L’uscita del vedovo – Audio lettura

Legge Lorenzo Pieri
«Tutto il suo mondo era lì, in quella casa. Ma che cos’era più, ormai, quella casa senza colei che la animava tutta? Egli non vi si sapeva più neanche rigirare.»

Prime pubblicazioni: Il Marzocco, 28 gennaio 1906, poi in La vita nuda, Treves 1910.

L'uscita del vedovo
Georges Lemmen (1865-1916), Uomo che legge

L’uscita del vedovo

Legge Lorenzo Pieri

Da Spreaker.com

******

             I. Tante volte la signora Piovanelli, conversando dopo cena col marito, aveva fatto l’augurio che se, per disgrazia, uno dei due dovesse morire prima del tempo – ma fosse morto lui! Lui, lui, sì; anziché lei. Per il bene dei figliuoli; non per sé, beninteso.

             Con qual sorriso aveva accolto quest’augurio della moglie Teodoro Piovanelli, arrotondando su la tovaglia pallottoline di mollica!

             Grosso e mite e di modi gentili, si sentiva ferire ogni volta fin nell’anima; sorrideva per dissimulare l’agro, e coi mansueti occhi pallidi e ovati che gli s’intenerivano afflitti nel biondo rossiccio delle ciglia e dei capelli, pareva chiedesse: Ma perché? Perché? Oh bella! Perché è sempre meglio per i figliuoli… cioè, meglio no: meno peggio – sosteneva la moglie – che muoja il padre, anziché la madre.

             –   Ma non sarebbe meglio nessuno? – arrischiava allora con lo stesso sorrisetto lui, Piovanelli. – Permetti? Io dico, va bene, la mamma è mamma. Mamma ce n’è una sola. E vale cento, che dico cento? mille volte più del babbo per i figliuoli; va bene? Ma l’amore… l’amore è una cosa, è il… sì, dico… il come si chiama, il mantenimento…

             – Che c’entra il mantenimento? – scattava la moglie. E lui, Piovanelli, subito:

             –    Permetti? Io dico… dico in genere, intendiamoci! Non stiamo mica a parlar di noi, adesso, che grazie a Dio stiamo tanto bene! In genere. Poni una famigliuola senza beni di fortuna, che viva unicamente di quel poco che guadagna il capo di casa. Muore lui, il capo di casa, va bene? Come farà la vedova a mantenere i figliuoli?

             –    Oooh! – rifiatava la moglie, tirandosi indietro e protendendo le mani, come per dire che qui lo aspettava. – Ti seguo nel tuo ragionamento. Che potrebbe far di peggio questa vedova? Di’ su, lo lascio dire a te.

             –    Eh… – faceva Piovanelli, e si stringeva nelle spalle per non dire, sicuro che anche dicendo come voleva la moglie, questa lo avrebbe sempre tirato a riconoscere che aveva torto lui.

             –    Riprender marito, è vero? – domandava infatti la moglie. – Ebbene: per i figliuoli è cento mila volte meno peggio che riprenda marito la madre, anziché moglie il padre, perché è sempre centomila volte meglio un padrigno che una madrigna. E lo sanno tutti!

             –    Va bene, d’accordo… ma permetti? – (e Piovanelli si storceva come un cagnolino che vuol farsi perdonare). – Scusami, veh! Ma non ti pare che, dicendo così, tu venga a concludere che… – lo noto per te, bada! perché so che tu la pensi diversamente… – venga a concludere, dicevo, che l’uomo, in genere, è… è meglio della donna?

             –    Io, così? – prorompeva la moglie, balzando in piedi. – Chi te l’ha detto? Io vengo, anzi, a concludere, come ho sempre concluso, che l’uomo, o è mala carne…

             –    Sì, sì, scusami…

             –    O è un imbecille che si lascia menare per il naso dalle donne.

             –    In genere… sì, sì, scusami…

             –    Senza genere, né numero, né caso. Te lo provo! Una donna che ha figliuoli e che per necessità riprende marito, anche avendo altri figliuoli da questo secondo marito, non cessa mai d’amare i primi; non solo, ma riesce a farli amare anche dal padrigno. Sfido! Li ha fatti lei, questi e quelli: suo sangue, sua carne! Un vedovo, invece, con figli, che riprenda moglie, anche se non abbia altri figliuoli dalla seconda moglie, non ama più quelli come prima, perché la madrigna se n’adombra, la madrigna se ne ingelosisce; e se poi questa gliene dà altri, lo tira ad amare i proprii e a trascurare i poveri orfanelli; e lui, vigliacco, schifoso, mascalzone, farabutto, obbedisce!

             –    Non dici a me, spero… – domandava, avvilito, Piovanelli con un fil di voce, vedendo la moglie così fuori di sé. – Sai pur bene che io…

             –    Tu? – inveiva la moglie. – Tu? Ma tu, il primo! Tu domani, se io morissi! Siete tutti gli stessi! Poveri figli miei! chi sa in quali mani cadrebbero! Con un tal uomo! Per questo, vedi, Dio mi deve conceder la grazia di non farmi morire prima di te! Io, scusami, sai! io, io, per il bene dei figliuoli, io prima con questi occhi devo vederti morto. Io, io. E piangerti anche! Oh, sta’ pur sicuro che ti piango!

             Teodoro Piovanelli si sentiva scoppiare il cuore.

             – Ma sì… vorrei anch’io… me l’auguro anch’io…

             E seguitando a sorridere a quel modo, si levava da tavola e si affacciava alla finestra; per un po’ d’aria.

             II. Nessuno meglio di lui poteva sapere quanto fosse ingiusta la moglie, dicendo così.

             Riammogliarsi lui? Ma Dio lo doveva prima fulminare!

             Non solo per il bene dei figliuoli non lo avrebbe mai fatto, ma neanche per sé. E non già perché fosse scottato del matrimonio a causa della moglie che gli era toccata in sorte, ma anche per un tristo concetto che gli s’era profondamente radicato in corpo: di non aver fortuna, ecco; e che infelicissimo sarebbe stato sempre con qualunque donna, se tale era con questa che in fondo, via, non era cattiva: tutt’altro, anzi! saggia massaja, amante della casa e dei figliuoli… forse un po’ troppo franca nel parlare; sì, ma lieve difetto, in fin dei conti, che tante buone qualità avrebbero potuto compensare, se non fosse stato accompagnato da un brutto male, ah brutto… brutto… – la gelosia.

             Santo Dio! Vera e propria mala sorte. Gelosa di lui! Fedele come un cane, per natura, una donna sola anche da scapolo gli era sempre bastata. Gli amici, in gioventù, lo burlavano per questo. Ma che poteva farci? Non gli piaceva cambiare. Forse… sì, magari non sapeva. Perché… inutile negarlo; timido, con le donne; tanto timido da far compassione finanche a se stesso, certe volte, per le meschine figure che faceva. E sua moglie, intanto, certe scene, certe scene che, se i suoi amici d’un tempo fossero stati dietro l’uscio a sentire, sarebbero crepati dalle risa. Per così futili pretesti, poi… Una volta, perché, distratto, s’era un po’ arricciati i baffi, per via. Un’altra volta perché, in sogno, aveva riso… Una terza volta perché ella aveva letto nella cronaca d’un giornale che un marito aveva ingannato la moglie ed era stato scoperto…

             Diventava un supplizio per lui, ogni sera, la lettura del giornale. Sua moglie gli si metteva dietro le spalle e cercava, come un bracco, nella cronaca, i fatti scandalosi. Appena ne trovava uno:

             – Qua! Leggi qua! Hai letto? Lo vedi di che siete capaci?… E giù una filza di male parole.

             Gli altri facevano il male, e lui ne doveva pianger la pena, giacché, per la moglie, il tradimento di quei mariti era tal quale come se l’avesse commesso lui: gli toglieva la pace, l’amore di lei, tutte le gioje della famiglia, che aveva pur diritto di godere, lui, illibato com’era e con la coscienza tranquilla. Odiava il genere umano quella donna – tanto i maschi quanto le femmine – per quella sua terribile malattia. Il povero Piovanelli strabiliava, sentendola parlare delle donne, di che cosa erano capaci – secondo lei.

             –   Tu non lo sai, è vero? – gli gridava sdegnata, indispettita, nel vederlo così stupito. – Qua, mordi il ditino, pezzo d’ipocrita. Ma te lo dico io che posso parlar franca, perché nessuno può sospettare di me e non ho bisogno, io, di far l’ipocrita come tutte le altre per far piacere ai signori uomini. Te lo dico io!

             E quante gliene diceva! Si sentiva violentare, povero Piovanelli, nella sua timidità.

             Ormai, lui che aveva avuto sempre il ritegno più rispettoso per la donna, lui che non s’era mai permesso un atto un po’ spinto, una parola arrischiata, lui che aveva creduto sempre difficilissima ogni conquista amorosa, si sentiva insidiato da tutte le parti, e andava per la strada a capo chino; e se qualche donna lo guardava, abbassava subito gli occhi; se qualche donna gli stringeva appena appena la mano, diventava di mille colori.

             Tutte le donne della terra eran diventate per lui un incubo: tante nemiche della sua pace.

             III. Con quest’animo può immaginarsi che cosa fu la morte per la signora Piovanelli, quando, colta all’improvviso da una fierissima polmonite, se la vide davanti inesorabile, a poco più di trentasei anni. Non potendo più parlare, parlava con gli occhi, parlava con le mani. Certi gesti! E gli occhi da bestia arrabbiata.

             Il povero Piovanelli, quantunque straziato, ne ebbe paura: temette davvero che lo volesse strozzare, quando gli buttò le braccia al collo e glielo strinse, glielo strinse, per la Madonna santissima, con tutta la forza che le restava, quasi se lo volesse trascinare giù nella fossa, con sé.

             Ma volentieri lui, sì, volentieri giù con lei.

             –   Sì, sì, te lo giuro, stai tranquilla! – le ripeteva in un torrente di lagrime, rispondendo al gesto di quelle mani e per placare la ferocia di quegli occhi.

             Invano! La disperazione atroce in cui quella donna moriva per non volere, con ostinata ingiustizia, neppure in quel momento supremo fidarsi di lui, accordargli la stima che si meritava, riconoscere la verità del suo cordoglio, di quelle sue lagrime sincere, esasperò talmente Piovanelli, che a un certo punto si mise a urlare come un pazzo, si strappò i capelli, si percosse le guance, se le graffiò; poi, buttandosi ginocchioni innanzi al letto, con le braccia levate:

             –   Vuoi giurato, di’, vuoi giurato che non avvicinerò mai più una donna, finché campo, perché le odio tutte? Te lo giuro! Non vivrò che per i nostri piccini! O vuoi che mi uccida qua, davanti a te? Pronto! Ma pensa ai nostri piccini, e non ti dannare per me! Oh Dio, che cosa! ah, che cosa… Dio! Dio!

             Incanutì su le tempie in pochi giorni Teodoro Piovanelli, dopo il funerale.

             Per nove interi anni non aveva vissuto che per quella donna, assorto continuamente nel pensiero di lei, unico e tormentoso: che non avesse mai cagione di lamentarsi, di diffidar minimamente di lui; in assidua, scrupolosa, timorosa vigilanza di sé. Quasi con gli occhi chiusi, con le orecchie turate aveva vissuto nove anni; quasi fuori del mondo, come se il mondo non fosse più esistito.

             Si sentì a un tratto come balzato nel vuoto; annichilito.

             Il mondo seguitava a vivere intorno a lui; col tramenio incessante, con le mille cure, le brighe giornaliere, svariate: lui n’era rimasto fuori, là serrato in quel cerchio di diffidente clausura, in quella casa vuota, ma pur tutta piena, come l’anima sua, degl’irti sospetti della moglie.

             Da questi sospetti, dallo spirito ostile e alacre, dall’energia spesso aggressiva della moglie, egli – vivendo di lei e per lei unicamente – s’era sentito sostenere. Ora gli pareva d’esser rimasto come un sacco vuoto.

             A chi affidarsi? a chi affidare la casa? a chi affidare i figliuoli?

             Tutto il suo mondo era lì, in quella casa. Ma che cos’era più, ormai, quella casa senza colei che la animava tutta? Egli non vi si sapeva più neanche rigirare. Come curare i piccini? come attendere ad essi? Non sapeva da che parte rifarsi. Tra pochi giorni gli sarebbe toccato ritornare all’ufficio; e quei piccini?

             Nessuna serva era mai durata in casa più di sei mesi. Quest’ultima c’era da pochi giorni; si era mostrata premurosa nella sventura; pareva una buona vecchina; ma poteva fidarsene?

             No. La moglie, dentro, gli diceva no. Non per quella serva soltanto; per tutte le serve del mondo. No.

             Se non che, per vivere com’ella voleva, com’egli le aveva giurato, avrebbe dovuto lasciar l’ufficio e tapparsi in casa dalla mattina alla sera. Era possibile? Doveva lavorare. Non poteva far le parti anche della moglie, che in fondo faceva tutto in casa. La sventura non lo aveva colpito per nulla. Bisognava pure che quella serva facesse qualche cosa invece della moglie. Ai figliuoli, no, ai figliuoli voleva badar lui: lui vestirli la mattina; preparar loro la colazione; poi condurre a scuola il maggiore; lui servirli a tavola, e poi la sera a cena, e far loro recitare le orazioni e svestirli per metterli a letto, nella loro cameretta vigilata da un ritratto fotografico ingrandito della mamma che non c’era più. Quanti baci dava loro tra le lagrime!

             Che orrore, poi, quella casa muta, quando i piccini erano a letto!

             Tornava a sedere innanzi alla tavola non ancora sparecchiata e si metteva ad arrotondare al solito pallottoline di mollica, rimeditando, angosciato, la sua orrenda sciagura.

             Un cupo rammarico lo coceva per la crudele ingiustizia della sua sorte.

             Aveva sofferto prima, immeritatamente; soffriva tanto adesso! E nessuno lo poteva consolare. La moglie non aveva saputo né voluto leggergli dentro, nell’anima; e lo aveva torturato senza ragione; ora ella non poteva vedere com’egli vivesse senza di lei in quella casa, come avesse mantenuto il giuramento fatto; e forse, se di là poteva pensare, immaginava ancora, testarda e cieca, che egli ora godesse, libero… Che irrisione!

             Vedendolo così vinto e sprofondato nel cordoglio, la vecchia serva, una di quelle sere, si fece animo e gli suggerì d’andare un po’ fuori a fare una giratina per sollievo.

             Si voltò a guardarla, torvo; alzò le spalle; non volle neanche risponderle.

             – Prenderà un po’ d’aria… – insistette quella, timidamente. – Starò attenta io ai bambini, non dubiti… Del resto, non si svegliano mai… Lei dovrebbe farlo anche per loro, mi perdoni. Così si ammalerà.

             Teodoro Piovanelli scosse il capo lentamente, con le ciglia aggrottate e gli occhi chiusi. Sotto la borsa delle palpebre gonfie gli fervevano le lagrime. Si levò da tavola, s’appressò alla finestra e si mise a guardar fuori dietro ai vetri.

             Eh già… Egli poteva uscire, ormai, volendo. Nessuno più gliel’impediva. Ma dove andare? e perché? Che funebre squallore nel bujo delle vie deserte, vegliate dai radi lampioni! Rivide col pensiero, come in sogno, altre vie meglio illuminate; immaginò la gente che vi passava, assorta nelle proprie cure, con affetti vivi in cuore, con desiderii vivi nell’anima, o guidata da una abitudine ch’egli non aveva più; immaginò i caffè luccicanti di specchi…

             D’un subito si voltò a guardar la camera, come a un richiamo imperioso, minaccioso dello spettro della moglie. Cominciava già a venir meno al giuramento? No, no! E si recò nella camera dei bambini; si chinò sui lettucci per contemplarli nel dolce sonno; rattenne la mano tratta irresistibilmente a carezzar le loro testoline: poi si volse, soffocato dall’angoscia, a guardare il ritratto della moglie.

             Oh con quale ardore la desiderò in quel momento! Sì, sì, nonostante tutto il martirio che ella gli aveva inflitto per nove anni. Sì, egli la voleva, la voleva! aveva bisogno di lei! Senza di lei non poteva più vivere. Oh, anche a costo di soffrire da lei le pene più ingiuste e più crudeli… Non poteva rassegnarsi a vedere così spezzata per sempre la sua esistenza!

             Aveva appena quarant’anni!

             IV. Man mano che i giorni passavano, e i mesi ormai (eran già quattro mesi!), quel posto vuoto, lì, nel letto matrimoniale, gli suscitava ogni notte, nel cocente ricordo, smanie vieppiù disperate.

             Col volto nascosto, affondato nel guanciale che si bagnava di lagrime, bisbigliava nell’ambascia della passione il nome di lei:

             – Cesira… Cesira…

             E il cuore gli si schiantava.

             – Sempre così… sempre così – mormorava poi, più calmo, con gli occhi sbarrati nel bujo.

             Ah come s’era ingannata la moglie sul conto di lui! Ecco: questo pensiero lo struggeva più d’ogni altro, e di continuo vi ritornava su. Se n’era fatto una lima.

             Che il mondo fosse tristo, tristi gli uomini, triste le donne, così come la moglie aveva creduto, egli poteva ammettere; ammetteva. Ma lui? tristo anche lui?

             Certo, chi sa quanti uomini, rimasti vedovi all’età sua, dopo tre o quattro mesi, cedendo al bisogno stesso della natura… pur non volendo, pur serbando in cuore viva sempre l’immagine della moglie morta e la pena d’averla perduta, cominciavano a uscire di sera e… sì, a uscire per lo meno.

             Aveva ragione la moglie: «Facilissime, le donne! Se ne incontrano tante per via…».

             Ma a quarant’anni… eh, a quarant’anni, senza più l’abitudine, non doveva esser mica piacevole rimettersi a far la vita del giovanottino scapolo.

             Chi sa quale avvilimento di vergogna!

             D’altra parte, però… a mettersi con altre donne… Prima di tutto, perdita di tempo; poi, chi sa quanti impicci e anche… anche una certa difficoltà…

             Per esempio, quella guantaja dalla quale egli andava prima a comperare i guanti per la sua Cesira, 6 e 1 /4 (vi era andato dopo la disgrazia a comperarne un pajo anche per sé, neri, per il funerale) – quella guantaja, ecco… una signora, una vera signora! Come si moveva nella bella bottega lucida, tepida e profumata! Il corpo leggermente proteso… E mica si sentiva il rumore dei passi; si sentiva il fruscio discreto della sottana di seta… Nessun imbarazzo, come nessuna sfrontatezza. Voce dolce, modulata; meravigliosa prontezza a comprendere… E non già soltanto per attirar la gente. Era così. O almeno, pareva così; naturalmente. Che nettezza e che precisione! Ebbene, a mettersi con quella… Dio liberi! E le conseguenze? I proprii piccini… Ah!

             A questo pensiero, retrocedeva d’improvviso, quasi inorridito d’essersi indugiato a fantasticare su tale argomento. Ma, via! troppo bene sapeva che tali cose non potevano e non dovevano più sussistere per lui. Si forzava a dormire. Ma pur con gli occhi chiusi, poco dopo, ecco qualche altra visione tentatrice… Fingeva di non avvertirla, come se gli fosse apparsa non provocata da lui. La lasciava fare… A poco a poco s’addormentava.                          >

             Ma la sera dopo, il supplizio ricominciava. E la vecchia serva a insistere, a insistere, che via! uscisse di casa per una mezz’oretta sola, almeno, a prendere un po’ d’aria…

             Batti e batti, alla fine Teodoro Piovanelli si lasciò indurre. Ma quanto tempo mise a vestirsi! e volle prima recarsi a vedere i bambini che dormivano, e rassettò ben bene le coperte sui loro lettini, e poi quante raccomandazioni alla serva, che stesse bene attenta, per carità! Tuttavia, non ardì alzare gli occhi al ritratto della moglie.

             E uscì.

             V. Appena su la via, si vide come sperduto. Da anni e anni non andava più fuori, la sera. Il bujo, il silenzio gli fecero un’impressione quasi lugubre… e quel riverbero là, vacillante, del gas sul lastricato… e più là, in fondo, nella piazza deserta, quelle lanterne vaghe delle vetture… Dove si sarebbe diretto?

             Scese verso Piazza delle Terme, tutta sonora dell’acqua luminosa della fontana delle Najadi. Ricordò che la moglie non voleva ch’egli si fermasse a guardar quelle Najadi sguajate. E non si fermò.

             Povera Cesira! Com’era sdegnata che il corpo della donna fosse esposto in atteggiamenti così procaci a gli sguardi maligni e indiscreti degli uomini! Ci vedeva come un’irrisione, una mancanza di rispetto per il suo sesso, e voleva sapere perché nelle fontane i signori scultori non esponevano invece uomini nudi. Ma in Piazza Navona, veramente… la fontana del Moro… E poi, gli uomini nudi… in atteggiamenti procaci… via, forse sarebbero stati un pochino più scandalosi…

             Teodoro Piovanelli, così pensando, ebbe un barlume di sorriso su le labbra amare; e imboccò Via Nazionale.

             A mano a mano che andava, sopite immagini, impressioni rimaste nella sua coscienza d’altri tempi, non cancellate, sì svanite a lui per il sovrapporsi d’altri stati di coscienza opprimenti, gli si ridestavano, sommovendo e disgregando a poco a poco, con un senso di dolce pena, la triste compagine della coscienza presente. E ascoltò dentro di sé la voce lontana lontana di lui stesso, qual era in gioventù; la voce delle memorie sepolte, che risorgevano al respiro di quell’aria notturna, al suono de’ suoi passi nel silenzio della via.

             Arrivato all’imboccatura di Via del Boschetto, s’arrestò, come se qualcuno a un tratto lo avesse trattenuto. Si guardò attorno; poi, perplesso, con infinita tristezza, guardò giù per quella via, e scosse mestamente il capo.

             Tutti i ricordi, le immagini, le impressioni del suo vagabondare notturno d’altri tempi, del tempo in cui era scapolo, si associavano al pensiero di una donna, di quell’unica ch’egli aveva conosciuta prima delle nozze, donna non sua solamente, ma a cui egli, per abitudine, per timidezza, era pure stato sempre fedele, come poi alla moglie.

             Quella donna stava lì, allora, in Via del Boschetto.

             Si chiamava Annetta; lavorava d’astucci e di sopraffondi; ma le piaceva vestir bene e gli ori le piacevano e i giojelli, anche falsi… Finché aveva avuta la madre, s’era mantenuta onesta; poi la madre le era morta, e lei non aveva più saputo veder la ragione di sacrificarsi a vivere in quel modo, senza il compenso di qualche godimento… Così era caduta. Ogni volta, come per rialzarsi innanzi a se stessa, per non sentir l’avvilimento di ciò che stava per fare, affliggeva quei pochi fidati che andavano a trovarla narrando quanto aveva fatto durante la lunga malattia della madre, tutte le cure che le aveva prodigate, i medicinali costosi che le aveva comperati, quasi per assicurare se stessa che, almeno per questo, non doveva aver rimorsi.

             Ebbene, Teodoro Piovanelli, abbandonato in quella sua prima uscita ai ricordi d’allora, guidato naturalmente dall’istintiva esemplare fedeltà così crudelmente misconosciuta e negata dalla moglie, ecco, s’era proprio arrestato là, all’imboccatura di Via del Boschetto.

             Si vietò d’assumer coscienza del pensiero sortogli d’improvviso, che non sarebbe stato un tradimento alla memoria della moglie, un venir meno al giuramento che le aveva fatto di non avvicinare mai più altra donna, se fosse ritornato a quella, che già la moglie sapeva per sua stessa confessione. Quella non sarebbe stata un’altra; quella era già stata sua; ed egli non avrebbe smentito, con quella, la sua fedeltà. La avrebbe anzi confermata.

             No: non se lo volle dire; non se lo volle fare questo ragionamento. Scese per Via del Boschetto soltanto per curiosità, ecco; per la voluttà amara di seguir la traccia del tempo lontano: senza alcun altro scopo. Del resto, non sapeva più neppure se colei stesse ancora lì. Era molto difficile, dopo nove anni… L’aveva riveduta tre o quattro volte per via, vestita poveramente, invecchiata, imbruttita, certo caduta più in basso; ma, naturalmente, aveva fatto finta non solo di non riconoscerla, ma di non averla mai conosciuta.

             Quando, di pochi passi lontano dal portoncino ben noto, a destra, scorse la finestretta quadra del mezzanino, sulla porta, con le persiane accostate, che dalle stecche e da sotto lasciavano intravedere il lume della cameretta, Teodoro Piovanelli si turbò profondamente, assalito dall’imagine precisa, là, vivente, del ricordo lontano… Tutto, tal quale, come allora! Ma ci stava proprio lei, là, ancora? S’accostò al muro, cauto, trepidante, e passò rasente, sotto la finestra; alzò il capo; scorse dietro alle persiane un’ombra, una donna… – lei? – Passò oltre, tutto sconvolto, insaccato nelle spalle, col sangue che gli frizzava per le vene, come sotto l’imminenza di qualche cosa che dovesse cadérgli addosso.

             Violentemente gli si ricompose la coscienza tetra e dura del suo stato presente; rivide in un baleno col pensiero la camera dei bambini e quel ritratto, là, vigilante, terribile, della moglie; e s’arrestò affannato nella corsa che aveva preso. A casa! a casa!

             Se non che, davanti al portoncino… ma sì, lei… lei ch’era scesa… Annetta, sì. Egli la riconobbe subito. E anche lei lo riconobbe:

             – Doro… tu?

             E stese una mano. Egli si schermì.

             –    Lasciami… No, ti prego… Non posso… Lasciami…

             –    Come! – fece lei, ridendo e trattenendolo. – Se sei venuto a cercarmi… T’ho visto, sai? Caro… caro… sei tornato!… Su, via! Perché no? Se sei tornato a me… Su, su…

             E lo trasse per forza dentro il portoncino, e poi su per la scala, tenendolo per il braccio. Egli ansava, col cuore in tumulto, la mente scombujata. Voleva svincolarsi e non sapeva, non sapeva. Rivide la cameretta, tal quale anch’essa, dal tetto basso… il letto, il cassettone, il divanuccio… le oleografie alle pareti…

             Ma quando ella, tra tante parole affollate di cui egli non udiva altro che il suono, gli tolse il cappello e il bastone e poi i guanti, e fece per abbracciarlo, Teodoro Piovanelli, che già tremava tutto, la respinse, si portò le mani al volto, vacillò, come per una vertigine.

             –   Che hai? – domandò ella sorpresa, un po’ costernata: e lo trasse a sedere sul divanuccio.

             Un impeto di pianto scosse le spalle di lui. Ella si provò a staccargli le mani dal volto; ma egli squassò il capo rabbiosamente.

             –    No! no!

             –    Tu piangi? – domandò la donna; poi, dopo aver guardalo il cappello fasciato di lutto: – Forse… forse t’è morta?…

             Egli accennò di sì col capo.

             –   Ah, poveretto… – sospirò lei, pietosamente.

             Teodoro Piovanelli scattò in piedi, convulso; prese i guanti, il bastone, si buttò in capo il cappello; balbettò, soffocato:

             –   Impossibile… impossibile… lasciami andare…

             Ella non si provò più a trattenerlo; lo accompagnò, dolente, fino alla porta. Poi lì, sicurissima ormai che sarebbe ritornato, gli domandò, con voce mesta e con un mesto sorriso:

             –   T’aspetto, eh, Doro?… Presto…

             Ma egli s’era messo sulla bocca il fazzoletto listato di nero, e non le rispose.

L’uscita del vedovo – Audio lettura 1 – Legge Lorenzo Pieri
L’uscita del vedovo – Audio lettura 2 – Legge Valter Zanardi
L’uscita del vedovo – Audio lettura 3 – Legge Gaetano Marino
L’uscita del vedovo – Audio lettura 4 – Legge Giuseppe Tizza

««« Indice Audio letture

Se vuoi contribuire, invia il tuo materiale, specificando se e come vuoi essere citato a
collabora@pirandelloweb.com

Shakespeare Italia

Skip to content