Il turno – Capitolo 16

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Il turno - Capitolo 16

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XVI.

            Di non andar quel giorno in casa Alcozèr, Pepè non volle metterlo neanche in deliberazione: sarebbe stato lo stesso che cedere al Salvo ogni diritto su Stellina, non solo, ma anche la prova più lampante d’una paura che egli non voleva riconoscere in sé. Approssimandosi l’ora della visita consueta, si recò pertanto dal Ravì per accompagnarsi con lui: certo il Salvo non avrebbe avuto la tracotanza di aggredirlo vedendolo in compagnia del padre di Stellina.

            Ma né don Marcantonio né la moglie erano in casa.

            – Sono dalla figlia, fin da mezzogiorno, – gli annunziò la serva. – Chi sa che sarà avvenuto, signorino mio! Con lei posso parlare… Quella povera creatura è sacrificata!

            Di nuovo su la strada, Pepè cominciò a riflettere: «Andarci? Conviene? Che dirà la gente se ci azzuffiamo proprio sotto le finestre della casa di lei? Io non sarei sicuro di me; ho usato prudenza jeri; ma, questa sera, se lo vedo, finisce male, parola d’onore! Del resto, loro sono in cinque; che meraviglia dunque se io mi accompagno con un altro?».

            E, così pensando, s’avviava a malincuore alla casa del Coppa. Temeva purtroppo che questi non lo costringesse a fare un secondo duello; perciò, la notte scorsa, aveva scartato subito il partito di recarsi da lui, che pur gli pareva scorta più sicura, che non il Ravì.

            Ciro, dopo la morte della moglie, non era più uscito di casa. Ai numerosi clienti che venivano a sollecitarlo, rispondeva misteriosamente:

            – Mi corre prima l’obbligo, signori, di riparare ben altri torti. Mi duole di non potervi servire.

            E i pretesi torti eran quelli della moglie defunta verso l’educazione dei due figliuoli. Invasato dall’idea di farne due uomini forti, li addestrava alla scuola degli antichi romani: li costringeva a correr nudi per circa mezz’ora ogni mattina attorno alla profonda vasca del giardino, e quindi a buttarsi nell’acqua diaccia.

            – O morti, o nuotatori!

            Poi comandava loro:

            – Asciugatevi al sole!

            E, se era nuvolo:

            – Il sole non c’è. Mi dispiace. Asciugatevi all’ombra.

            Niente più scuola: meglio bestie forti, che dotti tisici.

            – Lasciatevi coltivare da me.

            Pepè lo trovò che addestrava alla lotta i due ragazzi, lì nello studio.

            – Gioverebbe anche a te un po’ di questo esercizio! – gli disse Ciro. – Hai una faccia da morto, che fa schifo a guardarla. Qua! Fammi tastare il braccio… piegalo.

            Gli tastò il bicipite, poi lo guardò in faccia, come nauseato, e gli domandò:

            – Perché non t’ammazzi?

            – Ti ringrazio dell’accoglienza, – gli rispose con un risolino Pepè. – Fai anche ridere i ragazzi. Del resto, hai ragione. Vorrei essere anch’io come te, capace di tenere a posto una mezza dozzina d’accattabrighe. Il coraggio, sì… va bene; ma da solo, senza la forza, non basta.

            – Difetto dell’educazione! – gli gridò Ciro, dominato dall’idea fissa del momento.

            – Ah, certo… l’educazione influisce molto…

            – Molto? È tutto!

            – Hai ragione, sì… Ma di’ pure che c’è molta gente nel nostro paese, che non vuol farsi gli affari suoi.

            – Te n’hanno fatta qualche altra? – saltò a domandargli Ciro con piglio derisorio. – Ma se puzzi di carogna, lontano un miglio!

            – Nient’affatto! – negò Pepè, risentito. – Che non ho paura, dovrebbero saperlo; uno schiaffo, a chi se lo meritava, ho saputo appiopparlo…

            – Per combinazione!

            – Un duello, a buon conto, l’ho fatto…

            – Per forza!

            – Ma se ora vengono in cinque contro uno?

            – E chi sono? – domandò Ciro, con le ciglia aggrottate.

            – Mauro Salvo…

            – Ah, quel buffone con gli occhi a sportello?

            – Lui, coi fratelli e coi cugini Garofalo… in cinque, capisci? Mauro è innamorato pazzo – non corrisposto, bada, e perciò posso dirlo – di… della signora Alcozèr, tu la conosci: la figlia del Ravì. Ora, che te ne pare? pretende ch’io non vada più, dice, in casa di don Diego; né io, né lui, né nessuno, dice… Anzi, dice, se ci vado stasera, guaj a me… Mi aspetta coi suoi davanti al portoncino dell’Alcozèr.

            – Non capisco, – disse Ciro, infoscandosi. – Per prepotenza?

            – Per prepotenza… eh già! Capisci? sono in cinque…

            – E tu, babbeo? Hai detto che non saresti andato?

            – Nient’affatto!

            – Ma intanto sei qua… E hai paura! Te lo leggo negli occhi: hai paura! Ah, ma tu ci andrai, stasera stessa, or ora… Prepotenze, neanco Dio! Vieni con me.

            – Dove?

            – In casa Alcozèr!

            – Ora?

            – Ora stesso. Il tempo di vestirmi. A che ora suoli andarci tu?

            – Alle sei e mezzo.

            Ciro guardò l’orologio, poi esclamò, stupefatto:

            – Quanto sei vile!

            – Perché? – balbettò Pepè.

            – Sono le sette meno un quarto… Ma non importa: li troveremo… In cinque minuti son bell’e vestito.

            Scappò sù di corsa. Ridiscese, prima dei cinque minuti, che s’infilava ancora la giacca.

            – Aspetta, Ciro… la cravatta – gli disse Pepè, aggiustandogli il giro che gli usciva fuori del colletto.

            – Inezie! Pensi alla cravatta? – gridò il Coppa, fermandosi a fulminar con uno sguardo il cognato; poi gli diede uno spintone. – Cammina! Te li metto subito a posto io, senza bastone.

            E s’avviò con Pepè. Camminando, fremeva, e di tanto in tanto esclamava:

            – Ah sì?… Aspetta, aspetta. Ditelo a me, adesso, che in casa Alcozèr non deve andarci nessuno. Ci vado io. Ah, fai prepotenze tu? Aspetta, aspetta.

            Pepè gli arrancava accanto, come un cagnolino. Presso la casa dell’Alcozèr, alzò gli occhi a guardare, e disse piano al cognato, impallidendo:

            – C’è: eccolo lì, con gli altri.

            – Tira via! Non guardare! – gl’impose Ciro.

            – Tutt’e cinque, – aggiunse pianissimo Pepè.

            Mauro Salvo infatti era alla posta. Il satellizio dei fratelli e dei cugini si teneva a breve distanza, più in là. Appena Mauro scorse Pepè in compagnia del Coppa si staccò dal muro a cui stava appoggiato con le spalle, si tolse una mano di tasca, e venne loro incontro, a passo lento, guardando Ciro, a cui si rivolse, fermandosi in mezzo alla strada.

            – Col vostro permesso, avvocato: una parolina a Pepè.

            Ciro gli si parò di fronte, vicinissimo, lo guardò negli occhi, con le ciglia aggrottate, le mascelle convulse; si tirò con due dita il labbro inferiore, poi gli disse:

            – Con Pepè per il momento parlo io, e non permetto che gli parli nessuno. Lo dico a voi e lo dico pure ai vostri parenti che stanno là ad aspettarvi. Se volete dirla a me, la parolina, sono ai vostri comandi.

            – Preghiere sempre, don Ciro! – gli rispose Mauro, cacciandosi l’altra mano in tasca e alzandosi su la punta dei piedi, come se per ingozzar quel rifiuto avesse bisogno di stirarsi a quel modo.

            – A un’altra volta, col comodo vostro: non mancherà tempo.

            E s’allontanò.

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