Video – La patente – 1956
1956. RAI
MARIO SCACCIA – Rosario Chiarchiaro
PIERO CARNABUCI – Il giudice istruttore D’Andrea
GASTONE CIAPINI – Marranca, usciere
Regia di CORRADO PAVOLINI
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FONTE Novella «La patente» (1911)
STESURA dicembre 1917? – In italiano dicembre 1917 – gennaio 1918
PRIMA RAPPRESENTAZIONE 19 febbraio 1919 – in siciliano – Roma, Teatro Argentina, Compagnia del «Teatro Mediterraneo» diretta da Nino Martoglio, col titolo ’A patenti. Torino 23 marzo 1918 al Teatro Alfieri con la compagnia di Angelo Musco.
Approfondimenti nel sito:
Sezione Novelle – La patente
Sezione Teatro – La patente
È un atto unico derivato dall’omonima novella del 1911. Se ne fa risalire la stesura al 1917 in siciliano, nell’edizione scritta dall’autore per Angelo Musco; la versione in italiano dello stesso Pirandello è stata stesa tra il dicembre 1917 e il gennaio 1918. Fu pubblicata nellaRivista d’Italia del 31 gennaio 1918 e, in volume, dai fratelli Treves, Milano 1920. Angelo Musco la rappresentò al Teatro Alfieri di Torino, in siciliano, il 23 marzo 1918; l’anno seguente, il 19 febbraio 1919, la rappresentò a Roma al Teatro Argentina. Il regista Luigi Zampa nel 1953 ha ripreso l’argomento in un film a episodi, interprete Totò.
È uno dei più originali e grotteschi atti di ribellione di un personaggio pirandelliano contro le ingiustizie della società. Pirandello mette in evidenza la tragica situazione in cui viene a trovarsi un poveretto bollato dalla società col marchio di menagramo, portasfortuna, jettatore: è odiato e sfuggito da tutti, chi lo incontra fa i debiti scongiuri, non ha amici, lui e la sua famiglia vivono nell’isolamento, le due belle figliuole da marito intristiscono in casa perché nessuno le vuole; egli perde addirittura il posto di lavoro ed è ridotto alla fame.
Questa è la situazione del protagonista Rosario Chiàrchiaro. Il suo cognome ha in sé qualcosa di sinistro; secondo Sciascia è ripreso dall’omonima collina rocciosa, ricca d’anfratti, rifugio di animali notturni; una specie d’inferno nella credenza popolare. Ma Chiàrchiaro non subisce, non si piega: invece di negare l’infame calunnia, fa ogni sforzo per convalidarla. Il giudice D’Andrea che, in una causa da lui intentata contro chi ha fatto scongiuri al suo passaggio, crede di favorirlo sostenendo che la iella non esiste; si trova di fronte a una sorprendente reazione: secondo Chiàrchiaro non solo la jella esiste, ma lui è uno jettatore autentico, e vuol essere riconosciuto pubblicamente tale in quella causa, perché vuole una «patente» che gli consenta di esercitare la professione di jettatore. Spaventerà il prossimo con la minaccia di esercitare i suoi oscuri poteri e otterrà compensi per non eseguirla. Lo stesso giudice D’Andrea, l’unico incredulo, assisterà esterrefatto alla morte del cardellino, unico ricordo della madre, per un colpo di vento che fa cadere la gabbia, mentre gli altri giudici presenti, per rimanere indenni dalla jella, danno il loro obolo a Chiàrchiaro che attribuisce sghignazzando ai suoi poteri la morte del cardellino.
Il divertito umorismo di Pirandello sulla paura della jella e sulla reazione, a suo modo eroica, tragica e comica a un tempo, del singolare protagonista, crea un grottesco di alta qualità. L’obolo dei giudici spaventati ne rappresenta il culmine: Rosario Chiàrchiaro inizia trionfalmente la sua professione di jettatore patentato proprio in quel tribunale che avrebbe dovuto pronunciarsi contro il malcostume di chi l’ha bollato con quel marchio infamante.
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