La certezza del nome. Note sul “Fu Mattia Pascal”

Di Roberto Deidier

Pirandello agisce una nuova e moderna mitografia, dove le due polarità non si identificano in una rigida e precostituita scala di valori simbolici, ma, al contrario, possono vicendevolmente ribaltarla.

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Il fu Mattia Pascal - Saggio
Pierre Blanchar – L’homme de nulle part (1937)

La certezza del nome.
Note sul “Fu Mattia Pascal”

     Non è affatto inusuale, specie nell’arco della modernità, che la scrittura romanzesca, laddove si presenti in atteggiamenti più o meno speculativi e lasci agire il pensiero piuttosto che la storia, [1] sia introdotta da una tipologia paratestuale decisamente anfibia, quale è la premessa d’autore.

 [1] Sulle tendenze antinarrative della prosa novecentesca cfr. G. Patrizi, Prose contro il romanzo. Antiromanzi e metanarrativa nel Novecento italiano, Napoli, Liguori, 1996, in part. il cap. I, già apparso come introduzione a L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Milano, Garzanti, 1994. Tra i contributi successivi sulla narrativa di Pirandello segnalo: M. Ganeri, Pirandello romanziere, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001; M. Dardano, Per il fu Mattia Pascal, «La Lingua Italiana», I (2005), 1, pp. 11-40; A. R. Pupino, Pirandello o l’arte della dissonanza. Saggio sui romanzi, Roma, Salerno, 2008.

 Essa risulta anfibia poiché stabilisce con il testo che va a introdurre un legame ben più complesso di quello di una semplice «soglia», [2] divenendo consustanziale all’impianto stesso del romanzo; pertanto non si presenta come una mera appendice scritta a posteriori, quindi collocata ad apertura di libro.

  [2] Il termine si riferisce naturalmente a G. Genette, Seuils, Paris, Editions de Seuil, 1987; trad. Soglie. I dintorni del testo, a cura di C. M. Cederna, Torino, Einaudi, 1989.

Ciò è ancor più vero se questo elemento si contiene nella numerazione dei capitoli, piuttosto che esserne estraniato, come accade nel caso di quello straordinario coacervo, o romanzo-zibaldone, che risponde al Fu Mattia Pascal. Qui la funzionalità della premessa è addirittura duplice, al punto da simulare uno sdoppiamento tra Premessa e Premessa seconda (filosofica) a mo’ di scusa; questa duplicità, a sua volta, immette direttamente il lettore, per via strutturale, all’interno di una delle reti tematiche dominanti l’intero tracciato pirandelliano. Si direbbe che forma e tema stabiliscano tra loro non solo un inevitabile percorso di reciprocità, rispecchiandosi l’una nell’altro e viceversa, ma che determinino anche una compattezza e una coerenza, decisive alla conduzione dell’intreccio. Questo riproduce la complessa vicenda esistenziale di un uomo, al quale il caso o il destino hanno provocato una scissione radicale -imponendo una vita «senza nome e senza passato, sorta come un fungo», replica putrida e parassitaria, dalla finzione del proprio suicidio -e in virtù di questa scissione, assecondano un innato gioco delle parti tra principio di realtà e principio di piacere; ovvero, in termini pirandelliani mutuati da una tradizione riconoscibilissima, tra «necessità» e «fortuna». [3]

 [3] L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal (1904), Milano, Mondadori, 1988. Si veda in part. il cap. IX del romanzo, intitolato Un po’ di nebbia, p. 101.

Le premesse del romanzo sono dunque parti integranti dell’insieme testuale e ne anticipano per certi aspetti la più autentica sostanza, lo svolgimento in chiave letteraria di una verità che ha tutto il sapore di un assioma inconfutabile: la stabilizzazione storica della borghesia, con tutto il suo apparato di valori duramente provato dalla psicanalisi e dalle varie crisi gnoseologiche fin de siècle, a scapito della facciata belle epoque, riduce ulteriormente e drasticamente i già fragili margini di azione del soggetto occidentale nei confronti del proprio destino e della propria temporalità coatta. Se questa ipotesi risulta condivisibile, pur dovendone verificare l’ampiezza nei suoi specifici risvolti, essa non può che coinvolgere tutta una tradizione di agonismo con il fato e con la Storia, non potendosi dare alcun destino irrelato, che non sia a sua volta riconducibile a una più vasta rete di incroci, contatti, sovrapposizioni; insomma a una dimensione ontologica tout court, passata al filtro dell’umorismo.
Proprio in quell’ulteriore coacervo che è il saggio (nella sua accezione più ampia e moderna) del 1908, leggibile anche come una lunga chiosa, o postilla, alla vicenda di Mattia Pascal (che ne è il dedicatario), Pirandello evoca alcune figure del mito interpretabili, per antonomasia, in chiave agonistica; a cominciare da Prometeo, eletto qui a metafora del motto salomonico per cui l’accrescimento del sapere comporta un analogo accrescimento di dolore:

Gli antichi favoleggiarono che Prometeo rapì una favilla al sole per farne dono agli uomini. Orbene, il sentimento che noi abbiamo della vita è appunto questa favilla prometèa favoleggiata. Essa ci fa vedere sperduti su la terra; essa proietta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se la favilla non fosse accesa in noi; ombra che noi però dobbiamo purtroppo creder vera, fintanto che quella ci si mantiene viva in petto. [4]

 [4] Id., L’umorismo (1908), ora in Saggi e interventi, a cura e con un saggio introduttivo di F. Taviani e una testimonianza di A. Pirandello, Milano, Mondadori, 2006, p. 942.

     Il sentimento della vita genera uno spazio almeno duplice, reale e virtuale al contempo come la materia dei sogni. In questo affermarsi di «luce» e «ombra», Pirandello agisce una nuova e moderna mitografia, dove le due polarità non si identificano in una rigida e precostituita scala di valori simbolici, ma, al contrario, possono vicendevolmente ribaltarla. La luce non è vettore esclusivo di conoscenza e sicurezza, come l’ombra non sta a rappresentare soltanto il buio della psiche: questo movimento non determina una banale divisione prospettica, ma diviene anche, e soprattutto, il motore dell’umorismo come «sentimento del contrario». In questo senso Prometeo, suggerisce l’autore, è uno dei primi, efficaci moltiplicatori dello spazio antropologico, ovvero di quella estensione coordinata dove l’umano interagisce con il naturale; in definitiva, di una geografia che è insieme «ingenua» e «sentimentale». Cos’è infatti l’umorismo se non una categoria del doppio?

Esteticamente e psicologicamente, l’umorismo può considerarsi come un fenomeno di sdoppiamento nell’atto della concezione: erma bifronte, che ride per una faccia del pianto della faccia opposta. [5] Ivi, p. 917.

     Accanto a Prometeo, nell’ampio elenco dei personaggi mitici rievocati nel saggio, campeggiano in particolare le figure di Oreste e Clitennestra, alla cui terribile ananke è dedicato un siparietto, altamente significativo, all’inizio del capitolo XII del romanzo. Si tratta di un inserto squisitamente metatestuale o, meglio, metapoetico.
Durante la rappresentazione dell’Elettra di Sofocle, ad opera di marionette, Anselmo Paleari immagina quel celeberrimo «strappo nel cielo di carta del teatrino» [6] che è una delle prime, valide rappresentazioni del concetto di una realtà molteplice.

 [6] Id., Il fu Mattia Pascal, cit., p. 136.

In altri termini, una «maglia rotta» nella rete del nichilismo novecentesco (come sarà per Montale), dalla quale penetra la carica eversiva del riso; ovvero l’umorismo, che sospende e trascende il flusso della tragedia tramutando Oreste nel suo corrispettivo Amleto e stabilendo così, attraverso la memoria letteraria, un cortocircuito tra antico e moderno. Non è infatti un «cielo di carta», sotto cui agiscono eroi fittizi come quelli dei libri, di cui Mattia Pascal si fa estremo custode? E quello stesso cielo non sta lì a dimostrare, confutando lo studio di Enrico Nencioni su L’Umorismo e gli Umoristi (1884) – più volte segnalato nel saggio del 1908 – che la categoria dell’umorismo appartiene alla letteratura di tutti i tempi, anche a quella classica? Nell’annientare il pregiudizio romantico e post-romantico che vede nella poesia degli antichi la realizzazione di un ideale di armonia, in contrapposizione alle inquietudini dei moderni, e dunque l’inesistenza dell’umorismo nella classicità, Pirandello interviene sulle pagine di Nencioni con ampia citazione:

Per darne qualche prova, citeremo ciò che scriveva il Nencioni in quel suo studio suL’Umorismo e gli Umoristi, di cui abbiamo già fatto parola: «L’antichità, nel suo felice equilibrio dei sensi e dei sentimenti, guardò con calma statuaria anche nelle tragiche profondità del destino. L’anima umana era sana e giovine allora, né il cuore e la intelligenza erano stati tormentati da trenta secoli di precetti e di sistemi, di dolori e di dubbi. Nessuna penosa dottrina, nessuna crisi interiore aveva alterato la serena armonia della vita e del temperamento umano. Ma il tempo e il cristianesimo hanno insegnato all’uomo moderno a contemplare l’infinito, a paragonarlo con l’effimero e doloroso soffio della vita presente. Il nostro organismo è continuamente eccitato e sovreccitato; e secolari dolori hanno umanizzato il nostro cuore. Noi guardiamo nell’anima umana e nella natura con una simpatia più penetrante, e vi troviamo delle arcane relazioni e un’intima poesia ignote all’antichità… Il riso d’artista e la comica fantasia di Aristofane, alcuni dialoghi di Luciano, sono eccezioni. L’antichità non ebbe, né poteva avere, letteratura umoristica… Si direbbe che questa sia la caratteristica delle letterature anglo-germaniche. Il cielo crepuscolare e l’umido suolo del Nord sembrano esser più acconci a nutrire la delicata e strana pianta dell’umorismo». Concede però il Nencioni che «anche sotto il cielo azzurro e nella vita facile delle razze latine» l’umorismo «ha talora fiorito, e due o tre volte in modo unico, meraviglioso». E parla infatti del Rabelais e del Cervantes, e anche dell’umorismo «realista e vivente» di Carlo Porta e di quello «delicato e desolato» di Carlo Bini, e dice il don Abbondio del Manzoni una creazione umoristica di prim’ordine. [7]

 [7] Id., L’umorismo, cit., pp. 790-791.

     Spetta dunque ad Anselmo Paleari strappare quel «cielo azzurro» così falsamente classicheggiante, per introdurre lo sconcerto in una scena non più di «calma statuaria» ma di maschere irrequiete, attualissime marionette di un novecentismo ante litteram e di un destino tutto di parole, anch’esso «di carta». «Vive per la morte e morte per la vita», [8] come dice di sé Adriano Meis, sospese come lo fu Oreste tra il delitto e l’assoluzione, le marionette restano in attesa di nuove parole che identifichino il loro destino possibile.

 [8] Id., Il fu Mattia Pascal, cit., p. 183.

     Il nesso tra retorica e umorismo è centrato da Pirandello ancora nel saggio del 1908 e ha certamente ragione chi ha voluto vedere nel Fu Mattia Pascal la più evidente codificazione di un anti-genere e di un’anti-forma che prendono corpo nel vivo della testualità del personaggio; vale a dire che ciò che è narrabile, lo è solo attraverso la maschera indossata dal protagonista. [9]

 [9] Su questo fondamentale aspetto cfr. G. Patrizi, op. cit., pp. 40-41.

Maschera che appare con dei tratti sofistici ma che, al tempo stesso, è «nuda», ridotta al suo «candore» essenziale, naturale. «L’intelligenza non è altro che questo», scriveva Massimo Bontempelli commemorando Pirandello: «riconoscimento e confessione del mistero, che è la sola realtà». [10]

 [10] M. Bontempelli, Pirandello o del candore (1936), ora in Id., Opere scelte, a cura di L. Baldacci, Milano, Mondadori, 1978, p. 810.

Quel lume «prometèo» la cui fiamma consente l’esistenza stessa dell’ombra, è, agli occhi di Bontempelli, quel tratto di «nettissima unità» che «muove e spiega tutto Pirandello»: il «candore». [11] Ivi, p. 812.
E «la prima qualità delle anime candide» ha proprio a che vedere con quel corpus di valori e convenzioni borghesi contro cui la maschera dirige la propria azione agonistica: è «l’incapacità di accettarei giudizi altrui e farli propri». [12] Ibidem.
La metaletterarietà di Pirandello nasce, all’altezza del 1904, proprio come rifiuto di quell’univocità della lingua borghese dietro cui si andavano a malcelare i cascami di un intero modello culturale. Se il moderno porta nuove consapevolezze decostruendo le tradizioni e portandone allo scoperto i nodi conoscitivi, Il fu Mattia Pascal diviene, di tale decostruzione, il manuale retorico, eversivamente – e quindi scandalosamente – umoristico, anticanonico. La problematizzazione della «forma», infatti, si svolge nel saggio sull’Umorismo proprio all’interno di uno smantellamento della Retorica come «guardaroba dell’eloquenza». Ecco come Pirandello, rimettendo in scena il suo repertorio mitologico, fa scadere la forma retorica ad artificio e a stereotipo:

Per la Retorica prima nasceva il pensiero, poi la forma. Il pensiero cioè non nasceva come Minerva armata dal cervello di Giove: nudonasceva, poveretto; ed essa lo vestiva. Il vestito era la forma. La Retorica, in somma, era come un guardaroba: il guardaroba dell’eloquenza, dove i pensieri nudi andavano a vestirsi. E gli abiti, in quel guardaroba, eran già belli e pronti, tagliati tutti su i modelli antichi, più o meno adorni, di stoffa umile o mezzana o magnifica, divisi in tante scansie, appesi alle grucce e custoditi dalla guardarobiera che si chiamava Convenienza. Questa assegnava gli abiti acconci ai pensieri che si presentavano ignudi […]. «E tu una Tragedia vorresti essere? Ma proprio proprio una Tragedia? È cosa ardua, bada! Devi essere a un tempo grave e lesta, cara mia. In ventiquattr’ore, tutto finito. E ferma, veh! Scegliti un luogo, e lì. Unità, unità, unità. Lo sai? Brava. Ma dimmi un po’: ti scorre sangue reale per le vene? E hai studiato Eschilo, Sofocle, Euripide? Anche il buon Seneca? Brava. Vuoi uccidere i figli come Medea? il marito come Clitennestra? la madre come Oreste? Tu vuoi uccidere un tiranno come Bruto; ho capito; vieni qua.» Così i pensieri facevan da manichini alla forma-vestiario. Cioè la forma non era propriamente forma, ma formazione: non nasceva, si faceva. E si faceva secondo norme prestabilite: si componeva esteriormente, come un oggetto. Era dunque artificio, non arte; copia, non creazione.

 [13] L. Pirandello, L’umorismo, cit., pp. 817-818

Pirandello cerca di risemantizzare ciò che, nella figura e nel ruolo, è stato mistificato dal vestiario retorico; restituisce a Prometeo e a Oreste, come a Mattia Pascal, la loro portata agonistica, proprio laddove l’umorismo può intervenire come vettore linguistico, a portare allo scoperto e rimuovere le incrostazioni di una tradizione pregiudiziale; li ricolloca di fronte all’incedere di un destino, individuale e storico, che impone nuove maschere e molteplici travestimenti; ne evidenzia umoristicamente la certezza del nome, facendone parola in grado di proiettare i propri significati al di là del reale contingente, in una dimensione dove autobiografia e teosofia s’intersecano, stravolgendo i canoni del romanzo naturalistico; infine tematizza quanto la percezione del tempo sia un’esperienza tutt’altro che univoca e per questa via recupera la tradizione tutta moderna del fantastico, ovvero di quella straordinaria conduzione retorica incarnata da una precisa modalità di racconto: uno dei vettori principali dell’assetto narrativo del Fu Mattia Pascal. E si potrebbe aggiungere anche dell’atteggiamento percettivo. Basterebbe a esemplificarlo la stesura del capitolo XV, Io e l’ombra mia, palese omaggio a un autore e a un’opera spesso rievocati da Pirandello. [14]

 [14] Il riferimento è a A. von Chamisso, La meravigliosa storia di Peter Schlemihl (1814), uno degli archetipi del fantastico, citato nelle ultime righe del saggio L’umorismo.

     Se la cifra più evidente, infatti, è quella della metamorfosi, per quanto ridotta qui a vero e proprio codice comportamentale, allora il suo svolgersi anzitutto per via nominale – quindi per la strada maestra della lingua, come è della più alta casistica otto-novecentesca da Hoffmann a Kafka, da Maupassant a Calvino – rivela un radicale rovesciamento di segno rispetto a qualsivoglia faustismo o rapporto magico-alchemico, formulaico, con la realtà della physis, con l’ineluttabilità delle sue leggi implicite. Si rilegga l’incipit del romanzo, che è anche l’avvio della prima Premessa:

Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de’ miei amici o conoscenti dimostrava d’aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimenti, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo: -Io mi chiamo Mattia Pascal. [15]

 [15] L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cit., p. 3.

      È un incipit quanto mai denso, specie per il Pirandello del 1904. L’auto-rappresentazione del personaggio narrante è condotta socraticamente attraverso la progressiva riduzione della certezza del sapere a un unico elemento astratto: un puro significante, un nome proprio, flatus vocis. «Buffalo – e il nome agì», scriverà trent’anni dopo il Montale delle Occasioni. E in verità Mattia Pascal è un nomen agens, anche se il raggio e la direzione del suo agire sono tutti connotati in negativo, procedono cioè per sottrazione: il personaggio «approfitta» di questa sola certezza per contenere la realtà contingente, la sua molteplicità ossessiva, in quella pura e semplice emissione di fiato. Mattia Pascal si nega alla complessità del mondo in un gesto scandito in tre atti: stringersi nelle spalle, quasi a respingere qualsivoglia ipotesi di coinvolgimento e di responsabilità; socchiudere gli occhi, ovvero impedire la visione diretta di quella complessità e lasciare agire, attraverso il terzo atto, la pronuncia del proprio nome. Sembra la descrizione di un comune understatement, invece è il riproporsi in chiave moderna di un mito apparentemente autoriduttivo, per quanto ancora potente, a suo modo. Infatti Mattia emette una formula il cui solo potere è appunto una facoltà di estraniazione. Il proprio nome identifica e circoscrive un micromondo, un piccolo universo alternativo alla perdita di certezze della piccola borghesia del primo Novecento; ma è, per l’appunto, un doppio fittizio, un’invenzione linguistica, un estremo espediente della parola, non più un atto locutòrio, in quanto il destinatario coincide con l’emittente: Mattia si rivolge a se stesso per ribadire quella «sola» certezza entro i limiti fisici e percettivi del suo stesso essere. Sarebbe sufficiente questa dichiarazione a definire lo stato di ripiegamento solipsistico del protagonista se ciò non si manifestasse, per converso, come uno straordinario congegno narrativo, destinato – è proprio il caso di dirlo – a sortire l’effetto di una duplicazione della realtà, ancora una volta,   anzitutto, per via linguistica.

E Mattia può divenire Adriano, e Adriano a sua volta potrà rispecchiarsi nel suo doppio femminile, Adriana, in quell’incessante gioco di rifrazioni in cui realtà e soggetto procedono parallelamente alla propria, rispettiva moltiplicazione, facendo dell’esistenza la «costruzione fantastica d’una vita non realmente vissuta» e tramutando se stesso in «un uomo inventato»,[16] un personaggio al quadrato, metaletterario.

 [16] Ivi, p. 88

È la scrittura a consentire tutto ciò. È lo spazio della retorica a trasformare Mattia e il suo doppio in una figura straordinariamente moderna e antica al tempo stesso, icona dell’ineluttabilità e dell’incombere del destino. Al crocevia di queste dimensioni scaturite dal linguaggio pirandelliano, il personaggio si sostanzia, divenendo il fulcro, l’ipostasi narrativa di una «semantica dei mondi possibili», [17] aprendo al lettore un universo di realtà parallele e molteplici dove Borges e Calvino si sarebbero trovati a loro agio.

 [17] Cfr. S. Kripke, Naming and necessity, Oxford, Blackwell, 1960; trad. Nome e necessità, a cura di M. Santambrogio, Torino, Boringhieri, 1982.

Difficilmente la carica fantastica di questo ennesimo antieroe si spende in un unico territorio, venendo compresa in una casistica almeno triplice: quella per cui, proprio dal punto di vista della trama e della conseguente costruzione narrativa, il lettore può riscontrare la presenza di un solo individuo in due universi, oppure di due individui nello stesso universo, o di due o anche più incarnazioni dello stesso individuo nello stesso universo. La vicenda psicologica, ancor prima che esistenziale, di Mattia Pascal percorre tutti questi ambiti provocando necessariamente altrettante soluzioni. Poiché il primo processo di sdoppiamento è sempre endogeno, risulta evidente quanto la presenza di Mattia all’interno del proprio mondo sia fortemente inficiata, paradossalmente, da quella che ci viene presentata, ma solo apparentemente, come una certificazione di identità. Concetto altrettanto ambiguo, dal momento che coinvolge una percezione individuale e una sociale dello stesso soggetto, e dunque risulta anch’esso il prodotto di un determinato, ma anche plurimo, punto di vista. La pronuncia del nome, infatti, non tarda a porsi come certezza che non può coinvolgere l’identità, in quanto la sottrae alla propria sfera di appartenenza, la rende una monade sterile, incapace di rapportarsi: e non può darsi definizione di identità senza la rete di rapporti che la definiscono in un certo ambito o in un certo «mondo», per dirla con la semantica di Saul Kripke. Questo ambito si definisce solo per via simbolica:

Ogni oggetto in noi suol trasformarsi secondo le immagini ch’esso evoca e aggruppa, per così dire, intorno a sé. Certo un oggetto può piacere anche per se stesso, per la diversità delle sensazioni gradevoli che ci suscita in una percezione armoniosa, ma ben più spesso il piacere che un oggetto ci procura non si trova nell’oggetto per se medesimo. La fantasia lo abbellisce cingendolo e quasi irraggiandolo d’immagini care. Né noi lo percepiamo più qual esso è, ma così, quasi animato dalle immagini che suscita in noi o che le nostre abitudini vi associano. Nell’oggetto, insomma, noi amiamo quel che vi mettiamo di noi, l’accordo, l’armonia che stabiliamo tra esso e noi, l’anima che esso acquista per noi soltanto e che è formata dai nostri ricordi. [18]

 [18] L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cit., p. 95.

     Anche da un osservatorio più superficiale, la fisionomia del personaggio si delinea per antifrasi, che è qui un espediente ironico. Attraverso la diagnosi di perdita del senno applicata a chiunque cerchi di estorcergli un qualsivoglia consiglio, Mattia presenta obliquamente la propria perdita di senno, il suo essersi socraticamente assestato sul «sapere di non sapere». Ma si badi, questa non è una consapevolezza raggiunta, è piuttosto un dato consustanziale al suo stesso porsi come personaggio che intrattiene con il proprio ambito una relazione di segno negativo.
La certezza del nome è la formula che apre, spalanca ulteriori mondi, ma non è detto che tale apertura provochi una soluzione, una ricomposizione di principio di realtà e principio di piacere di fronte alla soverchieria del fato. Il quale, come nella migliore letteratura fantastica, si delinea come motore primo, come elemento perturbante che determina le storie e influisce sui loro esiti, rappresentando, nel «pandeterminismo» [19] che regola i rapporti semantici all’interno delle narrazioni fantastiche, il fattore di non conoscibilità, il vettore straniante, l’evento per l’appunto «strano».

 [19] Cfr. T. Todorov, Introduction à la littérature fantastique, Paris, Editions de Seuil, 1970; trad. La letteratura fantastica, a cura di E. K. Imberciadori, Milano, Garzanti, 1977, in part. il cap. III.

      Con la lucidità consueta di chi si appresta a farsi narratore – e quindi ripercorre il vissuto trasformando il Mondo in Libro -anche il bibliotecario Mattia, anticopernicano per partito preso, non tarda a presentare la propria vicenda come «caso», a proporla nella sua esemplarità. Ma si tratta di un «caso assai più strano e diverso», «davvero strano», dove la modulazione avverbiale incide in maniera ossimorica, generando inquietudine e ambiguità. E sono tratti che il protagonista individua all’interno della stessa realtà, anche quando questa si riduce a scrittura: nella biblioteca di Monsignor Boccamazza si ritrovano accostati, all’insegna della più totale casualità, volumi diversissimi fra loro, che difficilmente comporrebbero un mosaico del sapere, quanto, invece, un caleidoscopio di titoli (altra possibile analogia con l’universo tutto libresco della narrativa fantastica di un Borges, a distanza di un trentennio). Tra questi comincia a fare la sua comparsa il Libro per eccellenza, quello che narra la vita del protagonista, o meglio quello che sostanzia la sua stessa esistenza; in quanto flatus vocisMattia vive solo nello spazio della pagina, dove può finalmente sdoppiarsi dando vita anche a una duplice struttura del ritmo narrativo, animando insomma il «suo libro».
L’aggettivo possessivo colloca il romanzo, fin da queste prime battute, sul crinale tra simbolismo (si veda l’uso delle metafore, l’insistenza, negata ma attuata, sui particolari, sui dettagli, anch’essa di derivazione fantastica) e surrealismo ante litteram. Del resto elementi onirici o tipicamente fantastici, come il ricorso all’occultismo, allo spiritismo, sono ampiamente disseminati nella scrittura pirandelliana (si veda ad esempio Effetti di un sogno interrotto) e risultano mutuati anche dal magistero di Capuana, se non bastasse la contiguità con la cultura tedesca.
In definitiva il lettore si trova posto davanti a un personaggio vivo ma non vivente, anzi forestiero alla vita: questa estraneità, questa forma di alienazione sono l’humus sulla quale cresce il lievito del fantastico, una volta che tale estraneità fuoriesce dal soggetto. È quando essa viene trattenuta che Pirandello può invece modulare, su ben altro versante, il suo umorismo. Questo processo di esternazione, si traduce in proiezioni, coinvolge le tematiche del libero arbitrio, dell’illusorietà della scelta, di ogni scelta, e diventa quindi una dinamica agonistica. Nelle intenzioni dell’autore, almeno fino al punto da rendere visibile «l’infinita nostra piccolezza». [20]

 [20] L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cit., p. 7.

Non in quelle di Mattia, il quale compie la propria doppia metamorfosi «in grazia di questa distrazione provvidenziale» [21] provocata anch’essa dal caso. Mattia Pascal è davvero, ancora con Kripke, un «designatore rigido», ovvero un termine che si riferisce alla medesima identità in tutti i mondi possibili. [21] Ivi, p. 8

Persino la sua trasformazione, per quanto possa fisicamente condurlo in un mondo altro, non fa che render ancora più manifesto il suo solipsismo, anche in forma coatta. Del resto, nella prospettiva dell’Umorismo, la moltiplicazione dell’identità e dello spazio-tempo di azione viene ricondotta a una sorta di sineddoche. Scrive Pirandello, sulla scia di Binet e di Séailles:

I limiti della nostra memoria personale e cosciente non sono limiti assoluti. Di là da quella linea vi sono memorie, vi sono percezioni e ragionamenti. Ciò che noi conosciamo di noi stessi, non è che una parte, forse una piccolissima parte, di quello che siamo. E tante e tante cose, in certi momenti eccezionali, noi sorprendiamo in noi stessi, percezioni, ragionamenti, stati di coscienza, che sonveramente oltre i limiti relativi della nostra esistenza normale e cosciente. [22]

 [22] Id., L’umorismo, cit., p. 936.

Al fondo resta il narcisismo primario di Mattia inteso come difesa dalle aggressioni esterne, come avrebbe diagnosticato Freud nel suo imprescindibile saggio sul perturbante; ma dietro questa forsennata ricerca del tutto che è alla radice di ogni narcisismo si cela l’insidia di perdere il frammento, ovvero la propria identità. È quanto accade a Mattia, è il prezzo che il doppio deve pagare. L’inesistenza, talvolta la pazzia, come accade in Dostoevskij. E per questa strada esso, il doppio, davvero non ha mai fine. Ancora una volta «nomina nuda tenemus».

Roberto Deidier

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