho so­nato… (Risuona. Si sente picchiare all’uscio.) Avanti! Entra l’uscere.

        LIVIA: Scrivo qua: fa lo stesso. Una busta piuttosto.

        D’ALBIS (all’uscere): Carta e buste, presto. (L’uscere via. D’Albis a Livia che scrive:) Volete scrivere lì… Qua non c’è mai niente. Dove passa Arciani, la tempesta! Sto pensando però, sapete?, che a rigor di termini non avrei dovuto far passare neanche voi.

        LIVIA (sospende di scrivere e lo guarda, senza avere inteso bene): Neanche me? Come?

        D’ALBIS: Sì, perché la disposizione, veramente, è questa: Porta chiusa per tutti i creditori. Ora, siccome voi, senza dubbio…

        LIVIA (riabbassa il capo e si rimette a scrivere): V’ingannate.

        D’ALBIS: Non deve nulla a voi, vostro marito? (Livia fa cenno di no col capo.) Miracolo! Ma vi chiedo licenza di non crederci. L’uscere rientra.

        L’USCERE (porgendo al D’Albis carta e buste): Ecco.

        D’ALBIS (porgendole a Livia): Voilà. (Poi all’uscere:) Bada: più tardi ritornerà la signora. Verrà pure un signore…

        LIVIA (chiudendo la lettera nella busta): Vecchio… piuttosto grasso… con fe­dine bianche…

        D’ALBIS: Il signor…

        LIVIA: Guglielmo Groa.

        D’ALBIS: Groa. Tieni bene a mente. Lo lascerai passare. E basta, tu lo sai.

        L’USCERE: È venuta pure, poco fa, quella signora… Livia solleva appena il capo mentre scrive l’indirizzo su la busta.

        D’ALBIS (contrariato): Ma che signora? Ma quando?

        L’USCERE: Sissignore, poco fa. Ha detto che deve ritornare.

        D’ALBIS: Ma sarà per il giornale! Ho capito. Va bene. Vattene… (L’uscere via.) Qualche pittrice che ha esposto; o qualche brava donna che vuol vendere un quadro di famiglia… Sapete che vostro marito, oltre il critico d’arte qua, fa pure… s’adopera con gli antiquarii o col Ministero…

        LIVIA: Mi date spiegazioni, che non v’ho richieste.

        D’ALBIS: Sì; perché voglio arrivare a una domanda un po’ indiscreta.

        LIVIA (levandosi dalla scrivania con la lettera in mano): La lascio qua?

        D’ALBIS: No: la sua scrivania è quella. Datela a me. Ecco: la mettiamo qua, bene in vista. (Osservando la busta:) Che calligrafia!

        LIVIA: Oh sì! Raspatura di gallina.

        D’ALBIS: No. Forte, piena di… d’intenzione. E si vede: risponde a voi perfettamente. Mettiamola qua.

        LIVIA: Io allora vado?

        D’ALBIS: Come! E la domanda? Non permettete?

        LIVIA: Dovrei andare veramente…

        D’ALBIS: Breve breve. Aspettate. (Le si accosta; poi, piano, in tono confiden­ziale: ) È proprio vero che non siete gelosa? Eh, vi fate pallida… E anche poco fa…

        LIVIA (seria): Ma nient’affatto! Calmissima. Avete detto voi stesso che non sono venuta mai qua. E non sono mai andata appresso a mio marito.

        D’ALBIS: E allora, scusate, vostro marito è uno sciocco! E appena viene, gl’insegno ciò che appresi un giorno da un mastino.

        LIVIA: Ah, mi congratulo.

        D’ALBIS: Le bestie? Che dite! I maestri migliori. Era legato, poveretto, alla ca­tena confitta per terra, presso la cuccia. Ma esso se la… se la passeggiava, di­ciamo così, magnificamente, per quanto era lunga la catena, badando a voltarsi prima ch’essa gli desse la stratta al collo. Così non la sentiva, libero e contento nella sua schiavitù.

        LIVIA: Sarei io, la catena?

        D’ALBIS: Quel tanto di libertà che gli concedete. Catena lunga abbastanza, pare. Mi sembra però che lui non se la porti a spasso bene o almeno con la filoso­fia di quella bestia intelligente. O forse la filosofia… Toglietemi un dubbio. S’è interdetto da sé, Leonardo?

        LIVIA: Come sarebbe «interdetto»? Non capisco.

        D’ALBIS: Dev’essersi impazzito… Vuole sul serio pagarsi i debiti (;’ suoi proprii, s’intende!) facendo il giornalista? Sarebbe da ridere, se non fosse un peccato. Perché, lasciamo andare, via: parliamo sul serio: Arciani è… è un artista. Se­guitando così… Già non fa più nulla da un pezzo! L’Incredula, per bacco, ha certe pagine… Vi ricordate?

        LIVIA: Io non l’ho letta.

        D’ALBIS: Come come? Non avete letto il romanzo di vostro marito? Ah! quest’è bella!

        LIVIA: Ma so che voi ne avete detto molto male.

        D’ALBIS: Non vuol dire. Questo non vuol dire. Avevo anch’io allora la malin­conia d’appartenere a quella… – sapete come un imperatore chiamava i lette­rati? – «categoria d’oziosi che per professione spargono il malumore tra la gente». Verissimo! Io, per professione, scrivevo male di tutto e di tutti. E m’ero fatto un bel nome, sapete? Peccato, bei tempi! Ora, tanto io che vostro marito, per l’arte, morti e sepolti. Voi però, coi vostri denari e con un po’ d’indulgenza, perdonando, vostro marito dovreste risuscitarlo. Sì, sì, e levar­melo dai piedi, per carità! Scriva versi, scriva romanzi! Il giornalista, vi assi­curo, lo fa pessimamente! Si rovina lui, rovina il fegato a me… Ma voi volete andare.

        LIVIA: Sì, ecco… devo andare.

        D’ALBIS: V’ho trattenuta in piedi tutto questo tempo… Colpa vostra, pote­vamo…

        LIVIA: Ritornerò più tardi. Mi raccomando il biglietto.

        D’ALBIS: Non dubitate. V’accompagno.

        Fanno per uscire. Entra un tipografo con un rotolo di bozze in mano. D’Albis al tipografo: Si entra così?

        IL TIPOGRAFO: L’uscere non c’era. Non c’è nessuno…

        D’ALBIS: Le bozze impaginate?

        IL TIPOGRAFO: Sissignore. Eccole.

        D’ALBIS: Ecco, vengo subito. (A Livia:) Scusate.

        La lascia passare avanti, e via con lei. Il tipografo svolge il rotolo delle bozze e le stende su la scrivania. Ritorna, poco dopo, il D’Albis. Sono tutte?

        IL TIPOGRAFO: Seconda e terza pagina. Per il corridoio si vede passare, attraverso l’uscio aperto, il Ducei.

        D’ALBIS (chiamando): Pss! Ducei! Ducei!

        DUCCI (tornando indietro e affacciandosi all’uscio): Eh?

        D’ALBIS: Vieni, eh? Tu dici eh? Qui c’è la seconda e la terza, da rivedere.

        DUCCI: Ma io non posso; scusa. Sono le quattro. Devo essere alla Camera: m’aspetta Bersi. M’ha detto che non può trattenersi alla tribuna dopo le quat­tro e un quarto.

        D’ALBIS: Bella, perdio! Mi piace! Tu devi andare, Livi non c’è, Arciani non viene; qui non ci sta più nessuno; e mi tocca di rivedere a me le bozze? Neanche l’uscere c’è… Che fa? Dove se ne va, quello stupido? Ma sai che per poco qui non mi faceva nascere… Hai visto chi è stata qui?

        DUCCI: No, non ho visto nessuno.

        D’ALBIS (si alza dalla scrivania e viene avanti col Ducei, poi, in gran mistero, sicuro della sorpresa): La moglie d’Arciani.

        DUCCI: Uh! l’Orsa?

        D’ALBIS: Zitto, che lo sa!

        DUCCI: Che sa?

        D’ALBIS: Che la chiamiamo l’Orsa. Me l’ha detto lei stessa.

        DUCCI: Oh va’!

        D’ALBIS: Mi sono divertito un mondo a farla stizzire. Ma non è mica una sciocca, sai? Tutt’altro. E ha un certo… un certo sapore, quella donnina…

        DUCCI: Sì, di legno quassio. Buono per le mosche.

        D’ALBIS: No no, forte! (Prende la lettera di Livia dalla scrivania.) Guarda qua che scrittura. Piena… piena d’intenzione. Non ti pare?

        DUCCI (guarda, poi): Di mala intenzione, direi.

        D’ALBIS: Non l’ha voluto dire. Ma certo è venuta per sorprendere il marito. E per poco non c’è riuscita, perché pare che l’altra sia venuta poco prima. Chiamo l’uscere per un po’ di carta; e quell’imbecille glielo dice…

        DUCCI: Come! Le ha detto?

        D’ALBIS: Non ha fatto il nome. Ha detto, rivolgendosi a me; «Quella signora»; soggiungendo che era venuta e che doveva ritornare.

        DUCCI: Perdio! E lei?

        D’ALBIS: Niente. Impassibile, lo ho cercato di rimediare. Ma lei dice che non è mai andata appresso a suo marito.

        DUCCI: E si vede! È venuta qua…

        D’ALBIS: Ah, per prevenirlo di non so che cosa, ha detto. Gli ha lasciato questa lettera… Ma appena viene Arciani, oh! io glielo dico: – Non voglio di que­st’impicci qua. Fuori! fuori! qua, niente! – Quella è una donnetta, caro mio… con quel pajo d’occhi… fredda… dura…

        DUCCI: Basta. Io scappo. Vado a liberare Bersi.

        D’ALBIS: Oh, ritorna, appena finito il discorso del Ruvo, presto; voglio sapere l’impressione.

        DUCCI: Sì, sì, a rivederci.

        Via per l’uscio infondo. Il D’Albis ritorna alla scrivania, vi posa la lettera al posto di prima.

        D’ALBIS: Le prime bozze?

        IL TIPOGRAFO: Eccole qua.

        D’ALBIS (prendendo in mano alcune cartelle manoscritte): E queste?

        IL TIPOGRAFO: È il manoscritto.

        D’ALBIS: Di chi? Che vuol dire?

        IL TIPOGRAFO: Dice il proto che l’ha corretto.

        D’ALBIS: Arciani?

        IL TIPOGRAFO: Nossignore; il proto. Il signor Arciani non s’è fatto vedere.

        D’ALBIS: Neanche in tipografia?

        IL TIPOGRAFO: Nossignore.

        D’ALBIS (con ira buttando all’aria le cartelle manoscritte e levandosi dalla scrivania): Perdio, pretende pure ch’io mi metta adesso a correggere le sue baggianate?

        IL TIPOGRAFO (raccogliendo da terra le cartelle): Aveva detto che sarebbe ri­tornato…

        D’ALBIS: E come s’arrischia il proto a impaginare le bozze non corrette?

        IL TIPOGRAFO: Per fare a tempo…

        D’ALBIS (ritornando alla scrivania): Da’ qua. Dov’è?

        IL TIPOGRAFO: Eccolo. Però, qua… guardi, in seconda pagina… aspetti. Nel ma­noscritto…

        D’ALBIS: Che altro c’è?

        IL TIPOGRAFO: No… Tutto corretto bene. C’è solo un punto… è segnato col lapis nel manoscritto… ecco, lì, sissignore… la quinta cartella… Non lega bene. Sopravviene, ansante, Leonardo Arciani.

        LEONARDO: Eccomi qua. Le bozze?

        D’ALBIS: A quest’ora?

        LEONARDO: Da’ qua, da’ qua. Credevo di fare a tempo. Lascia, mi sbrigo su­bito.

        D’ALBIS (esaminando le cartelle): Ma che pasticcio è questo? Che c’entrano qua queste due cartelle?

        LEONARDO: Fa’ vedere! (Leggendo:) «Il pomo d’onice dell’ombrellino, cer­chiato d’oro, nelle mani di donna Maria…». (Scoppia a ridere.)

        D’ALBIS: Che diavolo hai fatto?

        LEONARDO: Le hanno composte? Sono due cartelle del romanzo che avevo perdute. Senti, senti come fa bene. (Legge le bozze di stampa:) «Il Seicento invece finisce con eguale esuberanza in tutta la penisola e produce il pomo d’onice dell’ombrellino, cerchiato d’oro, nelle mani di donna Maria…». (Scoppia di nuovo a ridere.)

        D’ALBIS: Ah, ti ci diverti, per giunta?

        LEONARDO: Ma sì… senti…

        D’ALBIS: Finiscila, perdio! Non ho tempo per codeste stupidaggini!

        LEONARDO (indicando il tipografo): Ma stupidi loro, vuoi dire!

        IL TIPOGRAFO: Ma noi, scusi…

        LEONARDO: Voi che cosa? Già prima di tutto potevate bene aspettarmi un mi­nuto: vengo di corsa dalla tipografia.

        D’ALBIS: Te la pigli con loro, anche?

        LEONARDO: Ma ci vuol tanto ad accorgersi che queste due cartelle non c’en­trano?

        D’ALBIS (adirandosi): Tu, tu, tu, mio caro, non c’entri più qua! E io sono stufo! E te l’ho detto! Incolpi gli altri? Chi l’ha cacciate dentro l’articolo queste? (Mostra le cartelle.)

        LEONARDO: Piano, ti prego. Sono del romanzo, t’ho detto.

        D’ALBIS: E te lo scrivi qua, il romanzo?

        LEONARDO: Anche per istrada, dietro le spalle della gente che passeggia. Debbo consegnarlo fra otto giorni.

        D’ALBIS: E che vuoi che me n’importi?

        LEONARDO: Ma importa a me, se permetti! (Siede alla scrivania.)

        D’ALBIS: Che fai adesso?

        LEONARDO: Taglio le due cartelle.

        D’ALBIS: Col giornale impaginato?

        LEONARDO: Saranno una ventina di righe: allungherò l’articolo! Ne stai fa­cendo un caso pontificale!

        D’ALBIS: Ma perché voglio che questa sera si esca prima del solito, appena fi­nita la discussione alla Camera!

        LEONARDO (che s’è già messo a scrivere): Va bene, vattene! (Al tipografo:) Via anche tu. Mi sbrigo in due minuti.

        D’ALBIS (s’avvia, poi voltandosi): Oh, è venuta tua moglie.

        LEONARDO (stupito): Qua?

        D’ALBIS: Qua, è venuta qua. Anzi, poi debbo parlarti. Vedi che ha lasciato lì un biglietto…

        LEONARDO: Per me?

        D’ALBIS: Mi farai la grazia di leggerlo dopo. Aspettiamo te.

        LEONARDO: Eccomi, sì, eccomi! Due minuti…

        Via D’Albis e il tipografo. Leonardo si rimette a scrivere, ma, inquieto, guarda ogni tanto la lettera della moglie. Alla fine, non sapendo più resistere alla tentazione, la prende, lacera la busta, legge. Dopo aver letto, sta un po’ assorto, fosco, poi scuote il capo rabbiosamente, si passa una mano su la fronte e sul capo, e si raccoglie con violento sforzo a pensare, a scri­vere. Due colpettini all’uscio. Leonardo grida:

        Un momento! (L’uscere si mostra all’uscio.) Eh, perdio! Non sono una mac­china!

        L’USCERE: No, sa? volevo dirle che c’è…

        LEONARDO: Ho da fare. Non ricevo nessuno.

        L’USCERE (piano): La signora Orgera.

        LEONARDO: Adesso? Qua?

        L’USCERE: Era venuta circa un’ora fa…

        LEONARDO: Ma non è possibile, adesso! (Dopo aver riflettuto un po’:) Senti: chiunque venga a cercarmi…

        L’USCERE: Deve venire…

        LEONARDO: Lo so. Fa’ entrare in salotto.

        L’USCERE: Sissignore.

        LEONARDO: Intanto… (Fa cenno di far passare la Orgera.)

        L’USCERE (sporgendo il capo dall’uscio e parlando nell’interno): Venga avanti, signora. (Entra Elena Orgera. L’uscere si ritira, richiudendo l’uscio.)

        LEONARDO (seguitando a scrivere): Un momento, ti prego. (Prende di su la scrivania la lettera della moglie e gliela porge.) Leggi. (Si rimette a scri­vere.)

        ELENA (legge con gli occhi soltanto, poi guarda con aria di sdegnosa commi­serazione Leonardo che scrive): Me ne vado subito.

        LEONARDO: T’ho pregata, scongiurata di non venire a trovarmi qua.

        ELENA: Ma dove allora? Io non lo so più! Se da una settimana non ti fai ve­dere?

        LEONARDO: Hai letto?

        ELENA: Ma ho da parlarti anch’io!

        LEONARDO (cercando di farla tacere): So, so…

        ELENA (seguitando): – Non son venuta per il piacere di vederti.

        LEONARDO: Ti prego… Sto per terminare.

        ELENA (dopo aver di nuovo scorso con gli occhi il biglietto di Livia, dice, ve­nendo a posarlo su la scrivania): Dunque il vecchio comincia a sospettare; e lei, (sillabando:) generosamente te ne previene.. Cerca, poverina, di rispar­miarti noje e dispiaceri, lo invece…

        LEONARDO (seccamente): – Tu non la conosci.

        ELENA: Ammirevole! Dico che è ammirevole!

        LEONARDO: Non lo fa né per me, né per te.

        ELENA: Per suo padre? Ammirevole lo stesso!

        LEONARDO (raccogliendo le bozze e le altre carte di su la scrivania): Ecco fatto. (Si alza. Preme il campanello alla parete.) Sarei venuto, sai?, a qualun­que costo in giornata. (Si mette a leggere in fretta quel che ha scritto.)

        ELENA: Non stare a credere, ti dico, che mi prema che tu venga, se a te non preme. Vorrei solo…

        Leonardo le fa cenno con la mano d’aspettare un po’ in silenzio, e seguita a leggere. Si sente picchiare all’uscio.

        LEONARDO: Avanti. (L’uscere entra. Porgendogli le carte:) Ecco, al tipografo. (L’uscere via): Oh, dunque… Non mi è stato proprio possibile. Già te l’ho scritto.

        ELENA: Si tratterrà ancora molto?

        LEONARDO: Il padre? E chi lo sa? È venuto non so per che affare. Forse è una scusa. Sospetto che qualcuno…

        ELENA: Ma lei stessa!

        LEONARDO: No, no. Ma che! Scusa, se è venuta qua, a prevenirmi…

        ELENA: Politica. Come sei ingenuo!

        LEONARDO: Se avesse voluto rivolgersi al padre, lo avrebbe fatto da un pezzo, apertamente. Chi avrebbe potuto impedirglielo? E poi, perché fingere con me?

        ELENA: Ma che impegno, io non capisco… che interesse può avere a star zitta così, che il padre non sappia, non s’accorga di nulla?…

        LEONARDO: Che interesse? Prima di tutto, l’orgoglio!

        ELENA: Anche di fronte al padre, l’orgoglio?

        LEONARDO: Il certo è questo: che il giorno dopo l’arrivo di lui, ella che da più d’un anno non m’aveva rivolto la parola…

        ELENA: Ah! T’ha parlato? S’è rotto il ghiaccio? Di’… di’…

        LEONARDO: È entrata nel mio studio per dirmi solamente che avessi saputo fin­gere almeno pei pochi giorni che suo padre si sarebbe trattenuto in casa no­stra.

        ELENA: Facilissimo!

        LEONARDO: Che cosa?

        ELENA: Per te, fingere. Adesso capisco! E non t’ha detto altro?

        LEONARDO: Nient’altro.

        ELENA: Fredda, è vero?, impassibile, sublime! (Scoppia a ridere.)

        LEONARDO: Non mi pare che ci sia da deriderla per questo.

        ELENA: No, che! Ti pare? Me ne guarderei bene. Dico che è sublime!

        LEONARDO: Ne ho poche, secondo te, noje, amarezze? Dovrei io stesso procu­rarmene altre?

        ELENA: Eh no, eh no…

        LEONARDO: Almeno di questo, mi sembra, dovremmo esserle grati, per qualun­que ragione lo faccia.

        ELENA: Ah, ah, ah… Suole avvenire, caro… suole avvenire!

        LEONARDO: Che cosa?

        ELENA: Niente. Lo so io! Bada, non me n’importa… Vorrei soltanto che tu avessi la franchezza di dirmelo. Tutto, tutto, tranne la finzione, lo sai. Fingere, no! Non posso soffrirlo.

        LEONARDO: Ma che c’entra? Che dovrei dirti?

        ELENA: Oramai! Che vuoi più?… Vecchia! E poi… (Pausa tenuta.)

        LEONARDO (seguitando ad alta voce il proprio pensiero): Proprio in questo momento! Ho fatto di tutto… Ma possibile! Per quanti sforzi si facciano, nella condizione in cui mi trovo… Senza dubbio, però, qualcuno, ripeto, ha dovuto scrivergli laggiù… Sono oppresso dalla sua sorveglianza… non ne posso più! Credo che mi faccia finanche spiare, capisci? Non sono venuto per questo.

        ELENA: E m’hai fatto un piacere. Sai perché sono venuta io? Jeri è tornato quello della casa.

        LEONARDO: Daccapo?

        ELENA: E ritornerà oggi. Volevo dargli un acconto dalla mia pensioncina. Niente! «Tutto, subito, o via!» Senza cerimonie.

        LEONARDO: Va bene, va bene; aspetta che gli parli io, a questo signore.

        ELENA: Inutile. Ha parlato chiaro. Non vuole più aspettare.

        LEONARDO: Aspetterà, perdio! Gli hai detto che io debbo avere –

        ELENA: – dal romanzo? Già! Per farlo ridere…

        LEONARDO: Non c’era bisogno che gli parlassi del romanzo o d’altro: sono quattrocento lire che mi saranno pagate fra otto giorni, alla consegna del ma­noscritto. Se potrò consegnarlo… sta’ a vedere! Non trovo più né modo ne tempo di scrivere…

        ELENA: E dunque?

        LEONARDO: Ma un po’ di pace! Un momento di requie! Qua, lo sai, per questo mese non posso più chiedere nulla. Che consegnerò fra otto giorni? E non so come fare – questo è il peggio – dove batter la testa… Non resisto più!

        ELENA: Da un pezzo, eh! Cominci a comprenderlo soltanto ora, tu? (Sorgendo in piedi con un profondo sospiro:) Ma quando non se ne può più, sai, basta, si dice. Neanch’io resisto più a vederti così.

        LEONARDO (freddamente): Neanche tu… E poi?

        ELENA: Ma ti pare possibile seguitare così? Scusa, ti pare possibile!

        LEONARDO: Il male è appunto questo, cara: che deve essere possibile. Ti pare che ci vorrebbe tanto a svoltare tu di qua, io di là? Sarebbe comodo; ma non possiamo, né io né tu.

        ELENA: Perché, scusa? Se io ti lascio libero…

        LEONARDO: Libero? Come mi lasci libero?

        ELENA: Ma di tornartene in pace con tua moglie!

        LEONARDO (con forza): Tu non la conosci!

        ELENA: Ma se già t’ha parlato… se è venuta qua, finanche, a cercarti…

        LEONARDO (dopo averla guardata con sdegno): Fingi tu, adesso, di non capire.

        ELENA: Che cosa? Che tua moglie vuole che noi stiamo uniti? Debbo capir questo?

        LEONARDO: Questo, questo, sì; e tu lo sai bene! Qua, qua, alla catena, dob­biamo stare! E non giova disperarsi. Lo dico anche a me, sai? Se occorre, anzi, bisogna ridere… ma sì! come rido io, tante volte. Non m’hai sentito ri­dere? Vuoi vedere come rido? Ma so fare anche il buffone! Tant’altre volte, pazienza! Bisogna pure che mi lagni… Stretto, oppresso, soffocato così, punto da tutte le parti, vuoi che non dica neppure ahi? Basta, no; basta, no; sai bene che non posso dirlo basta.

        ELENA: Ma io lo dico per te, dopo tutto. Non per me.

        LEONARDO: Grazie, cara. Non ci pensare. Lo direi anch’io per te; ma non lo possiamo né io né tu. Dunque, è inutile parlarne. Sei stanca? Ti compiango, sinceramente. Perché io, per mia disgrazia, ho occhi anche per gli altri… vedo la vita che fai… purtroppo…

        ELENA: Meno male!

        LEONARDO: Ah, io sì. E capisco che non si può avere compatimento per gli altri, quando abbiamo troppo da soffrire per noi stessi. Se mi lagno è perché non riesco a strappare questa rete di difficoltà che m’avviluppa da tutte le parti e mi toglie il respiro! Eppure vedi, a me, fra tutto questo inferno, non è mai venuto in mente di potermene uscire… Sono disposto, anzi, se quel vec­chio imbecille ha la cattiva ispirazione di darmi in questo momento altre noje… Si ode in questo momento la voce del Ducei gridar forte dall’interno.

        DUCCI: Sì, sì… Viva Ruvo! Tra poco! (Apre di furia l’uscio e, d’improvviso, s’arresta.) Oh, scusa… Sta’, sta’… prego… vado di là… Solo, con permesso… (Prende dalla scrivania alcune carte.) Ecco… (Avviandosi, piano a Leo­nardo:) C’è in salotto…

        LEONARDO: Grazie, lo so… Ducci s’inchina a Elena, e via richiudendo l’uscio.

        ELENA: Me ne vado.

        LEONARDO: Sì, sarà meglio. E già qui. Non dubitare, verrò prima di sera, im­mancabilmente.

        ELENA: T’aspetto, dunque. Credi che è necessario. Non vuol più aspettare.

        LEONARDO: Verrò, verrò, non dubitare. Addio. (Elena via. Leonardo rimane un po’ su la soglia dell’uscio. Gli s’avvicina dal corridoio interno l’uscere.)

        L’USCERE: Faccio entrare?

        LEONARDO: Sì.

        Attende un po’ sulla soglia, poi, all’appressarsi di Guglielmo Groa e del D’Albis, che conversano fra loro, viene ad appoggiarsi alla scrivania.

        GUGLIELMO: Io, caro signore, povero provinciale, sono allocchito, ecco, proprio allocchito! Cose grandi a Roma, cose grandi! E anche lui, Nitto Ruvo è diventato grande… Ma, per me, se vuol essere chiamato, si chiama sempre Nitto… (Salutando Leonardo:) Caro genero!

        D’ALBIS (sorridendo): Come? come? Nitto?

        GUGLIELMO: Sissignore. Benedetto, Nitto: noi, laggiù, diciamo Nitto. Compagni di scuola, si figuri. Ma a un certo punto, io, impastato di creta, mi accorsi che se volevo restare uomo giudizioso, dovevo chiudere i libri. Li chiusi. Scrivo, come dice mio genero, privilegio con due g, è vero, ma la testa, signor mio, un orologio! Nitto Ruvo invece continuò a studiare, e, povero infelice, ecco qua che lo stanno facendo ministro.

        D’ALBIS (scoppia a ridere): Oh bella! bella! Per lei è un povero infelice?

        GUGLIELMO: Lo stanno facendo ministro… Muore male, glielo dico io. Ma amico, sa! amico mio! amicone… Non ne dico male!

        D’ALBIS: Eh, lo so che è amico suo. Il Ruvo mi ha parlato bene di lei.

        GUGLIELMO: Ah, lui parla bene, lo so! Parola facile, elegante… A sentirlo, pare che, come niente, il mondo tra le sue mani, in quattro e quattr’otto, lo vuole tondo? tondo! lo vuole uovo? uovo! Però, signore mio, io ho i peli bianchi. Gira gira, il perno è uno! E con ciò, badi, non dico che non auguro a Nitto Ruvo di diventare ministro. Per me, anche re. Sembra proprio che sia, come dicono loro, alla soglia del potere…

        D’ALBIS: Già dentro, senza dubbio! Abbiamo lottato senza tregua… E la lotta s’è disegnata fin da principio così, netta, precisa… e l’abbiamo condotta con tal rigore di logica, con tale semplicità di mosse, che è proprio una soddisfa­zione per noi averla combattuta.

        GUGLIELMO: Gesù, Gesù… che cose! Ma piacere, sa, piacerone… Perché io, non ne ho l’aspetto, ma, nel collegio, sono, come suol dirsi, una colonna del Ruvo.

        D’ALBIS: Eh, lo so bene!

        GUGLIELMO: Ma re, ministro, il Ruvo, non ci facciamo illusioni, caro signore, gira gira…

        D’ALBIS: Il perno è uno?

        GUGLIELMO: Uno!

        D’ALBIS: Però…

        GUGLIELMO: No, niente, scusi: lasciamo andare. Quando si parla di politica, io sono come un turco alla predica.

        D’ALBIS: Quanto a questo, il vero turco, guardi, eccolo qua! (Indica Leonardo.) Scommetto che non sa neppure contro chi abbiamo combattuto. Ed è vissuto qua, in mezzo a noi, nel fervore della lotta. Se ne sta lì a scrivere il romanzo e, quando può, me ne caccia qualche cartellina fra gli articoli.

        LEONARDO: Ho già rimediato, sai?

        D’ALBIS: Sì, caro. Ma io vorrei trovarmi presente per la votazione. Lei viene dalla Camera? A che punto ha lasciato la discussione?

        GUGLIELMO: Non ci ho capito nulla!

        D’ALBIS: Ma chi parlava almeno?

        GUGLIELMO: Ah, sissignore… Lui, Nitto Ruvo.

        D’ALBIS: Successone, eh? Sappiamo già che cosa risponderà il Governo. Bat­tuto, battuto, in precedenza! Vado ad assistere al crollo finale. Con permesso.

        GUGLIELMO: Padrone mio, caro signore.

        D’ALBIS: Addio, Arciani.

        LEONARDO: Addio. D’Albis via.

        GUGLIELMO: Sì, sì, lo lasci arrivare, il suo grand’uomo, e poi me ne saprà dire qualche cosa. Per curiosità: li dà lui, è vero, Nitto Ruvo, i… (strofina il pol­lice e l’indice, per significare i quattrini) a questo giornale?

        LEONARDO (distratto): Non so.

        GUGLIELMO: Certo: se ne dicono bene… Molla! Molla! E balla, comare, che for­tuna suona! Ma tu, levami un dubbio, non ti sei rivolto a lui, al Ruvo, è vero?, per entrare a… come si dice?, a… a scrivere insomma in questo gior­nale?

        LEONARDO: Io? No, perché?

        GUGLIELMO: Perché non vorrei, io che so di che pelame è quell’animale, non vorrei che si credesse disobbligato con me per averti fatto entrare in un gior­nale stipendiato da lui.

        LEONARDO: Ma niente affatto. Io non lo conosco neppure. Presto qua, come al­trove, il mio lavoro, e non credo d’aver bisogno del Ruvo o d’altri per scri­vere in un giornale come questo.

        GUGLIELMO: E ci provi gusto?

        LEONARDO: Ah, no davvero…

        GUGLIELMO: E allora, perché lo fai? L’uomo, capisco, oggi è così (mostra il palmo della mano, poi il dorso) domani così. Ma una volta mi dicesti che era un… dicevi una parolaccia curiosa: facchinaggio, ecco, facchinaggio…

        LEONARDO (accendendo un’altra sigaretta): Sì, mi pare.

        GUGLIELMO (alzandosi): Figlio mio, permetti? (Gli leva la sigaretta e la butta.) Hai finito or ora di fumare: è una porcheria! Ti rovini…

        LEONARDO (sorridendo, cavando un’altra sigaretta e accendendola): Ma mi lasci rovinare!

        GUGLIELMO (prendendogli una sigaretta e accendendo al fiammifero di lui): Aspetta, mi rovino anch’io, allora. (Torna a sedere.) Facchinaggio, dicevi, già! Che si poteva sopportare soltanto per passione, o per vanità, o per biso­gno. È vero, sì o no?

        LEONARDO: Sarà… non ricordo. Io, intanto…

        GUGLIELMO: Passione, no, l’hai detto. E allora, per vanità? Bisogno, non ne hai.

        LEONARDO: Ah! non ne ho? E che ne sa lei?

        GUGLIELMO: Tu hai bisogno? Tu scrivi qua per bisogno? Come… scusa… e per­ché non me l’hai mai detto, figlio mio?

        LEONARDO: No no no. Ah, basta, basta, ormai da parte sua. D’ora in poi, a me, provvedo io.

        GUGLIELMO: Benissimo… Come diceva quello? Nobili sensi invero…

        LEONARDO (interrompendo): Senta, mi lasci fare, la prego. Lei non può capire. Mi fa male, creda, entrare con lei in codesti discorsi. Dovrebbe intendere che di fronte a Livia, io…

        GUGLIELMO: Livia? No, scusa: che c’entra Livia adesso?

        LEONARDO: Ma sì che c’entra, perché dopo la rovina della mia casa e la morte di mio padre –

        GUGLIELMO: – mia figlia t’ha fatto pesare? –

        LEONARDO: – no, no: lei no! lei, mai! Ma io, io, per me stesso…

        GUGLIELMO: Va’ va’ va’ ! Mi vorresti far sorbire come un decottino a digiuno, adesso, che tu per conservare la tua… come debbo dire? in-di-pen-den-za di fronte a tua moglie, ti rassegni, ti sobbarchi a questa schiavitù sotto altri?

        LEONARDO: Ma nessuna schiavitù! Chi le dice ch’io sia schiavo? Questo poi no! Schiavo di nessuno…

        GUGLIELMO; Ma di te stesso, scusa, schiavo del tuo stesso bisogno, se non d’al­tri! Quando… Ah caro mio, ho buona memoria io, sai? T’affannavi tanto un tempo a sostenere che lo… lo scrivere… l’arte, insomma, è anche essa un la­voro, un gran lavoro, che ha bisogno d’indipendenza… dicevi così: e ti sde­gnavi contro quelli che sostenevano che fosse invece un divertimento, uno spasso: sì… Lasciamo andare! L’indipendenza, l’hai avuta. Io e tuo padre, d’accordo, te l’abbiamo data. Poi, tuo padre, poverino, non per colpa sua, è venuto meno agli impegni… ma tu, a casa tua, grazie a Dio, con la dote di tua moglie… chi ti dice nulla? Puoi lavorare come ti pare e piace, o non far niente, che sarebbe meglio, a giudizio d’un povero ignorante.

        LEONARDO: Questo, scusi, perché le secca ch’io scriva in un giornale stipen­diato, come lei dice, dal Ruvo?

        GUGLIELMO: No. Non per questo soltanto, figlio mio.

        LEONARDO: E allora per che altro?

        GUGLIELMO: Ora te lo dico. Perché tu, riducendoti così, a vivere angustiato, af­flitto –

        LEONARDO: – Ma nient’affatto! –

        GUGLIELMO (seguitando): – col misero frutto, sissignore, col misero frutto che puoi cavare da questo facchinaggio che t’avvilisce…

        LEONARDO: Ma nient’affatto! –

        GUGLIELMO: Vorrei uno specchio per mettertelo sotto il naso! Mi pare… non so… mi pare che ti sia tutto immiserito… Non ti riconosco più. Eh sì, scu­sami… se puoi credere sul serio che il non dover più nulla, materialmente, a tua moglie… Già, vai a pensare a codeste miserie!

        LEONARDO: Ma non è il denaro! non è soltanto il denaro, creda!

        GUGLIELMO: Sta’ zitto! So che è, perciò ti parlo così. Non facciamo storie! Sta di fatto, caro mio, che tu credi sul serio che codesto lavoro che fai, possa la­sciarti libero d’ogni riguardo…

        LEONARDO: Chi glielo dice?

        GUGLIELMO: Te lo dico io che me ne sono accorto. D’ogni riguardo, d’ogni ri­morso, e abilitarti quasi a recare a tua moglie qualunque altro male…

        LEONARDO: Ma io non so perché lei mi parli così. Livia si lamenta? S’è forse lamentata con lei?

        GUGLIELMO: No. Ma è questo appunto il guajo! Che non si lamenta, né con me, né con te, né con nessuno! Ma del suo silenzio tu non dovresti approfittare!

        LEONARDO: Oh, insomma… Lei sa tutto? Mi dica che cosa vuole da me. È inu­tile tenermi qua alla tortura. Non mi costringa a mentire ancora. Non ne posso più!

        GUGLIELMO: Io, a mentire? Non sia mai! Al contrario! Peccato, figlio mio, men­tire… Io voglio anzi conoscere la verità, veder la ragione…

        LEONARDO: Vuol vedere la ragione? E poi?

        GUGLIELMO: Come, e poi?

        LEONARDO: La ragione? Le dico subito che per me non ce n’è. Le basta?

        GUGLIELMO: Ah! Dunque… dunque t’accusi, così senz’altro?

        LEONARDO: Ma accusarmi o scusarmi, al punto in cui mi trovo, è proprio inu­tile, creda!

        GUGLIELMO: Inutile? Ma abbi pazienza…

        LEONARDO: Non posso averne più, di pazienza. Non si tratta più, creda, di ve­derne la ragione, chi n’abbia più, chi n’abbia meno, né d’accusare, né di scu­sare… Riconosco non solo la mia colpa; ma giacché ne sono stato punito, ri­conosco che la punizione è stata giusta e non mi lagno.

        GUGLIELMO (stupito): Tu?

        LEONARDO (con fredda tristezza, convinto, rassegnato): Non mi lagno.

        GUGLIELMO: E, vedo, che… (Fa un gesto con la mano, per significare: vedo che accenni d’ammattire. )

        LEONARDO: No… purtroppo, no! Fossi pazzo davvero!

        GUGLIELMO: Scusa. Per giunta, vorresti lagnarti, tu, riconoscendo…

        LEONARDO: Ma se le dico che non mi lagno!

        GUGLIELMO: Grazie tante di questa concessione!

        LEONARDO: Riconosco pure, che vuole che le dica?, riconosco che Livia più di tutti ha diritto di ribellarsi…

        GUGLIELMO: Ma aver torto, aver ragione, dunque è tutt’uno per te? E chi ha torto, non deve…?

        LEONARDO: Ma se io sono punito! Creda: sono già stato punito…

        GUGLIELMO: Come sei stato punito? Da chi?

        LEONARDO: Parli piano, la prego…

        GUGLIELMO: C’è qualcuno che si rompe di là? Parliamo piano. Da chi sei stato punito? Come? Mi pare… mi pare molto comodo darsi da sé la pena, assog­gettandosi a un po’ di fatica per uno scrupolo sciocco! Sì, sciocco, perché quando a una donna hai tolto tutto: l’amore, la pace… può parere anche ridi­colo, scusa, farsi scrupolo…

        LEONARDO: Ora lei mi offende…

        GUGLIELMO: Io? No, figlio caro!

        LEONARDO: Ma che vuole allora da me? Mi lasci stare… Vuol ragionare? Io non posso.

        GUGLIELMO: E fare? Lasciamo di ragionare, adesso. Fare! Fare! Che intendi fare? Fra te e tua moglie la vita, capirai, a questo modo non è più possibile. Bisogna assolutamente venire a una soluzione qualsiasi. Mi sono provato a muoverne il discorso a quella santa figliuola: è inutile: con lei non si può par­lare. Io la conosco però. Soffre in silenzio, sai, la povera figlia mia! È tu mo­stri di non accorgertene, perché così ti conviene.

        LEONARDO: Se le dicessi che lei, Livia stessa, è venuta qui, poco fa, a preve­nirmi che lei già sospettava, consigliandomi a mentire perché lei non sapesse nulla?

        GUGLIELMO: Ah! Come? Lei? è venuta qua?

        LEONARDO: Proprio lei, mezz’ora fa.

        GUGLIELMO: Per costringerti a mentire?

        LEONARDO: Legga. (Gli porge il biglietto di Livia.)

        GUGLIELMO (dopo aver letto): Un sacrificio di questo genere, per me? Volesse Dio, che fosse per questo! E allora, allora subito me la riporto via con me, la figlia mia! Ma che, no! Vedi che non sai comprenderla? lei spera ancora… aspetta che tu… No?

        LEONARDO: No. Livia sa che non è più in mio potere portarci rimedio. E non ne cerca, sa? Né vuole che altri lo cerchi. Ha visto?

        GUGLIELMO: Ohe, dico, siete impazziti tutti e due? Tu, qua, fai un po’ il tiranno, un po’ la vittima; dici che sei punito; lei ti prega di non tradirti, per non farmi comprender nulla… A che gioco giochiamo? Io sono vecchio, Leonardo, so il mondo; so che hai errato; tu stesso hai la franchezza di confessarlo. Cose senza rimedio non ce n’è: la morte sola! Vediamo insieme, studiamo insieme quel che s’ha da fare. Siamo uomini! Conta su me. Tutto il mio ajuto…

        LEONARDO: Ma che ajuto può darmi lei? Di denaro? Perché vede affannarmi così?

        GUGLIELMO: Ma anche d’esperienza… di tutto… Io posso –

        LEONARDO: – nulla! nulla! Lei non può nulla! È tutto inutile, creda!

        GUGLIELMO: Ma che c’è sotto? Perdio, di che si tratta, insomma? Un rimedio ci sarà, se tu vuoi… Lo troveremo.

        LEONARDO: Non c’è rimedio… Non c’è rimedio…

        GUGLIELMO: Lasciami almeno tentare! – No? Ma perdio, c’è di mezzo mia fi­glia! Ho sì o no il diritto di sapere? Posso lasciarvi così? Tu confessi la tua colpa e vi ti ostini, e vuoi che io, padre, possa permettere che mia figlia con­tinui a soffrire in silenzio, rassegnata, ostinata anche lei a tacere?– Volete farmi impazzire? Se tu hai perduto ogni sentimento di rispetto, di lealtà… se ti rifiuti finanche di ragionare, perdio!

        LEONARDO (Gridando): Non posso, le ho detto! Che vuol ragionare? Finisca una buona volta di tormentarmi!

        GUGLIELMO (quasi inveendo): Io?

        Si apre l’uscio e su la soglia appare Livia. Guglielmo e Leonardo restano accesi, sospesi, d’un tratto.

        LIVIA (s’avanza perplessa, spiando nei volti del marito e del padre): Ho bus­sato… Nessuno m’ha sentito…

        GUGLIELMO: Parlavamo… Discutevo con tuo marito…

        LIVIA: Ho tardato molto?

        GUGLIELMO: No; io ho anticipato, per parlare con Leonardo.

        LIVIA (guardando costernata Leonardo): E…

        GUGLIELMO: Sosteneva una tesi sbagliata, tuo marito. E volevo persuaderlo. So­steneva che, in certe questioni… politiche, aver torto, aver ragione è tutt’uno. Il pubblico, che è il vero interessato, non parla, si ostina a non parlare. Chi ha torto, ne approfitta. E questa pareva a me una indegnità… una vera indegnità, ecco !

        Silenzio. Leonardo raccoglie in fretta, con mani tremanti, le cartelle dalla scrivania. Livia, che ha tutto compreso, si reca il fazzoletto alla bocca per soffocare un singhiozzo irrompente. Guglielmo incalzando più violento: Una disonestà che deve finire, perdio!

        LIVIA: Babbo… no, babbo… Leonardo prende il bastone, il cappello e fa per andare.

        GUGLIELMO: Non vuol sentire ragione! Te ne vai? (Balzando in piedi:) Non basta andarsene!

        LIVIA (trattenendo il padre con un grido): Ha la figlia, babbo! Ha la figlia! Non può sentir ragione! (Leonardo via, di furia.)

        GUGLIELMO (restando): Lui?

        LIVIA: Sì. Una figlia.

        GUGLIELMO (restando): Ah, per questo? (Si odono dall’interno, contempora­neamente, grida confuse, battimani, tra cui risaltano queste parole: Vittoria! Vittoria! Battuto!) Che succede?

        A un tratto l’uscio si spalanca e tre, quattro accaldati, esultanti vi si mo­strano, tra cui Ducei.

        DUCCI (gridando): Ottantacinque voti di minoranza! Vittoria!

        GUGLIELMO (inchinandosi comicamente): Me ne congratulo tanto, caro signore!

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1915 – La ragione degli altri – Commedia in tre atti
Premessa
Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo

En Español – La rázon de los demás

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