22. L’invito

l’invito

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l'invito

22. L’invito

Dal Marzocco, 29 novembre 1896, con l’indicazione: Labirinto, Libro IV, “Auspici”.

Di questo pan che tolgo a la mia mensa
tu dunque t’accontenti? Io dar ti posso
ben altro: avrai quanto la mia dispensa
può darti. Vieni! Non guardarti addosso
i panni: ti vergogni? Entra con me:
siedi a la mensa mia! Saranno lieti
di provar le tue scarpe i miei tappeti…
Credi ch’io voglia ridermi di te?.

È troppo, dici. È vero, è troppo. Tu
non chiedi tanto, e non avresti mai
battuto a la mia porta, se da piú
giorni il lavor non ti mancasse ormai.
Io forse non so far la carità.
Ma non intendo offendere il pudore
de la miseria tua. Vorrei, col cuore
su le labbra, parlar di povertà,

conversar teco… Vuoi? Fra tanto insieme
desineremo: non ti guarderò,
tu mangia come sai. Quel che mi preme
di sapere è ben altro, e lo saprò
da le tue labbra. Vicolo e stamberga
ov’abiti, m’imagino: migliori
stalle han certo i cavalli dei signori:
la fame e il freddo la tua stanza alberga.

Tu scuoti il capo e guardi intorno. Ammiri
le lampade, le tende, la mobilia
e la mensa imbandita; poi rigiri
su me lo sguardo, e l’occhio tuo s’umilia
quasi istintivamente… Ma è cosí
ch’io di te son piú povero! M’ascolta:
tu non saprai comprendermi; ma è stolta
l’umiltà tua per questo lusso qui.

È vero, è ver: qui il freddo de l’inverno
non entra: il fuoco arde da mane a sera;
ma un freddo tu non senti, un gelo interno
qui, tra questo tepor di primavera?
Hai un’anima tu pure? Ebbene, io l’ho
assiderata! Ahimè, per quanto foco
rifaccia nel camin, dentro alcun poco
venirmene o fratel, giammai non può.

Non vien da me, dal mio lavoro, questa
ricchezza che tu vedi. Il mio lavoro
senza compenso e quasi ignoto resta.
Ah, mi parrebbe un piccolo tesoro

quel che dai tuoi sudor ricavi tu,
se basta a farti vivere, anche male;
mentr’io qui, senza questa abituale
ricchezza, non saprei vivere piú.

E a te riscalda l’anima una fede,
ch’io non discuterò. Vivo lontano
io d’ogni fede e d’ogni lotta. Vede
l’anima mia forse tropp’oltre? In vano
cosí l’una che l’altra alfin sarà…
Ma tu lotta, n’hai dritto; avrai dimane
meno squallida casa e miglior pane…
Sarai pago? Oh no, mai! Ma non avrà

pace né tregua l’anima dell’uomo.
La lotta è oblio de’ suoi tormenti veri.
Or la reggia ei rovescia e insieme il duomo,
diman rovescerà quello che jeri
edificò con tanto amor; finché
non chiuderà per sempre l’ideale,
in grembo della morte ultima l’ale,
ignoto all’uomo e forse ignoto a sé.


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