La buon’anima – Audio lettura 4

Legge Giuseppe Tizza
«Per tutto il tempo che durò il viaggio di nozze, non solamente poi si coricò in quello stesso letto, ma desinò e cenò anche negli stessi ristoranti, dove la buon’anima aveva condotto a desinare la moglie…»

Prime pubblicazioni: La Riviera ligure, luglio 1904, poi in La vita nuda, Treves 1910.

La buon anima audiolibro
Oskar Kokoschka (1886-1980) Gli amanti mediante gatto – olio su tela,1917

La buon’anima

Voce di Giuseppe Tizza

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             Fin dal primo giorno, Bartolino Fiorenzo s’era sentito dire dalla promessa sposa:

             – Lina, veramente, ecco… Lina no, non è il mio nome. Carolina mi chiamo. La buon’anima mi volle chiamar Lina, e m’è rimasto così.

             La buon’anima era Cosimo Taddei, il primo marito.

             – Eccolo là!

             Glielo aveva anche indicato, la promessa sposa, perché era ancora là, ridente e in atto di salutare col cappello (vivacissima istantanea fotografica ingrandita), nella parete di fronte al canapè, presso al quale Bartolino Fiorenzo stava seduto. E istintivamente a Bartolino era venuto di inchinar la testa per rispondere a quel saluto.

             A Lina Sarulli, vedova Taddei, non era neanche passato per il capo di togliere quel ritratto dal salotto, il ritratto del padrone di casa. Era di Cosimo Taddei, infatti, la casa in cui ella abitava; lui, ingegnere, la aveva levata di pianta, lui poi così elegantemente arredata, per lasciargliela alla fine in eredità con l’intero patrimonio.

             La Sarulli seguitò, senza notare affatto l’impaccio del promesso sposo:

             –    A me non piaceva cangiar nome. Ma la buon’anima allora mi disse: «E se invece di Carolina ti chiamassi cara Lina non sarebbe meglio? Quasi lo stesso, ma tanto di più!». Va bene?

             –    Benissimo! sì, sì, benissimo! – rispose Bartolino Fiorenzo, come se la buon’anima avesse domandato a lui un parere.

             – Dunque, cara Lina, siamo intesi? – concluse la Sarulli, sorridendo. E Bartolino Fiorenzo:

             – Intesi… sì, sì… intesi… – balbettò, smarrito di confusione e di vergogna, pensando che il marito, intanto, guardava ridente dalla parete e lo salutava.

             Quando – tre mesi dopo – i Fiorenzo, marito e moglie, accompagnati alla stazione dai parenti e dagli amici, partirono per il viaggio di nozze, diretti a Roma, Ortensia Motta, intima di casa Fiorenzo e anche amicissima della Sarulli, disse al marito, alludendo a Bartolino:

             – Povero figliuolo, ha preso moglie? Io direi piuttosto che gli hanno dato marito !

             Ma con ciò, si badi, la Motta non voleva mica dire che Lina Sarulli, prima Lina Taddei, ora Lina Fiorenzo, avesse più dell’uomo che della donna. No. Troppo donna, anzi, quella cara Lina! Fra i due, però, via! non si poteva mettere in dubbio che avesse molta più esperienza della vita e più giudizio lei che lui. Ah, lui – tondo biondo rubicondo – aveva l’aria d’un bamboccione; d’un bamboccione curioso, però: calvo, ma d’una calvizie che pareva finta, come se egli stesso si fosse rasa la sommità del capo per togliersi quell’aria infantile. E senza riuscirci, povero Bartolino!

             –    Ma che povero! Ma perché povero? – miagolò, con la voce nasina, stizzito, il Motta, vecchio marito della giovine Ortensia, il quale aveva combinato quel matrimonio e non voleva se ne dicesse male. – Bartolino non è mica uno sciocco. Valentissimo chimico…

             –    Ma sì! di prima forza! – ghignò la moglie.

             –    Di primissima forza! – ribatté lui.

             Valentissimo chimico, se avesse voluto mandare a stampa gli studii profondi, nuovi, d’indiscutibile originalità, che aveva fatto fin da giovinetto in quella scienza – passione finora unica, esclusiva della sua vita – ma senza dubbio, chi sa… al primo concorso, chi sa di qual primaria Università del regno sarebbe stato professore. Dotto, dotto. E ora, come marito, sarebbe stato esemplare. Nella vita coniugale entrava puro, vergine di cuore.

             – Ah, per questo… – riconobbe la moglie, come se, quanto a quella verginità, fosse disposta a concedere anche di più.

             Il fatto è che ella, prima che si fosse concluso quel matrimonio con la Sarulli, ogni qual volta in casa Fiorenzo sentiva consigliare dal marito allo zio di Bartolino, che bisognava «coniugare» questo ragazzo, scoppiava a ridere. Oh, certe risate ci faceva…

             – Coniugarlo, sì signora, coniugarlo! – si voltava a dirle il marito, irosa mente.

             E allora lei, frenandosi di scatto:

             – Ma coniugatelo pure, cari miei! Io rido per me, rido di ciò che sto leggendo.

             Difatti leggeva lei, mentre il Motta si faceva la solita partita a scacchi col signor Anselmo, zio di Bartolino; leggeva qualche romanzo francese alla vecchia signora Fiorenzo da sei mesi relegata in una poltrona dalla paralisi.

             Oh, allegre veramente, quelle serate! Bartolino, tappato ermeticamente nel suo gabinetto di chimica; la vecchia zia, che fingeva di prestare ascolto alla lettura e non capiva più una saetta; quegli altri due vecchi intenti alla loro partita… Bisognava «coniugare» Bartolino per avere un po’ d’allegria in casa. Ed ecco, povero figliuolo, lo avevano coniugato davvero!

             Intanto Ortensia pensava ai due sposini in viaggio, e rideva immaginandosi la Lina a tu per tu con quel giovanottone calvo, inesperto, vergine di cuore, come diceva il marito: Lina Sarulli ch’era stata quattr’anni in compagnia di quel caro ingegner Taddei, espertissimo, vivace, gioviale, e intraprendente… anche troppo! Forse a quell’ora la vedova sposina aveva già notato la differenza tra i due.

             Prima che il treno si scrollasse per partire, lo zio Anselmo aveva detto alla nuova nipote:

             – Lina, ti raccomando Bartolino… Guidalo tu!

             Intendeva dire, guidarlo per Roma, dove Bartolino non era mai stato.

             Lei sì c’era stata, nel suo primo viaggio di nozze, con la buon’anima; e serbava memoria anche delle minime cose, dei più lievi incidenti che le erano occorsi; minutissima e lucidissima memoria, quasi che fossero passati, non sei anni, ma sei mesi, da allora.

             Il viaggio con Bartolino durò un’eternità: le tendine non si poterono abbassare. Appena il treno s’arrestò alla stazione di Roma, Lina disse al marito:

             –    Ora lascia fare a me, ti prego. Giù le valige! – E, al facchino che venne ad aprir lo sportello:

             –    Ecco: tre valige, due cappelliere, no. tre cappelliere, un porta-mantelli, un altro porta-mantelli, questo sacchetto, quest’altro sacchetto… che altro c’è? Niente, basta. Hotel Vittoria!

             Uscendo dalla stazione, dopo ritirato il baule, riconobbe subito il conduttore dell’omnibus, e gli fé’ cenno. Come furono montati, disse al marito:

             – Vedrai: albergo modesto, ma comodissimo; buon servizio, pulizia, prezzi modici, e centrale poi!

             La buon’anima – senza volerlo, ella lo ricordava – se n’era trovato molto contento. Ora, anche Bartolino senza dubbio se ne sarebbe trovato contentone. Oh, bonissimo figliuolo! Non fiatava neppure.

             – Stordito, eh? – gli disse. – Anche a me ha fatto lo stesso effetto, la prima volta… Ma vedrai: Roma ti piacerà. Guarda, guarda… Piazza delle Terme… Terme di Diocleziano… Santa Maria degli Angeli… e quella là, voltati!, fino in fondo, Via Nazionale… magnifica, non è vero? Poi ci passeremo…

             Scesi all’albergo, Lina si sentì come a casa sua. Avrebbe voluto che qualcuno la riconoscesse, come lei riconosceva quasi tutti: ecco, quel vecchio cameriere, per esempio…Pippo, sì; lo stesso di sei anni fa.

             – Che camera?

             Avevano assegnato loro la camera n. 12, al primo piano: bella camera, ampia, con alcova, ben messa. Ma Lina disse al vecchio cameriere:

             –    Pippo, e la camera al n. 19, al secondo piano? Vorreste vedere se fosse libera?

             –    Subito, – rispose il cameriere inchinandosi.

             –    Molto più comoda, – spiegò Lina al marito. – Ci dev’essere un piccolo vano accanto all’alcova… E poi, più aria e meno frastuono. Staremmo molto meglio…

             Ricordava che anche alla buon’anima era capitato lo stesso caso: gli avevano assegnato una camera al primo piano, e lui se l’era fatta cambiare.

             Il cameriere, poco dopo, venne a dire che il n. 19 era libero e a loro disposizione, se lo preferivano.

             – Ma sì! ma sì! – s’affrettò a dir Lina, lietissima, battendo le mani.

             E, appena entrata, ebbe la gioja di riveder quella camera tal quale, con la stessa tappezzeria, gli stessi mobili nella stessa posizione… Bartolino restava estraneo a quella gioja.

             –    Non ti piace? – gli domandò Lina, spuntandosi il cappellino innanzi al noto specchio sul cassettone.

             –    Sì… va bene… – rispose egli.

             –    Oh, guarda! Me n’accorgo dallo specchio… Quel quadretto lì non c’era, allora… C’era un piatto giapponese… Si sarà rotto. Ma di’, non ti piace? No no no no no! Niente baci, per ora… col muso sporco… Tu ti laverai qua; io andrò di là nel mio bugigattolino… Addio!

             E scappò via, felice, esultante.

             Bartolino Fiorenzo si guardò attorno, un po’ mortificato; poi s’appressò all’alcova, ne sollevò il cortinaggio e vide il letto. Doveva esser lo stesso in cui la moglie per la prima volta aveva dormito con l’ingegner Taddei.

             E da lontano, da un ritratto appeso alla parete del salotto nella casa della moglie, Bartolino si vide salutare.

             Per tutto il tempo che durò il viaggio di nozze, non solamente poi si coricò in quello stesso letto, ma desinò e cenò anche negli stessi ristoranti, dove la buon’anima aveva condotto a desinare la moglie; andò in giro per Roma, seguendo come un cagnolino i passi della buon’anima che guidava nel ricordo la moglie; visitò le antichità e i musei e le gallerie e le chiese e i giardini, vedendo e osservando tutto ciò che la buon’anima aveva fatto vedere e osservare alla moglie.

             Era timido, e non osava dimostrare in quei primi giorni l’avvilimento, la mortificazione, che cominciava a provare nel dover seguire così, in tutto e per tutto, l’esperienza, il consiglio, i gusti, le inclinazioni di quel primo marito.

             Ma la moglie non lo faceva per male. Non se n’accorgeva, né poteva accorgersene.

             A diciott’anni, priva d’ogni discernimento, d’ogni nozione della vita, era stata presa tutta da quell’uomo, e istruita e formata e fatta donna da lui; era insomma una creatura di Cosimo Taddei, doveva tutto, tutto a lui, e non pensava e non sentiva e non parlava e non si moveva se non a modo di lui.

             E come mai, dunque, aveva ripreso marito? Ma perché Cosimo Taddei le aveva insegnato che alle sciagure le lagrime non son rimedio. La vita a chi resta, la morte a chi tocca. Se fosse morta lei, egli avrebbe certamente ripreso moglie; e dunque…

             Dunque ora Bartolino doveva fare a modo di lei, cioè a modo di Cosimo Taddei, ch’era il loro maestro e la loro guida: non pensare a nulla, non affliggersi di nulla, ridere e divertirsi, poiché n’era tempo. Ella non lo faceva per male.

             Sì, ma almeno, ecco… un bacio, una carezza, qualcosa infine che non fosse propriamente a modo di quell’altro… Niente, niente, niente di particolare doveva egli far sentire a quella donna? Niente di suo che la sottraesse anche per poco al dominio di quel morto?

             Bartolino Fiorenzo cercava, cercava… Ma la timidezza gl’impediva d’escogitar carezze nuove.

             Cioè, ne escogitava, tra sé e sé, anche di arditissime, ma poi, bastava che la moglie nel vederlo diventar rosso rosso gli domandasse:

             – Che hai?

             Addio, gli sbollivano tutte! Faceva un viso da scemo e le rispondeva:

             – Che ho?

             Di ritorno dal viaggio di nozze, furono turbati da una triste notizia inattesa: il Motta, l’autore del loro matrimonio, era morto improvvisamente.

             Lina Fiorenzo, che alla morte del Taddei s’era trovata accanto Ortensia e n’aveva avuto conforto e cure da sorella, corse subito da lei, per curarla a sua volta.

             Non credeva che questo compito pietoso dovesse riuscirle difficile: Ortensia, via, non doveva essere in fondo troppo afflitta di quella sciagura; buon uomo, sì, il povero Motta, ma seccantissimo e molto più vecchio di lei.

             Rimase però costernata nel ritrovare l’amica, dopo dieci giorni dalla disgrazia, addirittura inconsolabile. Suppose che il marito la avesse lasciata in tristi condizioni finanziarie. E arrischiò con garbo una domanda.

             – No no! – s’affrettò a risponderle Ortensia, tra le lagrime. – Ma… capirai… Che cosa? Tutta quella pena, sul serio? Non la capiva, Lina Fiorenzo. E volle

             confessarlo al marito.

             –    Eh! – fece Bartolino, stringendosi nelle spalle, rosso come un gambero di fronte a quella specie d’incoscienza della moglie pur tanto sapiente. – In fin de’ conti… dico… le è morto il marito…

             –    Eh via, adesso! marito… – esclamò Lina. – Le poteva esser padre, a momenti !

             –    E ti par poco?

             –    Ma non era neanche padre, poi!

             Lina aveva ragione. Ortensia piangeva troppo.

             Nei tre mesi del fidanzamento di Bartolino, la Motta aveva notato che il povero giovine era rimasto molto turbato della facilità con cui la promessa sposa parlava innanzi a lui del primo marito; turbato, perché non riusciva a metter d’accordo la memoria viva, continua, persistente, ch’ella serbava di colui, col fatto che ora stesse per riprender marito. Ne aveva discusso in casa con lo zio, e questi aveva cercato di rassicurarlo, dicendogli che era anzi una prova di franchezza – quella – da parte della sposa, di cui non avrebbe dovuto offendersi, perché appunto dal fatto che ella riprendeva marito doveva venirgli la certezza che la memoria di quell’uomo non aveva più radici nel cuore di lei, bensì nella mente soltanto, sicché dunque ella poteva parlarne senza scrupoli, anche dinanzi a lei. Bartolino non s’era affatto raffidato, dopo questo ragionamento. Ortensia lo sapeva bene. Ora poi ella aveva motivo di credere che il turbamento del giovine, per quella così detta franchezza della moglie, dopo il viaggio di nozze, doveva essere di molto cresciuto. Nel ricevere la visita di condoglianza dei due sposi, ella aveva voluto perciò mostrarsi, non tanto a Lina quanto a Bartolino, inconsolabile.

             E Bartolino Fiorenzo rimase così simpaticamente impressionato di quel dolore della vedova, che per la prima volta osò contraddire alla moglie che a quel dolore non voleva credere. E le disse col volto in fiamme:

             –    Ma anche tu, scusa, non hai forse pianto quando t’è morto…

             –    Che c’entra! – lo interruppe Lina. – Prima di tutto la buon’anima era…

             –    Ancor giovane, sì – disse avanti Bartolino, per non farlo dire a lei.

             –    E poi, io, – riprese ella, – ho pianto, ho pianto, ho pianto, è vero…

             –    Non molto? – arrischiò Bartolino.

             –    Molto, molto… ma, in fine, mi son fatta una ragione, ecco! Credi pure, Bartolino; tutto quel pianto di Ortensia è troppo.

             Bartolino non ci volle credere; Bartolino sentì anzi più aspra entro di sé, dopo questo discorso, la stizza, ma non tanto contro la moglie, quanto contro il defunto Taddei, perché comprendeva bene ormai che quel modo di ragionare, quel modo di sentire non eran proprii di lei, della moglie, ma frutto della scuola di quell’uomo, che doveva essere stato un gran cinico. Non si vedeva forse Bartolino, ogni giorno, entrando nel salotto, sorridere e salutare da colui?

             Ah, quel ritratto lì, non poteva più soffrirlo! Era una persecuzione! Lo aveva sempre davanti a gli occhi. Entrava nello studio? Ed ecco: l’immagine del Taddei gli rideva e lo salutava, come per dirgli:

             «Passi! passi pure! Qui era anche il mio studio d’ingegnere, sa? Ora lei vi ha allogato il suo gabinetto di chimica? Buon lavoro! La vita a chi resta, la morte a chi tocca!».

             Entrava nella camera da letto? Ed ecco, l’immagine del Taddei lo perseguitava anche lì. Rideva e lo salutava:

             «Si serva! si serva pure! Buona notte! E contento di mia moglie? Ah, gliel’ho istruita bene… La vita a chi resta, la morte a chi tocca!».

             Non ne poteva più! Tutta quella casa lì era piena di quell’uomo, come sua moglie. Ed egli, tanto pacifico prima, ora si trovava in preda a un continuo orgasmo, che pur si sforzava di dissimulare.

             Alla fine cominciò a fare stranezze, per scuotere le abitudini della moglie.

             Se non che, queste abitudini, Lina le aveva contratte da vedova. Cosimo Taddei, d’indole vivacissima, non aveva abitudini, non aveva voluto mai averne. Sicché dunque Bartolino, alle prime stranezze, si sentì rimproverare dalla moglie:

             – Oh Dio, Bartolino, come la buon’anima?

             Ma non volle darsi per vinto. Sforzò violentemente la propria natura per farne di nuove. Qualunque cosa però facesse, pareva a Lina che la avesse fatta pure quell’altro, che ne aveva fatte veramente di tutti i colori.

             Bartolino si avvilì; tanto più che Lina mostrava di riprender gusto a quelle scapataggini. Seguitando così, a lei doveva certo sembrare di rivivere proprio con la buon’anima.

             E allora… allora Bartolino, per dare uno sfogo all’orgasmo crescente di giorno in giorno, concepì un tristo disegno.                   – .

             Veramente, egli non intese tanto di tradir la moglie quanto di vendicarsi di quell’uomo che gliel’aveva presa tutta e se la teneva ancora. Credette che quest’idea cattiva fosse nata in lui spontaneamente; ma in verità bisogna dire in sua scusa che gli fu quasi suggerita, insinuata, infiltrata da colei che invano da scapolo aveva più volte tentato con le sue arti di rimuoverlo dall’eccessivo studio della chimica.

             Fu per Ortensia Motta una rivincita. Ella si mostrò dolentissima d’ingannar l’amica; ma fece intendere a Bartolino che lei, prima ancora che egli prendesse moglie… via! era quasi fatale!

             Questa fatalità non apparve a Bartolino molto chiara; e però, da buon figliuolo, restò deluso, quasi frodato dalla facilità con cui era riuscito nel suo intento. Rimasto per un tratto solo, là nella camera del buon vecchio Motta, si pentì della sua cattiva azione. A un certo punto, gli occhi gli andarono per caso su qualcosa che luccicava su lo scendiletto, dalla parte d’Ortensia. Era un ciondolo d’oro, con una catenella, che doveva esserle scivolato dal collo. Lo raccolse, per restituirglielo; ma, aspettando, con le dita nervose, senza volerlo, gli venne fatto d’aprirlo.

             Trasecolò.

             Un ritrattino piccolo piccolo di Cosimo Taddei, anche lì.

             Rideva e lo salutava.

La buon’anima – Audio lettura 1 – Legge Valter Zanardi
La buon’anima – Audio lettura 2 – Legge Lorenzo Pieri
La buon’anima – Audio lettura 3 – Legge Gaetano Marino
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