Il testamento – Capitolo 4: E niente fiori sul letto e nessun cero acceso
Di Pietro Seddio.
Il fatto che non abbia voluto né fiori è ceri non è da considerare un capriccio quanto una conseguenza avendo sancito la nullità di quella vita che non voleva vestire, non poteva circondari di elementi così cari ai vivi: fiori e ceri accesi.
Il testamento di Luigi Pirandello
Per gentile concessione dell’ Autore
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Il testamento di Luigi Pirandello
Capitolo 4
E niente fiori sul letto e nessun cero acceso
Ecco la scena: un letto con sopra un cadavere nudo coperto da un semplice telo bianco che ne accentuava quella statica forma e figura che tanto avevano fatto parlare di lui. Una semplicità sconfortante, avvilente, soprattutto se si pensava cosa sarebbe accaduto se non fosse comparsa quella lettera testamentaria.
Il nulla prendeva forma e diventava realtà e nella fissità della morte Pirandello si riappropriava della propria vita per intero e questa volta senza nessuna interferenza esterna. Tornavano a mente le parole nella lettera alla sorella Lina del 31 ottobre 1886:
Quando tu riesci a non aver più un ideale, perché osservando la vita sembra un enorme pupazzata, senza nesso, senza spiegazione mai; quando tu non hai più un sentimento, perché sei riuscito a non stimare, a non curare più gli uomini e le cose, e ti manca perciò l’abitudine, che non trovi, e l’occupazione, che sdegni – quando tu, in una parola, vivrai senza la vita, penserai senza un pensiero, sentirai senza cuore – allora tu non saprai che fare: sarai un viandante senza casa, un uccello senza nido. Io sono così.
Il nulla. Il deserto interiore, l’aridità del suo cuore che a quel punto non potevano infiorarsi. Solo e solitudine anche in quel supremo momento. Il fatto che non abbia voluto né fiori è ceri non è da considerare un capriccio quanto una conseguenza avendo sancito la nullità di quella vita che non voleva vestire, non poteva circondari di elementi così cari ai vivi: fiori e ceri accesi.
Già, allorquando aveva raccolto le opere del suo teatro, aveva sancito che fossero “maschere nude” e questo ebbe un significato profondo che non mutò mai.
Tutto doveva apparire semplice, scarno, togliendo ogni orpello del quale gli uomini facevano incetta. Che amasse la natura è un fatto assodato perché per tanto tempo riuscì ad assorbire quella siciliana, ma più particolarmente quella del Caos, dove poté ammirarla facendo spaziare il suo sguardo verso il mare africano.
“Una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli d’un altipiano d’argille azzurre sul mare africano”.
Il suo ricordo nitido, della gioventù, che divento sbiadito allorquando si inoltrò per le strade della sua Girgenti constatando il degrado, l’abbandono che seppe descrivere mirabilmente nel suo romanzo: “I vecchi e i giovani”.
Proprio in questo testo il ruolo fondamentale della sua città natale venne trattato ampiamente anche dalla critica. Tutte le componenti hanno un valore strutturale e rappresentativo e sono nate dall’osservazione della realtà dei luoghi in cui visse per poi rivestirsi funzionalmente della visione personalissima della vita.
Nella sicilianità mediterranea dello stesso, Girgenti gioca il ruolo di proto tipico paese del sud e di cardine inceppato del mondo di fine Ottocento, intrappolato nell’immobilità sociale e toccato solo marginalmente dalla storia.
Lo stesso Garibaldi, sbarcando in Sicilia, non passò nemmeno da quelle contrade e tale evento colpì il Maestro pensando che quella zona era abbandonata da Dio e dagli uomini.
Anche la Chiesa rimaneva immobile in quanto divisa sul modo di reagire alla nascente crisi sociale dei Fasci. Tutto era immobile, abbandono, aridità e perfino la natura sembra essersi inaridita come i cuori e le menti.
Questa palpante aridità la trascrisse, poeticamente, nel romanzo e di questa parte descrittiva si pensa sia giusto riportare qualche brano.
“La pioggia caduta a diluvio durante la notte, aveva reso impraticabile quel lungo stradone di campagna, tutto a volte e risvolte, quasi in cerca di men faticose erte e di pendii meno ripidi. Il guasto delle intemperie appariva tanto più triste, in quanto, qua e là, già era evidente il disprezzo e quasi il dispetto della cura di chi aveva tracciato e costruito la via per facilitare il cammino tra le asperità di quei luoghi con gomiti e giravolte e opere or di sostegno or di riparo: i sostegni eran crollati, i ripari abbattuti, per dar passo a dirupate scorciatoie. Piovigginava ancora a scosse nell’alba livida tra il vento che spirava gelido e raffiche di ponente; e a ogni raffica, su quel lembo di paese emergente or ora, appena cruccioso, dalle fosche ombre umide della notte tempestosa, pareva scorresse un brivido, dalla città, alta e velata sul colle, alle vallate, ai poggi, ai piani irti ancora di stoppie annerite, fino al mare laggiù, torbido e rabbuffato. Pioggia e vento parevano un’ostinata crudeltà del cielo sopra la desolazione di quelle piagge estreme della Sicilia, su le quali Girgenti, nei resti miserevoli della sua antichissima vita raccolti lassù, si levava silenziosa e attonita superstite nel vuoto di un tempo senza vicende, nell’abbandono d’una miseria senza riparo. Le alte spalliere di fichidindia, ispide, carnute e stravolte, o le siepi di rovi secchi e di agavi, le muricce qua e là screpolate erano di tratto in tratto interrotte da qualche pilastro cadente che reggeva un cancello scontorto e arrugginito o da rozzi e squallidi tabernacoli, i quali, nella solitudine immobile, guardati dagl’ispidi rami degli alberi gocciolanti, anziché conforto ispiravano un certo sgomento, posti com’eran lì a ricordare la fede a viandanti (per la maggior parte campagnoli e carrettieri) che troppo spesso, con aperta o nascosta ferocia, dimostravano di non ricordarsene.
Qualche triste uccelletto sperduto veniva, col timido volo delle penne bagnate, a posarsi su essi; spiava, e non ardiva mettere nemmeno un lamento in mezzo a tanto squallore”.
Prosa o poesia? Solo sentimento profondo di chi vive in prima persona immagazzinando tutta la negatività della campagna che rappresenta quella ancora più nitida dei cittadini.
Elementi tutti negativi che si coagulano, formano un roccioso grumo che mai più sarà scalfito: sarà l’oggetto di tutta la tematica che si potrà poi notare, nel corso del tempo, in tutta la produzione dell’autore.
Quindi, rispettando i canoni della sua convinzione, era giusto che attorno a lui, per quella occasione, non ci fossero né fiori né ceri, avendo vissuto per tutto quel tempo in mezzo alla completa aridità esteriore quanto interiore.
La sua visione di questa Girgenti malconcia, abbandonata, è la dimostrazione concreta della società che l’abita che vive senza progetti, senza speranza, senza alcuna positiva condizione sociale e politica.
Tale convincimento, in un certo senso, lo ritroveremo in alcune frasi che Enrico IV, pronuncerà:
“Vi sembra una burla anche questa, che seguitano a farla i morti la vita? Si, qua è una burla: ma uscite di qua, nel mondo vivo. Spunta il giorno. Il tempo è davanti a voi. Un’alba. Questo giorno che ci sta davanti voi dite lo faremo noi! Si? Voi? E salutatemi tutte le tradizioni. Salutatemi tutti i costumi. Mettetevi a parlare! Ripeterete tutte le parole che si sono sempre dette! Credete di vivere? Rimasticate la vita dei morti”.
L’illusione della vita, la catastrofe incombente che non si avverte ma che continua ad aleggiare prima della tragedia finale. Allora a cosa valgono gli orpelli? Non certo sono per i morti, ma certamente per i vivi che vogliono avere il cuore in pace.
Cosa direbbero i vicini, gli amici se al morto non si rendessero onori visivi, anche se pacchiani.
Non è la pietà per i morti, ma l’avidità interiore ed intellettuale dei vivi che tali si credono, non sapendo che sono più morti del morto che onorano. E tutto questo Pirandello non l’ha voluto, consapevole che la vita, come diceva Lorenzo il Magnifico, “fugge via e di doman non c’è certezza”.
Pietro Seddio
Il testamento di Luigi Pirandello
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