Il testamento – Capitolo 1: Sia lasciata passare in silenzio la mia morte
Di Pietro Seddio.
In certi momenti di silenzio interiore, scriveva Pirandello, in cui l’anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita e in sé stessa la vita quasi in una nudità arida, inquietante, ci sentiamo assaltare da una strana impressione, come se, in un baleno, ci si schiarisse una realtà diversa da quella che normalmente percepiamo.
Il testamento di Luigi Pirandello
Per gentile concessione dell’ Autore
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Il testamento di Luigi Pirandello
Capitolo 1
Sia lasciata passare in silenzio la mia morte
Assai probabile che questo rigo abbia provocato un vero e proprio terremoto già sapendo che in molti si sarebbero presentati per tessere le lodi in modo ufficiale e dinanzi a quel falso pubblico di dolenti. Infatti i componenti del Partito Fascista, soprattutto, alla notizia della morte dello scrittore, seppur e per niente lo avevano apprezzato, iniziarono a preparare i gagliardetti, le bandiere, rispolverare le loro divise militare o accademiche pronti a sfilare dietro il feretro al quale era giusto (quanta falsità!) tributare onori dimenticando che due anni prima quando ricevette il Premio Nobel fecero finta che niente era accaduto. Volutamente, con una mossa da esperto scacchista, dietro loro scacco matto tanto da disarmarli e con quella lucida sagacia e traboccante ironia li lasciò lividi e scornati.
Non avrebbero partecipato a quella “pagliacciata” come sicuramente avrebbe detto il Maestro. Coloro (veramente pochi) che avevano seguito l’evolversi dell’arte pirandelliana, fin da subito, compresero perfettamente il senso di quelle parole e tra questi Corrado Alvaro che in molti interventi scritti ha relazionato con lucidità intellettuale. E fu proprio parlando dello scrittore agrigentino (“Taccuino segreto), cercò di cogliere l’essenza non solo della vita in generale, ma quella di ogni singolo uomo che è un insieme di “forme” per cui arriva a dire che Vita e Forma, lotta tra Vita e Forma, antitesi tra Forma e Forme, furono nell’idea dello scrittore termini provvisoriamente espressivi dell’esperienza personale cieca e contraddittoria ch’egli trasfonde nel mondo ideale dell’arte.
“Pirandello, scrive Corrado Alvaro, coglie esattamente questo momento, prima ancora che venti anni di critica e di fatti compiano l’opera; la sua apparizione sull’orizzonte de teatro ha questo valore annunziatore. Davanti al crepuscolarismo, allo smarrimento dell’uomo e della sua parte, la stracca commedia salottiera diviene in Pirandello un fatto nuovo, capace di reazioni. L’uomo si rivolta come un eroe disperato, la reazione dei valori convenzionali diviene fin troppo acuta e urtante: l’individuo in giacchetta potrebbe portare la spada della tragedia, può di nuovo uccidere, cioè offendere, difendersi, affermare il valore d’una verità fondamentale, d’un fatto morale e d’una coscienza. Il valore sociale dell’apporto pirandelliano è nella intuizione d’una società nuova, e difatti i suoi personaggi si possono ridurre a una espressione e a un atteggiamento; reazione contro tutto quello che nella società borghese è ormai privo di contenuto vitale: un cammino a ritroso dagli appetiti agli istinti”. [1]
[1] Corrado Alvaro, Taccuino Segreto, in Almanacco Bompiani, pag. 31
In questa analisi è evidente che Alvaro conoscesse a fondo quell’animo, quei tormenti, quelle convinzioni e determinazioni che, come massi, scagliava nei confronti della società, e quelle poche righe scarne, era l’ultimo sasso scagliato, ma questa volta da un vero “gigante”, lo stesso con il quale si era confrontato l’ultima notte prima di morire.
In questa ottica, attraverso quell’analisi interiore cui per tanto tempo si sottopose il Maestro, appare del tutto evidente che il suo desiderio di silenzio, almeno dopo morte, fosse una condizione imprescindibile che gli competeva di diritto.
Ogni uomo ha il diritto della riservatezza, del silenzio e quale momento migliore se non quando ci si trova di fronte alla morte?
“In certi momenti di silenzio interiore, scriveva Pirandello, in cui l’anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita e in sé stessa la vita quasi in una nudità arida, inquietante, ci sentiamo assaltare da una strana impressione, come se, in un baleno, ci si schiarisse una realtà diversa da quella che normalmente percepiamo; una realtà vivente oltre la finzione colorata dei nostri sensi, oltre la vita umana, fuori dalle forme dell’umana ragione e forse senza alcun sospetto dell’inganno umano o con una derisoria commiserazione di esso.
Lucidamente allora la compagine della esistenza quotidiana, quasi sospesa nel vuoto del nostro silenzio interiore, ci appare priva di senso, priva di scopo; e quella realtà diversa ci appare orrida nella sua crudezza impassibile e misteriosa, poiché tutte le nostre fittizie relazioni consuete di sentimenti e di immagini, si sono scisse e disgregate in essa.
Il vuoto interiore si allarga, varca i limiti del nostro corpo, diventa vuoto intorno a noi, un vuoto strano, come un arresto del tempo e della vita, come se il nostro silenzio interiore sì sprofondasse negli abissi del mistero. Con uno sforzo supremo cerchiamo allora di riacquistare la coscienza normale delle cose, di riconnettere le nostre idee, di risentirci vivi come per l’innanzi, al modo solito.
Ma a questa coscienza normale, a queste idee riconnesse, a questo sentimento solito della vita non possiamo più prestar fede, perché sappiamo ormai che sono un nostro inganno per vivere e che sotto c’è qualcos’altro, a cui l’uomo non può affacciarsi, se non a costo di morire o d’impazzire”. [2]
[2] Luigi Pirandello, Deserti nel cuore, in Almanacco Bompiani, pag. 14
Ovvio arguire, sulla scorta di queste interessanti indicazioni, che per l’autore sentirsi vivere, per la prima concezione, dovette significare, e infatti significò, acquistar coscienza del moto perenne della vita, investirsi della attività creatrice e liberatrice, superarsi in un fecondo travaglio; per lui, invece sentirsi vivere volle dire non abbandonarsi più con incoscienza a quel fiotto di Vita, non aderire più a quell’onda turbinosa, distaccarsene e tentare di farsene una realtà.
Molto coerente il suo desiderio di rispettare la sua morte e raccogliersi in silenzio.
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Agli amici, ai nemici preghiere, non che di parlarne suoi giornali, ma di non farne cenno.
Apparve fin da subito che il Maestro avrebbe detestato ogni forma di propaganda, preferiva (lui considerato ateo) che amici e nemici pregassero anziché perdere tempo a divulgare notizie, anche false, ai giornali ai quali imponeva il più assoluto silenzio e quindi di non diffondere alcuna notizia dell’evento.
La frase “ai nemici preghiere” destò una certa impressione sapendo del distacco religioso tra l’Autore e la Chiesa e di questo distacco, tra gli altri che se ne fece interprete, un grande autore italiano, Giovanni Papini che cercò di fissare i termini mediante i quali Pirandello intese definire la natura umana, gli uomini e siccome è alquanto importante e determinante si ritiene opportuno proporre quella analisi per intero:
“In Pirandello scrittore due versanti illuminati e fertili: Novella e Teatro. In alcune, e diciamo pur molte, novelle il meglio di lui come artista: tradizione siciliana, verghiana, naturalista, ma risolutamente e onestamente arricchita.
Pirandello, nei racconti, è un Verga che sa pensare e sorridere; di più di uno scrittore generoso di personali risorse, sagace inquisitore dell’uomo bestia e maschera, odiatore alacre d’ogni comodità di abitudini e d’ogni civettesca mediocrità. Il più sicuro gruzzolo di Pirandello è nascosto nelle ‘Novelle per un anno’, poco lette in Italia, quasi ignote fuori.
Nel Teatro, che gli dette fama intercontinentale, Luigi Pirandello continuò, a suo modo, Leopardi e Ibsen. Dal norvegese la smania di sbuzzare e pesticciare sui palcoscenici i luoghi comuni della morale borghese; dal recanatese l’eroica volontà di perseguitare negli ultimi ripari gli ideologici idoli delle tribù umane.
Leopardi, però, s’era contentato di abbandonare, gemendo, le illusioni della gloria, della gioventù, della durata, della Natura e del Sommo Bene.
Pirandello più armato e più crudele, s’è proposto di liquefare le illusioni superstiti: l’unicità dell’io, la monocromia del carattere, la possibilità di conoscere e di prevedere i moti dell’anima, la comune onestà, quasi ogni forma di amore. Invece di piangere su tante rovine pareva che di quella universale eversione si compiacesse e ridesse. In realtà ne soffriva più dei lacrimosi. Era talmente assetato di verità che non poteva contentarsi di contraffazioni e di facsimili.
E nel furor distruttivo trovava il suo estro creativo; nell’eracliteo fluire dell’essere il suo punto d’appoggio nella disperazione una specie di severo conforto.
Il grande compito di Luigi Pirandello fu quello di camuffare certi falsi assoluti dell’Ottocento, quei troppo umani relativi che avevan preso il posto del vero Assoluto.
Ma poi si fermò e non volle o non poté vedere che la demolizione degli idoli della volgare o dotta conoscenza postula la ricerca e la riscoperta dell’indistruttibile Dio.
Non fu dunque cristiano, come qualcuno per troppo amore assertò, ma l’opera sua, interpretata in questa luce, potrebbe aiutare una rischiosa apologetica, come quella di Raimondo di Sebonde di montagnesca memoria.
Pirandello dimostrò drasticamente che i cieli dipinti del teatro son di tela e che i sedicenti soli del palcoscenico son giochi d’elettricisti ma non seppe e non volle scoperchiare il tetto e ritrovare il cielo autentico e il sole divino.
Tutti gli esseri umani eran per lui ‘personaggi’, tutti quanti e non soltanto quelle sei lamentevoli (e lamentose) creature che un giorno invasero la sua fantasia e un inverosimile palcoscenico. Ma i personaggi implicano una trama da svolgere, uno scenario dove agire, e soprattutto e avanti tutto un Autore. Ma questo supremo Autore non può essere uomo, sia pur di genio, perché ogni uomo è anche lui, secondo lo stesso Pirandello, un personaggio, cioè una larva d’anima, che ha bisogno d’un creatore per vivere, per conoscersi, per affermarsi, per durar sempre.
Luigi Pirandello fu un grande, un fecondo, un originale autore ma non riuscì mai ad incontrare quell’Autore Sommo che non crea soltanto cervelli ragionati ma uomini integralmente e caldamente vivi”. [3]
[3] Giovanni Papini, Epigrafe per Luigi Pirandello
Una analisi composita, in alcuni passaggi critica nei confronti dell’Autore siciliana che dimostra come il problema religioso non fu un secondario accadimento, ma in quell’Italia confessionale, la Chiesa aveva il suo ruolo preminente e se qualcuno si allontanava o peggio cercava di combatterlo, finiva per essere additato e in un certo senso perseguitato, anche dopo morto.
Emerge anche che la vanità delle forme e la necessità di una loro scomposizione continua, il bisogno di non fissarsi in alcuna, è, sì, uno dei motivi insistenti in Pirandello, non però ai fini di una più alta ragione di Vita, o di un principio regolatore che dir si voglia, non rappresentando quella esigenza un superamento dell’individuo nell’universale, ma sottintendendo invece lo scioglimento di ogni costruzione e di ogni “idea della vita”. Questo concetto, e non solo, nel corso dell’attività dell’artista non era stato compreso a fondo e da qui erano stati scritti una serie di articoli, anche di noti giornalisti di quel tempo, che male interpretarono tutti quei passaggi scatenando quasi una guerra dialettica che l’Autore combatté con fermezza e decisione. Ora, in quel particolare momento, sapendo che ormai la questione era chiusa, volle evitare ai giornalisti il piacere di continuare a sguazzare sulla sua vita, sul suo pensiero, e quindi se ne stessero in silenzio e, in quanto nemici certamente, si unissero agli amici per pregare.
Non chiedeva altro, una preghiera di suffragio perché potesse accompagnarlo nel nuovo cammino intrapreso, dopo aver lasciato quella terra amata ed odiata, celebrata e vituperata e con essa la maggior parte degli uomini. Il massimo silenzio doveva circondar quella dipartita continuando ad avvertire che non si compilassero partecipazioni né annunzi.
Attorno a lui il silenzio, e per dirla con un concetto forte, attorno a lui il “nudo silenzio” nel quale tutto rimane fissato, immobile, inerte; caratteristica propria della Morte.
Pietro Seddio
Il testamento di Luigi Pirandello
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