Il turno – Capitolo 22

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Il turno - Capitolo 22

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XXII.

            Esortandosi per via con frasi vibranti di sdegno, Marcantonio Ravì corse in gran furia alla casa del Coppa. Quando pervenne davanti alla porta, non tirava più fiato.

            Venne ad aprirgli Pepè Alletto.

            – Voi qua? – gli gridò don Marcantonio. – Ingrataccio! anche voi?

            Fu interrotto da un terribile colpo di frustino su la scrivania dello studio attiguo, e poco dopo il Coppa irruppe nella saletta urlando:

            – Chi è là? Chi si permette?

            – Perdoni, pregiatissimo signor avvocato! – prese a dire il Ravì, togliendosi il cappello.

            – Via! via! – incalzò il Coppa, indicandogli la porta col frustino. – Uscite, subito, via!

            – Ma, nossignore: io son venuto… perdoni… Don Pepè, parlate voi per me…

            – Caccialo subito via! – ordinò Ciro al cognato.

            – Mi faccio meraviglia… voi, don Pepè? – pregò, ferito, il Ravì. – Perdoni, signor avvocato… Purché mi lasci parlare, le parlerò anche in ginocchio.

            E in così dire, don Marcantonio accennò di piegarsi su i ginocchi; ma, in quella, su la soglia dello studio, si presentò donna Carmela Mèndola, l’accanita vicina, la quale, con l’indice teso contro il Ravì, si mise a strillare:

            – Lui, lui, sissignore! ha bastonato la figlia, sissignore: lo grido davanti agli uomini e davanti a Dio! Non ho paura, io! Lui! Lui!

            – Zitta, voi! – le impose, furibondo, il Coppa. – E voi, – aggiunse, afferrando per un braccio il Ravì, – fuori! Non voglio scenate in casa mia!

            Don Marcantonio diventò pallidissimo, e minacciò con gli occhi torbidi e la voce tremante.

            – Ma infine…

            Il Coppa gli diede uno spintone:

            – Fuori!

            – Io sono un vecchio! – esclamò il Ravì, passandosi su i capelli la mano levata minacciosamente.

            – Ciro… – pregò a bassa voce Pepè, impietosito.

            Ma il Coppa replicò con violenza:

            – Fuori! Ricordàtelo a voi stesso che siete un vecchio, prima che gli altri, per l’imprudenza vostra, se lo dimentichino!

            – Imprudenza?… – disse il Ravì. – Ma io vengo…

            – Le vostre ragioni le direte ai giudici; intanto, via!

            La Mèndola, appena uscito il Ravì, volle lodar l’avvocato del degno modo con cui aveva accolto colui.

            – Nient’affatto! – negò Ciro. – Ho agito malissimo. Ma per causa sua: non doveva venire.

            – Padre snaturato! – insistette la Mèndola.

            – Nient’affatto! – negò di nuovo, più vivamente, Ciro, adirandosi. – Lui ha creduto e crede d’agire per il bene della figlia. Ma ciò non toglie che non abbia commesso un delitto… Pepè, non mi guardare in bocca con codesta faccia da scimunito: mi dài ai nervi, te l’ho già detto. Ritorniamo al lavoro. Siedi e scrivi!

            Pepè era diventato lo scrivano e il galoppino di Ciro. La felicità sua, in quei giorni, era soltanto turbata dalla costernazione costante, anzi dalla paura di non contentare in tutto e per tutto il cognato che lo comandava a bacchetta, e per cui ora sentiva una riconoscenza illimitata, pur sapendo che egli non si era messo così accanitamente in quella briga per lui, bensì per ispirito d’autorità e di giustizia. E lo ammirava e, sorridendo tra sé e stropicciandosi le mani dalla gioja, ripeteva la frase preferita dal Coppa:

            – Prepotenze, neanco Dio!

            Ma ecco, intanto, si distraeva. – Al lavoro! al lavoro! – Non doveva pensare a nulla, fino a tanto che la lite non fosse vinta, fino al giorno in cui Stellina non fosse sua… lì, lì, in quella stessa casa, proprio lì… E Pepè, in un impeto d’amore, si stringeva e baciava le mani, come fossero quelle di Stellina.

            Aveva fatto il giro di tutto il vicinato del Ravì, per raccogliere testimonianze a sostegno del processo che Ciro imbastiva. Quando alla fine la maggior parte del lavoro fu abbozzata, il Coppa volle ch’egli si recasse anche da don Diego Alcozèr per invitarlo a un abboccamento.

            – Onoratissimo dell’invito, – disse don Diego a Pepè. – Eccomi pronto. Sono con voi.

            Ciro lo accolse con molto garbo; e don Diego, grato di quell’accoglienza, volle toglier subito all’ospite l’imbarazzo di certe domande difficili, entrando lui per primo nell’argomento.

            – Lor signori sono giovani, rispetto a me, – disse, rivolgendosi pure a l’Alletto, – e perciò potrebbero anche aspettare. Ma io son vecchio, e mi preme di – uscire di questa briga quanto più presto sia possibile. Quonam pacto? Sono dispostissimo a tutto, signor avvocato. Mi suggerisca lei.

            Ciro rimase a guardarlo, intento, un tratto, tra la sorpresa e la diffidenza. Poi, per provarlo subito, gli disse:

            – Ma… ecco… ci sarebbe da fare semplicemente… se lei volesse aver la bontà… una… una…

            – Dichiarazioncina?… – suggerì l’Alcozèr, accompagnando la parola col sorrisetto frigido che Pepè gli conosceva. E aggiunse: – Una domanda. Sarà discussa a porte chiuse la causa?

            – Certo, – rispose Ciro. – Se lei lo vuole… Sarebbe, in fondo, considerando gli anni, a cui ella ha avuto la fortuna di pervenire, sarebbe un lieve sacrificio di vanità.

            – Non ne ho, di questo genere… – lo interruppe argutamente il vecchietto. – Sarei ridicolo, all’età mia. Però, siccome codesto sacrificio che lei dice potrebbe forse, in certo qual modo, danneggiarmi per l’avvenire… per quei pochi giorni che mi restano di questa sciocca fantocciata che chiamiamo vita… ecco, se ci fosse qualche altro rimedio…

            – Questo, – osservò il Coppa, ammirando la filosofica schiettezza con cui l’Alcozèr trattava la questione, e vedendolo inchinevole a cedere, – questo sarebbe il mezzo più sicuro, più sbrigativo.

            – Ebbene, – si rimise don Diego, scrollando le spalle e sorridendo, – pur d’uscirne…

            Così, non ponendo egli, ch’era la parte più interessata, nessun impegno in contrario, la lite, per le brighe, le raccomandazioni e le sollecitudini di Ciro, venne presto in Tribunale, e fu discussa a porte chiuse.

            Una moltitudine di curiosi sfaccendati attendeva impaziente il giudizio. Pepè Alletto aveva la febbre addosso e smaniava, senza un minuto di requie, dietro la porta chiusa, non ostante che l’usciere di guardia di tanto in tanto lo esortasse a far buon animo:

            – Dia ascolto a me che me n’intendo: causa vinta!

            La porta finalmente s’aprì. Ciro, raggiante, annunziò la vittoria. Scoppiarono applausi e grida. Batteva le mani, ridendo, anche don Diego Alcozèr. Ma don Marcantonio uscì dalla sala del Tribunale scotendo il testone raso, coi denti serrati, mentre abbondanti lagrime gli rigavano la faccia congestionata:

            – Figlia mia! figlia mia! Mi hanno assassinato una figlia!

            Pepè volle abbracciare il cognato; ma questi, nell’ebbrezza del trionfo, eccitato dagli applausi, lo respinse con un gesto furioso.

            Il Presidente del Tribunale, scampanellando, fece sgombrare il corridojo; ma, per via, la folla cresciuta continuò a batter le mani, e Ciro parlò:

            – Eroi i padri, o signori, che per render propizia la divinità alle nobili imprese della patria sacrificavan le figlie! Ma che dire d’un padre che, per loschi fini, la propria figlia sacrifica al dio Mammone?

            – Mammone! Mammone! Abbasso Mammone! – gridò la folla, tra le risa e gli applausi.

            E, da quel giorno, il Ravì fu chiamato da tutto il paese Marcantonio Mammone.

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