Il sovversivismo de “I Vecchi e i giovani”

Di Vittorio Spinazzola

Apparso in rivista nel 1909 e ampiamente rimaneggiato per la pubblicazione in volume nel 1913, «I vecchi e i giovani» si colloca al centro della carriera letteraria pirandelliana: la svolta decisiva verso il teatro prende corpo giusto in questi anni.

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Il sovversivismo de "I Vecchi e i giovani"
Immagine dal Web.

Il sovversivismo de “I Vecchi e i giovani”

Da Il romanzo antistorico, di Vittorio Spinazzola. Roma, Editori riuniti, 1990

da Liber Liber

       Scetticismo esistenziale e patriottismo antiborghese
      Siamo ad Agrigento, nel 1894. Le vicende private dei molti personaggi che si affollano nel romanzo sono giunte a scioglimento; a determinarne l’esito è stato un fatto pubblico, l’insurrezione promossa dai Fasci dei lavoratori siciliani e repressa nel sangue dalle truppe governative.
       L’intervento della grande storia sull’intreccio dei casi narrativi assolve una funzione analoga a quella della peste di Milano nei Promessi sposi; e come nel libro manzoniano il contagio epidemico è preceduto dalla carestia, così qui il valore risolutivo della crisi che colpisce la collettività isolana è rafforzato da un episodio anteriore, declinato nello stesso senso: gli scandali bancari, con i quali la classe dirigente ha già dato misura della sua inettitudine a tutelare i diritti dei cittadini. Ma nei Vecchi e i giovani dall’ampliamento dell’orizzonte rappresentativo non si libera alcuna nota catartica: ad agire è una provvidenzialità negativa che riconduce ogni destino singolo sotto il segno della disfatta generale. Calcoli speranze velleità di plebei e gran signori, uomini di carattere e pusillanimi, affaristi cinici e ragazzi innamorati, tutto soccombe al caos.

       È il fallimento d’una civiltà, quella della borghesia liberale. A tirare le somme, sul piano della speculazione intellettuale, viene delegato un vecchio aristocratico, don Cosmo Laurentano, da tempo appartatosi melanconicamente nella solitudine della campagna. Ai suoi occhi, tutto ciò che è accaduto, e che pure lo ha sconvolto negli affetti più sentiti, rappresenta la conferma d’una verità, anzi dell’unica verità perenne: la vanità del mondo, e delle «minchionerie» cui di volta in volta gli uomini si abbandonano, nella ricerca d’un motivo che giustifichi la loro presenza sulla terra: «Una sola cosa è triste, cari miei: aver capito il giuoco! Dico il giuoco di questo demoniaccio beffardo che ciascuno di noi ha dentro e che si spassa a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che poco dopo egli stesso ci scopre come una nostra illusione, deridendoci degli affanni che per essa ci siamo dati, e deridendoci anche, come avviene a me, del non averci saputo illudere, poiché fuori di queste illusioni non c’è più altra realtà».
       Tipicamente pirandelliana, questa dichiarazione di scetticismo relativistico conferisce un forte valore emblematico al personaggio, nel cui atteggiamento Pirandello sigilla un dato storico rilevante: la separazione intercorsa tra gli uomini di cultura e la società contemporanea. Sovrastato da un senso di precarietà che trapassa nel «mistero impenetrabile di tutte le cose», l’intellettuale, il filosofo ritiene di non aver più alcun ruolo da svolgere nella vita collettiva. Lo stesso don Cosmo, in altro episodio, si è incaricato di chiarire la genesi di questa abdicazione di responsabilità, ricordando gli anni giovanili trascorsi in seminario e le lunghe lotte interiori contro il sormontare dell’incredulità: «E la ragione aveva vinto la fede, ma per naufragare poi in quella nera, fredda e profonda disperazione».

       Il tramonto del cristianesimo, in quanto religione rivelata, è dunque all’origine del disagio di cui la civiltà soffre e che i laici vivono con acutezza particolare, in quanto si rendono conto d’avere nel raziocinio uno strumento ormai inservibile, buono soltanto a esercitare sulle cose un criticismo impotente. Il problema della fede, come argomento sostanziale di vita, emerge nella sua importanza decisiva. L’interesse primo dei Vecchi e i giovani sta nel fatto che Pirandello lo affronta anche e soprattutto sul piano sociale, riportandolo alla concretezza dell’attualità storica e sforzandosi di indicarne una soluzione positiva.
       Un altro personaggio è presente nelle pagine finali del libro: un popolano semianalfabeta, Mauro Mortara, ingenuamente anzi follemente fanatico per quella Italia unita che da giovane ha contribuito a edificare con la sua opera di garibaldino. La rivolta delle plebi siciliane affamate gli appare ora un delitto contro la maestà della nazione; e gli agitatori socialisti gli sembrano i criminosi responsabili della «bancarotta del patriottismo», in cui i suoi ideali minacciano di naufragare. Al diffondersi dei moti, lascia dunque la casa di don Cosmo, presso il quale viveva, per andare ad unirsi alle truppe che massacrano le folle inermi dei manifestanti. Errore tragico, il suo: ma a ripararlo provvede il destino, che lo fa morire per mano di quegli stessi soldati accanto ai quali intendeva schierarsi. Il giusto gioco delle parti viene restaurato dal caso, oltre le intenzioni dei giocatori.
       L’episodio parrebbe limitarsi a ribadire esemplarmente la verità generale affermata da don Cosmo, celebrando la fine dell’idealità risorgimentale, incarnatasi nel corpo della nazione solo per essere spenta da coloro stessi che avrebbero dovuto custodirla. Ma la morte di Mauro Mortara, nelle sue circostanze acremente paradossali, è narrata con un tono di passionalità accesa che mira a un effetto non di disincantamento ma di protesta civile. Dopo un breve confuso scontro con i dimostranti, i soldati rimuovono i cadaveri rimasti sulla piazza del paese: una delle salme mostra loro, sul petto insanguinato, quattro medaglie: «I tre, allora, rimasero a guardarsi negli occhi, stupiti e sgomenti. Chi avevano ucciso?». Il libro si chiude su questa domanda, enfaticamente rivolta alla coscienza del lettore.

       Pirandello non intende dunque attestarsi sulla constatazione della crisi perenne dell’esistenza: no, vuole intervenire attivamente sulla realtà del suo tempo, con un impegno di denuncia cui deve corrispondere la delineazione d’una prospettiva di salvezza. La conclusione della vicenda di Mauro rimanda infatti a quella di un altro personaggio, tutt’affatto diverso: il giovane principe Lando, nipote del filosofo don Cosmo e figlio del capocasata Ippolito, legittimista borbonico. A lui il romanziere affida l’altra chiave di lettura del romanzo. In Lando il rovello mentale dello zio si traduce non in inerzia scettica ma in ansia di azione. Uomo di buoni studi, la lettura gli causa un’angustia insoffribile: come tollerare di vedere costretto nell’ordine artificiale delle righe a stampa quello che un tempo era stato movimento tumultuoso di vita? «Muoversi, vivere, non pensare!»: l’empito irrazionale si corrobora nello scontro con la neghittosità dell’epoca in cui gli è occorso di venir alla luce. L’Italia è stata fatta: ma i calcoli della ragion di Stato, gli opportunismi vili dei politici hanno mortificato la grande opera creativa.
       Nei Vecchi e i giovani si riaffacciano con nuova foga le critiche tradizionali di parte democratica all’esito del processo risorgimentale. Una visione immaginifica si accampa: «Un solo fuoco, una sola fiamma avrebbe dovuto correre da un capo all’altro d’Italia per fondere e saldare le varie membra di essa in un sol corpo vivo. La fusione era mancata per colpa di coloro che avevano stimato pericolosa la fiamma e più adatto il freddo lume dei loro intelletti accorti e calcolatori. Ma, se la fiamma s’era lasciata soffocare, non era pur segno che non aveva in sé quella forza e quel calore che avrebbe dovuto avere? Che nembo di fuoco allegro e violento dalla Sicilia su su fino a Napoli! Ancora da laggiù, più tardi, la fiamma s’era spiccata per arrivare fino a Roma… Dovunque era stata costretta ad arrestarsi, ad Aspromonte o su le balze del Trentino, era rimasto un vuoto sordo, una smembratura. Non poteva l’Italia farsi in altro modo? Segno che non erano ancora ben maturi gli eventi, o che erano mancati in alcuni l’energia e l’ardire per secondarli».

       La requisitoria moralistica cerca di appoggiarsi a una interpretazione complessiva del Risorgimento, almeno sul piano delle ragioni culturali: «Vedeva che coloro, a cui era stato dato di fare, s’erano dibattuti a lungo tra due concezioni, una vacua e l’altra servile: quella di un’Italia classica e quella di un’Italia romantica: un fantasma in toga e un manichino da vestire con la livrea e il beneplacito altrui: un’Italia retorica, fatta di ricordi di scuola, quella stessa forse vagheggiata dal Petrarca e suggerita a Cola di Rienzo, repubblicana; e un’Italia forestiera, o inforestierata tutta nell’anima e negli ordini. Purtroppo, le necessità storiche dovevano effettuar questa. E, in fondo, non si era fatto altro che sostituire una retorica a un’altra; alla scolastica imitazione degli antichi, la spropositata imitazione degli stranieri. Imitare, sempre. “Oh Italiani” aveva gridato dalle Murate di Firenze il Guerrazzi “scimmie e non uomini”!».
       Che fare, adesso? Impossibile adattarsi alla meschinità dei tempi, per esempio accettando la candidatura a deputato: «Lui, a Montecitorio, in quel momento? Meglio affogarsi in una fogna!». Una grande anima come quella di Lando può applicarsi solo ad imprese che esaltino e inebrino. La sua missione sarà dunque di preparare uno di quei «momenti di tempesta», quelle «ondate di piena» che liberano tutte le energie della collettività. Ecco il giovane principe farsi socialista, lavorando alacremente per destare nella maggioranza degli italiani «una volontà e un sentimento che facessero impeto a scalzare, a distruggere, a disperdere tutte quelle forme imposte da secoli, in cui la vita s’era ponderosamente irrigidita».

       Un socialismo strano, evidentemente, questo. Quando la piena sopraggiunge, infatti, Lando entra in crisi. L’atteggiamento dei dirigenti dei Fasci gli sembra folle, addirittura delittuoso. La responsabilità del massacro cui le plebi dell’isola vanno soccombendo è di chi le ha aizzate a sollevarsi non meno che del governo, pauroso e feroce. Nell’animo del personaggio si produce così un ripensamento, che lo porta a una vera conversione. La via della lotta di classe gli si rivela totalmente sbagliata: l’incultura delle masse di contadini e zolfatari è tale da non consentir loro di rendersi artefici del proprio riscatto. «Non una lotta di classe, impossibile in quelle condizioni, ma una cooperazione delle classi era da tentare, poiché in tutti gli ordini sociali in Sicilia era vivo e profondo il malcontento contro il governo italiano, per l’incuria sprezzante verso l’isola fin dal 1860». Certo, è difficile superare il doppio ostacolo costituito per un lato dal costume feudale dei padroni, «l’uso di trattar come bestie i contadini, e l’avarizia e l’usura», per l’altro dall’«odio inveterato contro i signori e la sconfidenza assoluta nella giustizia». Ma questa si è un’impresa o, nel linguaggio di don Cosmo, un’illusione degna di essere vissuta.
       Forte della rivelazione avuta, Lando tuttavia non sconfessa il suo passato; anzi accetta di condividere la sorte degli agitatori socialisti, con i quali parte per l’esilio, verso Malta, dove già suo nonno s’era rifugiato durante la lotta antiborbonica. Di lí preparerà il futuro suo, e degli italiani. Mauro Mortara muore intanto, sdegnato contro il giovane principe; ma proprio nelle mani di costui è passata la fiaccola del patriottismo. Un nuovo risorgimento è alle viste. L’aristocrazia, rinunziando ai suoi privilegi, abbandonando le nostalgie reazionarie, saprà porsi alla testa delle masse popolari per ribaltare gli ordinamenti del regime borghese. E la nazione finalmente vivrà.

       Un io narrante sovreccitato
       Apparso in rivista nel 1909 e ampiamente rimaneggiato per la pubblicazione in volume nel 1913, I vecchi e i giovani si colloca al centro della carriera letteraria pirandelliana: la svolta decisiva verso il teatro prende corpo giusto in questi anni. Si direbbe che, prima di dedicarsi tutto all’attività che gli avrebbe consentito meglio di approfondire l’indagine del mondo interiore, lo scrittore abbia voluto affidare a questo romanzo il significato d’una presa di posizione complessiva sul macrocosmo sociale. Nato dal ricordo di vicende in cui il padre, lo zio, il nonno di Pirandello erano stati implicati, I vecchi e i giovani offre un resoconto acuto del gioco delle forze politiche ed economiche a Girgenti nell’ultimo decennio dell’Ottocento; inserisce la situazione cittadina nel contesto siciliano e nella prospettiva meridionalista; infine allarga l’orizzonte sino a Roma, capitale putrefatta di un paese malato. Il processo alla classe dirigente attuale si appoggia alla rievocazione degli errori passati; e dalla condanna intransigente si libra verso l’avvenire una profezia palingenetica.
       La critica dell’esistenza si cala insomma nella requisitoria sullo stato presente della civiltà: questo è lo sforzo sintetico che muove la compagine faticosa dell’opera. Alla sua base sta un furioso risentimento antiborghese. Lo scrittore esibisce quasi una voluttà di stravolgere e contraffare tutto ciò che caratterizza la mentalità della classe cui pure appartiene: senso del decoro e delle convenienze formali, opportunismo filisteo, grettezza utilitaria, infine e soprattutto tendenza a ignorare o misconoscere le contraddizioni insanabili della vita, pretendendo di imporre al caos in cui tutti ci agitiamo un assetto razionale, che si qualifica soltanto come disordine organizzato.

       All’opposto di quanto accade nei Viceré, l’io narrante pirandelliano appare molto caratterizzato, nella passionalità fremente di cui impronta ogni aspetto, ogni momento del racconto. A prima vista, quasi si direbbe che il rifiuto, anzi il capovolgimento del canone dell’impersonalità verista abbia indotto un recupero puro e semplice dei criteri tradizionali di conduzione del discorso narrativo, quali erano stati esperiti particolarmente dal romanzo storico: non però secondo il modello del realismo romantico manzoniano, ma piuttosto secondo quello del classicismo democratico alla Guerrazzi. A dominare la pagina è infatti una soggettività narratrice che aborre la cordialità colloquiale e ostenta con enfasi il carisma artistico, intellettuale, morale di cui si sente provvista.
       Ma s’intende che nello scrittore agrigentino il pathos oratorio è sostenuto da una tensione affabulatrice in cui l’accaloramento emotivo si mescola osmoticamente con la consequenziarietà del logicismo analitico. Ultrasensibile e ultraintelligente, l’io narrante dei Vecchi e i giovani esprime una capacità percettiva sempre febbrilmente sovreccitata. È un’ottica di turbamento e deformazione, quella portata sugli uomini e le cose: lo scopo però non è di adulterare, sí invece di rivelare la sostanza di verità che custodiscono, smentendo con accanimento le parvenze di ordine, quiete e armonia con cui se le raffigura lo sguardo spento dell’osservatore borghese. Colui che narra non intende affatto chiudersi arrovellatamente in se stesso, anzi appare tutto proteso, tutto aperto alla realtà dell’esistenza collettiva, in uno sforzo di penetrazione intellettuale sostenuto da uno slancio di partecipazione simpatetica.
       Certo, le vicende evocate dalla sua fantasia gli risultano sempre immancabilmente sospese tra il grottesco e la farsa: ma appunto in questa ridicolaggine consiste la tragedia dell’umanità contemporanea, che si nega o vorrebbe negarsi alla consapevolezza severa del proprio destino. Così l’io narrante si arroga il ruolo di fustigatore ironico di costumi degradati, forte della sua posizione di ultimo custode d’una somma di valori irrinunciabili, perduti ormai nella corruzione catastrofica dei tempi. Il suo però non è l’atteggiamento del testimone: al contrario, è quello del regista che, di fronte allo smarrimento di attori inetti e meschini, prende in pugno con maggior energia lo spettacolo, trattandoli come quei burattini che sono e prevaricandoli con la sua personalità corrucciata.
       D’altra parte, pur mentre rivendica con tanto pathos la sua demiurgia, il narratore pirandelliano mostra una tendenza irresistibile a entrare nella pelle dei personaggi, a riparlare le loro parole e ripensare i loro pensieri. Nei Vecchi e i giovani infatti la lezione del naturalismo si è sviluppata in direzione espressionista, in quanto il senso e il gusto dei «bei casi» patologici ha condotto alla persuasione d’uno stato di patologia generale della realtà. Ma proprio in conseguenza di ciò, il compito di restituire l’autenticità interiore dell’individuo, in mancanza di ogni riferimento a una norma di medietà, chiede di essere assolto calandosi per intero entro la coscienza singola, a coglierne l’unicità irripetibile.
       Di qui il camaleontismo continuo dell’io narrante, che non rinunzia, no, a ostentar la sua identità, ma assieme non si accontenta delle descrizioni di comportamento, né si limita alle analisi psicologiche, e inclina piuttosto a immedesimarsi tutto nei personaggi: cioè a corresponsabilizzarsi delle loro inquietudini, attraverso le tecniche del discorso indiretto libero e del discorso rivissuto. Ecco allora gli spostamenti e scambi frenetici di punto di vista, in adesione alla mentalità di coloro che si avvicendano sulla scena.
       Il procedimento è legittimato dal fatto che tutti gli attori appaiono affratellati fra loro, e con il regista, da una nevrosi ansiosamente ossessiva: i diversissimi individui di cui ci è fornito il ritratto hanno una peculiarità fisionomica inconfondibile, ai limiti del fenomeno clinico, ma respirano un’aria di famiglia, per la natura comune del bisogno che li spinge ad autorealizzarsi diversificandosi, contrastandosi, sopraffacendosi l’un l’altro. Si capisce quindi che l’attitudine ad assumere la loro personalità, ad intonare il racconto sulla loro voce riguardi di preferenza i personaggi borghesi, nei cui confronti il narratore manifesta un rapporto piú complesso, di odio e amore, empatia e ripulsa. In costoro infatti il doppio gioco tra l’essere e l’apparire è condotto all’insegna di un velleitarismo piú miserando, con effetti devastanti quando non disgreganti sulle strutture della coscienza: piú necessario è dunque, da parte di chi narra, dare prova di superiorità mostrandosi capace di rivivere dall’interno i loro affanni, con pienezza partecipativa, e tuttavia senza lasciarsene contaminare.

       La produttività di questo atteggiamento di immedesimazione critica è garantita dal fatto che l’io narrante ha dinnanzi agli occhi un modello positivo di umanità, cui guarda con reverenza ammirata: l’aristocrazia vecchia e nuova, emblematizzata nella famiglia Laurentano. Tutti i suoi membri hanno statura eroica: Ippolito nella fedeltà inconcussa all’ancien régime, Caterina viceversa nell’attaccamento ai sogni di libertà risorgimentale, Cosmo nella coerenza del suo scetticismo razionalistico, Lando infine nella certezza della missione di riscatto nazionale e sociale che lo attende. Solo Roberto Auriti è stato insozzato e travolto dalla corruttela di quella Roma borghese, da cui il cugino sa emergere indenne.
       La fascinazione mostrata nei loro riguardi è troppo palese, troppo conclamata per trasmettersi al lettore con efficacia davvero suggestiva. Nondimeno, si tratta della condizione d’innesco della reattività corrusca che il narratore esterna verso i rappresentanti dell’universo borghese, o imborghesito. Di fronte a costoro, Pirandello riprende l’asprezza polemica derobertiana, ma non li espone unilateralmente al dileggio: anzi, li prende molto sul serio, accentuando l’impegno di esplorazione dei loro labirinti interiori e assimilandoseli insomma, nella misura stessa in cui infierisce contro il loro affaccendarsi, votato comunque alla disfatta.

       Verso gli aristocratici invece, a differenza che in De Roberto, l’omaggio per così dire cavalleresco all’alterezza strenua o almeno alla tensione energetica di cui danno prova non è bilanciato da alcuna scepsi censoria connotata di sarcasmo: piuttosto, semmai, è ravvivato dall’apprensione, dal rammarico dolente per la diminuzione di prestigio cui sono sottoposti inevitabilmente al contatto con la borghesità che cerca di risucchiarli. In effetti anche la loro soggettività può apparire compromessa, se non addirittura dilacerata: ma ecco il pericolo di crisi trasvalutarsi in occasione, in incentivo per l’acquisto d’una consapevolezza ulteriore di sé, vuoi sul piano della conoscenza pura vuoi dell’azione altamente illuminata.
       Così accade rispettivamente nel vecchio don Cosmo e nel giovane Lando, i due personaggi che incarnano i due punti di vista, i due orizzonti mentali, opposti e complementari, ai quali l’io narrante si rifà nell’inquadramento prospettico complessivo della materia di romanzo. Il privilegio di sangue si ritempra e sublima in entrambi, a testimonianza d’una nobiltà intellettuale e morale nativamente suprema: il narratore se ne esalta, proponendoli ad esempio mitico per chiunque voglia e sappia proiettarsi oltre la mediocrità dilagante del mondo borghese.

       Il linguaggio del cerebralismo passionale
       A livello elocutivo, il programma di rigenerazione italianistica perseguito da Pirandello si traduce in una carica di aggressività perentoria verso i modi di quella lingua media, di ascendenza manzoniana, nella quale si riflette l’assennatezza cautelosa dell’odiata borghesia e del suo squallido democraticismo linguistico. La pagina è pervasa da una ricerca costante di effetti espressivi, con il ricorso a termini letterari rari e antiquati, quasi sulla via degli spogli di vocabolario dannunziani ma incontrando anche la sensibilità morbida di Fogazzaro: le «insenature e lunate» della spiaggia, il «vanente sorriso», gli «occhi già un po’ vagellanti», il ruscelletto che «lustreggiava», il «trasognamento della terra», le «trosce stagnanti», le «piote sbieche», «piombate là, a rinserrarsi», «come un ruscello a cui una mano ignota avesse […] traviato la vena», «il livido smortume dell’alba», la ragazza condannata «a funghir lí, in quel paese marcio».
       Il toscanismo si accampa a volte con una sorta di insolenza: il «fumichio», l’aria «densa e fumicosa», la luce riflessa sulla «motriglia», le lagrime che grondano «quasi grillandogli attorno come una luce», le «mani paonazze, gronchie dal freddo», il moribondo che «strizzò gli occhi; serrò i denti; s’interí», la zitella «ormai spighita», lo stiracchiarsi «ragliando», l’uomo che «come una bestia sorpresa nel giaccio, si allontanò ranco ranco». A far da contrappunto troviamo i termini di provenienza siciliana; il dialetto si affaccia anche direttamente, con forte coloritura plebea, come nella battuta «Ah! sti cazzi! chi mi pigli pi fissa?». Ma la caratterizzazione regionale resta episodica, né piú rilevante è la realisticità greve di alcune invettive, «costretto a guadagnarsi da vivere in qualche porca maniera», «a voi e a codeste carogne, sacchi di merda», «vi dico che è una coglionatura!». Maggior rilievo ha l’uso frequente di forme verbali intensive, «sghignando», «svolando», «sbaccaneggiare», «scontraffatto», «si scontorceva»; o lo scambio fra transitivo e intransitivo, «sfangare per quello stradone», «ruzzolando le parole», «scavalcati dalle mule cariche», «piombato là» dal destino, «la folla spiaccicava tutt’intorno»; o i vari tipi di derivazioni aggettivali e sostantivali, sino al limite del neologismo, «don Ippolito s’infoscò», «sgranando e ilarando gli occhi», «sorgeva maestoso e invaporato Monte Gemini», «temeva lo avviziasse troppo», «tutto un popolo inselvaggito», «era tornato a inviscerarsi in lei», «il cielo s’incaverna, s’incaverna sempre piú», «la grossa testa calva, inteschiata, sbarbata», «gli fantasmeggiava davanti un aspetto grandioso», «il sudicio foglio sfognato dalle officine del ricatto».
       Lo stesso gusto dell’invenzione e deformazione espressiva è riconoscibile sia in peggiorativi e diminutivi del tipo «disperatonaccio», «greggiola», sia nel ricorso ad altri suffissoidi, gli occhi «lupigni», gli occhi «globulenti», l’ombra «cinerulea», lo «smortume dell’alba», la «canutiglia», i «nerellini che gli pinticchiavano il naso», la «persona rinvecchignita». Ad una intenzione analoga, infine, rispondono le serie di termini a rafforzamento reciproco, «anneghittiti, immelensiti», «espurgato, smaltito, evacuato», «cinfolava, gargarizzava, guagnolava»: ma qui siamo già sul piano delle scelte stilistiche.
I materiali di linguaggio si rapprendono anzitutto nella figurazione grottesca dei ritratti, come quello del Préola, segretario del principe don Ippolito: «entrò curvo, ossequioso, anzi strisciante, quasi cacciato lí dentro a frustate. Vestiva un’ampia e greve napoleona. Dal colletto basso, troppo largo, la grossa testa calva, inteschiata, sbarbata, gli usciva come quella d’un vitello scorticato». Oppure don Jaco, l’amministratore infedele della famiglia De Vincentis: «Era lungo e secco, come il legno, con la faccia squallida, segnata con trista durezza dalle sopracciglia nere ad accento circonflesso, in contrasto col largo sorriso scemo, beato, sotto gl’ispidi baffi. Gli occhi, dalle palpebre stirate come quelle dei giapponesi, non scoprivano il bianco e restavano opachi e come estranei alla durezza di quegli accenti circonflessi e alla scema beatitudine dell’eterno sorriso. Con le braccia raccolte sempre sul petto e le grosse mani slavate e nocchierute prendeva atteggiamento di umiltà rassegnata».

       Nella loro fissità morta, queste maschere emblematizzano una deformazione dell’uomo, cui risponde lo stravolgimento delle cose. Fin dal periodo iniziale il paesaggio girgentino appare come contorto nello sforzo di sottrarsi a un gravame innaturale: «La pioggia, caduta a diluvio durante la notte, aveva reso impraticabile quel lungo stradone di campagna, tutto a volte e risvolte, quasi in cerca di men faticose erte e pendii meno ripidi». Eppure non è sempre stato così. Un tempo, bellezza e armonia regnavano sui luoghi, illuminavano gli animi. Lo stile pirandelliano si abbandona all’onda larga di un’eloquenza commossa, nel contrapporre il passato splendido di Akragas allo squallore di Girgenti: «Dal bosco della Civita, cuore della città vetusta, saliva un tempo al colle, su cui siede misera la nuova, una lunga fila di altissimi e austeri cipressi, quasi a segnar la via della morte. Pochi ormai ne restavano; uno, il piú alto e il piú fosco, si levava ancora sotto l’unico viale della città, detto della Passeggiata, la sola cosa bella che la città avesse, aperto com’era alla vista magnifica di tutta la piaggia, sotto, svariata di poggi, di valli, di piani, e del mare in fondo, nella sterminata curva dell’orizzonte. Quel cipresso, stagliandosi nero e maestoso dopo il fiammeggiare dei meravigliosi tramonti su la piaggia che s’ombrava tutta di notturno azzurro, pareva riassumesse in sé la tristezza infinita del silenzio che spirava dai luoghi, sonori un tempo di tanta vita. Era qua, ora, il regno della morte».
       Un’oasi di serenità sopravvive tuttavia, su in alto, a Colimbetra, nel feudo dove don Ippolito s’è rinserrato all’avvento del nuovo regime, confortando la sua solitudine con gli studi d’archeologia, accanto a una statua ignuda di Venere Urania che scandalizza la decaduta gentucola d’oggi: «Ridevano intanto, fiorenti, le mirabili forme della dea decapitata, emersa dal tempo remoto, nata da uno scalpello greco, da un artefice ignaro che la sua opera dovesse tanto sopravvivere e parlare a profana gente un linguaggio diabolico, ornamento d’un vestibolo, tra cassoni di lauri e di palme».
       Le cadenze classicistiche di questo brano, al pari delle suggestioni dannunziane rilevabili in quello precedente, denunziano la diversità di livello cui lo stile si è elevato. Su tale sfondo si inquadra un’umanità ancora fieramente integra, degna di ammirazione rispettosa. Ecco avanzarsi don Ippolito, principe di Laurentano, «alto, aitante, bellissimo ancora, nonostante l’età e la calvizie»; ed ecco il riconoscimento della sua superiorità effettuato dalla giovane Dianella, figlia del capitalista Flaminio Salvo e nipote della grassa borghese Adelaide, che il principe è stato indotto a sposare: «Dianella guardava con piacere e indefinibile soddisfazione quel vecchio, a cui la virile bellezza, la composta vigoria, la sicura padronanza di sé davano una nobiltà così altera e così serena a un tempo; indovinava il tratto squisito che doveva avere senza il minimo studio e però senz’ombra d’affettazione, e soffriva nel porgli accanto col pensiero sua zia Adelaide di così diversa, anzi opposta natura: scoppiarne e sempliciona».
       Nell’indole apologetica del ritratto, la contrapposizione fisionomica fra aristocrazia e borghesia non potrebbe apparire piú esplicita. D’altronde l’autenticità umana non rappresenta un patrimonio esclusivo del patriziato: anche al capo opposto della scala sociale la si può distinguere, nel candore dell’anima popolare. La pagina si apre, inattesamente, a risonanze affettive di derivazione manzoniana: come nel racconto della partenza di Mauro Mortara per l’esilio: «Addio, Sicilia; addio, Valsania; Girgenti che si vede da lontano, lassú, alta; addio, campane di San Gerlando, di cui nel silenzio della campagna m’arrivava il ronzio; addio, alberi che conoscevo a uno a uno… Voi non vi potete immaginare, come da lontano vi s’avvistino le cose care che lasciate e vi afferrino e vi strappino l’anima!».
       Ma sia i personaggi nobiliari sia i plebei scontano la dignità di cui lo scrittore li riconosce provvisti con uno scarso movimento di vita interiore: la loro stessa salute morale li rende ignari della complessità tormentosa dei processi d’autoanalisi. Così Mauro è immobilizzato nell’ipotiposi della selvatica follia generosa che fa di lui la «schietta incarnazione dell’antica anima isolana»; assai piú ricco, il ritratto di don Ippolito conserva tuttavia una rigidità convenzionale che la vicenda penosa del suo matrimonio riesce appena a incrinare. È solo sui personaggi borghesi o imborghesiti che l’introspezione ha campo per esercitarsi, affiancando ai moduli dell’indagine psicologica compiuta dall’io narrante quelli dell’autoanalisi effettuata dall’io narrato.
       Siamo nella zona d’interessi piú propriamente pirandelliana: il leitmotiv ne è costituito dallo sdoppiamento della personalità, sotto gli impulsi contraddittori dell’esistenza, nella scissione dolorosa tra forma necrotizzata e realtà pulsante di vita. Così l’ingegner Aurelio Costa, salito da origini umili a una qualifica professionale elevata: «Il modo con cui si vedeva accolto e trattato, quel che si diceva di lui, gli dimostravano di continuo ch’egli era per gli altri qualcosa di piú che per se stesso; un altro Aurelio Costa, ch’egli non conosceva bene, di cui non si rendeva ben conto; restava perciò sempre innanzi agli altri in uno stato d’animo angustioso, in una strana apprensione confusa, di venir meno alla aspettativa altrui, di decadere dalla sua reputazione».
       Così anche il vecchio e stanco ministro Francesco D’Atri, nella cui figura va identificato il Crispi, che sta compromettendo il suo passato glorioso in squallide vicende di corna coniugali e intrighi affaristici: «Era ormai un povero vecchio che volentieri si sarebbe rannicchiato in un cantuccio per non muoversene piú; ma tanti altri lui spietati che gli sopravvivevano dentro approfittando di quel suo smarrimento, non volevano lasciarlo in pace; se lo disputavano, se lo giocavano, gli proibivano di lamentarsi e di dirsi stanco, di dichiarare che non si ricordava piú di nulla; e lo costringevano a mentire senza bisogno, a sorridere quando non ne aveva voglia, a pararsi, a far tante cose che gli parevano di piú».
       La crisi della volontà, innestandosi nel vuoto della coscienza priva di scopi, porta a un processo di scomposizione e quindi di decomposizione dell’io, che si separa da se stesso e guarda dall’esterno la propria spoglia cadavericamente vivente. L’incubo trapassa in allucinazione: così accade a Lando, oppresso da una smania inappagabile, nel clima nauseabondo della Roma borghese: «Certe notti, rincasando oppresso dalla più cupa noia aveva così forte l’impressione d’andare a ritrovar nella solitudine del suo villino il proprio spirito che non se n’era mosso e che lo avrebbe accolto dallo specchio con atteggiamento di scherno e gli avrebbe domandato se fuori faceva bel tempo, se c’era la luna, se qualche lampada elettrica non si fosse per caso stizzita lungo la via, o se San Paolo, stanco di stare in piedi, non si fosse messo a sedere su la colonna Antonina; così forte aveva questa impressione, che tornava indietro, per lasciar fuori la propria persona e non presentarla a quella derisione».
       La pazzia aleggia; e nella sua ombra avanza il desiderio di morte. Le due determinazioni si affiancano nel personaggio piú compiutamente borghese, quindi dotato di razionalità piú lucida, Flaminio Salvo. È nei suoi confronti che Pirandello esercita la cura maggiore, non tanto per ricostruirne i rapporti con i familiari, i dipendenti, gli estranei, quanto per penetrare oltre la soglia del suo sorriso gelido e rivelare il segreto di «quell’anima torbida e imperiosa», in cui «il tratto duro, i modi risentiti e irruenti erano come rigurgiti istantanei di quella tristezza inveterata, nascosta, compressa, inconsolabile». Che origine ha questa tristezza? La voce stessa di Salvo ce lo rivela, in uno sfogo di sincerità: «Invecchio; sí; perdo il gusto di comandare. Me lo fa perdere la servilità che scopro in tutti. Uomini, vorrei uomini! Mi vedo attorno automi, fantocci che devono atteggiare così e così, e che mi restano davanti, quasi a farmi dispetto, nell’atteggiamento che ho dato loro, finché non lo cambio con una manata. Soltanto di fuori, però, capisci? si lasciano atteggiare! Dentro… eh, dentro, restano duri, coi loro pensieri coperti, nemici, vivi solamente per loro. Che puoi su questi? Docili di fuori, miti, malleabili, visi ridenti, schiene ossequiose, t’approvano, t’approvano, t’approvano sempre. Ah, che sdegno! Vorrei sapere perché mi arrovello così; perché e per chi lo faccio… Domani morrò. Ho comandato! Sí, ecco: ho assegnato la parte a questo e a quello, a tanti che non hanno mai saputo vedere altro in me che la parte che rappresento per loro. E di tant’altra vita, vita d’affetti e di idee che mi s’agita dentro, nessuno che abbia mai avuto il piú lontano sospetto… Con chi vuoi parlarne? Sono fuori della parte che devo rappresentare…».
       L’autenticità del linguaggio pirandelliano è qui, in questa adesione ai modi dell’italiano parlato, portati ad evidenza scenica dall’intensità della riflessione autoanalitica e assieme dalla tumultuosa ridondanza espressiva. Lo scrittore si sente tutto implicato nella sorte del personaggio, il piú moderno del libro e il piú tragico, sia pure di quella tragicità rovesciata, cioè pirandellianamente umoristica, che è la sola consentita nell’epoca borghese. Flaminio Salvo è ilself made man che una volta giunto ad affermare la sua volontà di dominio scopre che il potere derivante dalla ricchezza è un inganno: lo ha portato ad alienare, diremmo marianamente, i suoi affetti senza consentirgli di entrare a parte di quelli altrui. Esaltatosi materialmente sopra i suoi simili, l’homo oeconomicus precipita nell’autoisolamento morale, dove l’io crolla su se stesso.
       L’errore, il grande errore, consiste nell’aver scambiato il mezzo con il fine: la ragion pratica, cioè, come capacità di illuminare e costruire il proprio destino singolo, e la fede, come identificazione disinteressatamente attiva nell’umanità comune. L’uso assolutistico del raziocinio porta ad una nefasta selezione dei piú atti, le cui conseguenze non risparmiano chi se ne sia fatto assertore. I deboli vengono infatti respinti in una condizione di impotenza frustrata, sfociante nella pazzia: e l’obnubilamento delle facoltà mentali dà pure il sollievo d’una dimenticanza di sé. Ma i forti, gli spietati non possono in alcun modo fuggire il castigo di rispecchiarsi nella propria immagine: prigionieri non d’altri che di se stessi, la vita si trasforma per loro in cupa attesa di morte. La moglie di Salvo è pazza, non sappiamo perché; la figlia Dianella impazzisce, per responsabilità del padre: «Lui solo, dunque, per terribile condanna, doveva serbare intatto il privilegio di non avere minimamente velata, offuscata, né per rimorso, né per pietà, né piú da alcun affetto, né piú da alcuna speranza, né piú da alcun desiderio, quella lucida, crudele limpidità di spirito? Lui solo».
       Al procedimento anaforico del primo periodo, nello schema dell’interrogazione retorica, fa riscontro la breve ripresa asseverativa del secondo: la volontà di percorrere esaustivamente i dati della situazione interna è sottesa dal compiacimento morboso nell’«assaporare lo scherno della sua sorte». La duplicità dello stile pirandelliano, nel suo cerebralismo passionale e quindi nel difficile equilibrio fra turgore effusivo e lucidità intellettuale garantita dall’autocontrollo sarcastico, trova l’esplicazione migliore nell’acribia dell’indagine su personaggi votati a vivere con maggior dinamismo la dimensione fattuale dell’esistenza: e appunto perciò costretti a patire sino in fondo la scissura fra atti pubblici e sentimenti privati, necessità di spietatezza e bisogno di conforto affettivo.
       D’altronde, ogni sublimazione degli istinti è impossibile: lo stesso impulso sacralmente naturale a continuare la propria presenza fra gli uomini affidandone l’eredità alla prole diviene incentivo ad adottare i criteri d’azione piú brutali. E nella gara anarchica degli egoismi utilitari l’unico vincitore è sempre il caso: dal caos non si esce per nessun calcolo di ragione. Salvo ha cercato di giustificare la sua ambizione di potere come sollecitudine per l’avvenire dei figli: ma è già stato beffato con la morte prematura del maschio ed ora subisce una sconfitta piú crudele, facendosi colpevole della follia della figlia.

       I personaggi recitanti
       Questa volontà di ricondurre all’interno dell’io e della sua crisi eterna i motivi del fallimento d’ogni ideale di civiltà causa uno squilibrio sensibile nella mole dei Vecchi e i giovani: quanto piú lo scrittore s’affatica ad allargare e approfondire la rappresentazione dell’universo civile, tanto più nega che in esso operino, al di là degli atteggiamenti individuali, delle leggi oggettive, valide a spiegare la dinamica dei rapporti fra le varie istanze di vita collettiva, delle quali ammette pure l’esistenza. Pirandello conosce il concetto marxiano di classe, e lo adotta per descrivere la situazione della città di Girgenti: ma alla dialettica classista non attribuisce alcun valore risolutivo.
       Su questo rifiuto si innesta la contraddizione ideologica che è all’origine dello squilibrio strutturale e delle ineguaglianze stilistiche dell’opera. Ci attenderemmo infatti che il narratore concludesse su una negazione intransigente delle possibilità di miglioramento della convivenza umana. Ma ciò avrebbe significato prospettare al pubblico contemporaneo un perpetuarsi del regime borghese. E il romanziere si ribella a ciò, in forza dello stesso risentimento d’odio provato al veder dispiegata, nella vasta tela dell’intreccio, l’inumanità del dominio di classe esercitato dalla borghesia. Non gli resta che affidarsi all’indicazione di un mito, interclassista e antistorico; sacrifica così la coerenza dell’opera, ma pensa di salvarne la capacità d’intervento sulla coscienza civile dei lettori.
       In definitiva, I vecchi e i giovani appare bensí sorretto da un vivace interesse politico; ma consegue i risultati piú convincenti nella raffigurazione dei fatti e sentimenti privati, quali hanno luogo nel rapporto amoroso e nell’ambito dell’istituto familiare. È qui che Pirandello si addestra meglio nel sorprendere in fallo i personaggi, mettendone sarcasticamente a nudo il doppio gioco con gli altri e con se stessi. Non nega loro comprensione pietosa, in quanto sa che finiranno tutti vittime del viluppo di illusioni e ipocrisie, consapevoli e inconsce, in cui sono ambiguamente irretiti: ma non è disposto a concedere alcun riconoscimento di integrità umana. Evita quindi di innalzarli alla solennità della vera tragedia, senza però soffonderli di luce elegiaca: la tragicommedia è la loro dimensione esistenziale.
       Solo per il grande borghese Salvo il narratore prova un sia pur torvo rispetto. Il ritratto non attinge pienamente la statura dell’eroe negativo, in quanto pone in evidenza le doti dell’intrigante piuttosto che del dominatore: tuttavia si tratta del personaggio che reprime con maggior furore dentro di sé ogni debolezza umana, e si sente quindi piú libero, e si scontra piú violentemente con la necessità da cui siamo tutti costretti. Ma gli altri, i piccoli borghesi, politici professionisti, intellettuali più o meno falliti, sono soltanto gente che recita una parte mediocre su un palcoscenico meschino: o peggio, immeschinisce gli eventi in mezzo a cui le è occorso vivere.

       Il romanzo si apre a una serie di scene d’interni familiari, nelle quali la vocazione teatrale appare già ben desta a cogliere, fra battute e didascalie, il divario dell’atteggiamento esterno rispetto alla verità intima del personaggio. Ecco la commedia dell’amor coniugale recitata con tutta serietà, in un’occasione drammatica, dall’avvocato Ignazio Capolino e dalla moglie: lui, lancia spezzata di Salvo, che s’accinge a farlo eleggere deputato; lei, amante dello stesso Salvo, col tacito accordo anzi incoraggiamento del marito: «”Gnazio, non vado via tranquilla!” diss’ella, entrando, come imbronciata d’un supposto inganno che la addolorava e costernava. “Giurami che non vai a batterti questa mattina”. “Oh Dio, Lellé, ma se t’ho detto che vado a Siculiana!” rispose Capolino, levando le mani per posargliele lievemente sulle braccia. “Dovevo andarci ieri, lo sai. Sta tranquilla, cara. Il duello è stato rimandato alla fine delle elezioni”. “Debbo crederci, proprio?” insistette lei, mentre stentava ad abbottonarsi il guanto con l’altra mano già inguantata. Capolino volentieri avrebbe risposto a quell’insistenza con uno sbuffo; invece, sorrise; si accostò premuroso, le prese la mano per abbottonarle lui quel guanto, e vi s’indugiò, come un innamorato».

       Lo scrittore si compiace a sua volta di indugiare sul virtuosismo della finzione, unico campo in cui personaggi simili possano eccellere; nello stesso tempo, sente il bisogno insistente di scoprire il gioco che conducono. La linea narrativa ne risulta appesantita; acquista però evidenza il contenuto sadomasochistico degli atteggiamenti psicologici. Valga il caso dei dialoghi fra la moglie di Capolino e Niní De Vincentis: la donna prende gusto a tormentarlo, per vendicarsi dell’affronto fattole dal giovane innamorandosi della figlia di Salvo, a sua volta innamorata non di lui ma di Aurelio Costa, che Nicoletta ha sprezzantemente rifiutato come sposo, tempo addietro, ma del quale ora è gelosa; quanto a Niní, trova piacere nella tortura cui è sottoposto sentendo elencare gli ostacoli al suo vagheggiamento d’amore, che sa senza speranza.
       Le risorse migliori dello stile sono adibite allo sforzo di dar concretezza verbale corposa al nesso psicologico per cui i personaggi, suppliziando gli altri, infieriscono in realtà contro se stessi. Da un lato dunque l’adesione partecipe alle sofferenze di un’umanità che anche quando arreca dolore altrui assume sempre figura di vittima; dall’altro il criticismo implacabile nel sottolineare tutti i sintomi di divario fra esibizioni mentitrici e verità mentale. Ne deriva una scrittura esaltatamente accesa, tenuta su un registro sintattico che oscilla fra la registrazione del brusco scatto d’umore colloquiale e l’enfasi con cui la coscienza ripercorre i dati del suo dissidio, non senza vittimismo, inturgidendo il periodare con la folla delle parentetiche, la serie delle variazioni sinonimiche e delle gradazioni epitetiche, le clausole retoricamente sonanti.

       Lo stile di Pirandello è già scenico, se non ancora distesamente teatrale; l’orchestrazione degli effetti emotivi tende a risolvere l’incalzare nervoso degli stati d’animo nella fissità del gesto che irrigidisce per un attimo l’attore, quasi investito da una scossa traumatica: salvo subito dopo reimmergerlo negli itinerari del suo meandro interiore. Da ciò l’esuberanza di aneddoti, trovate icastiche, invenzioni estrose che imprimono come un moto sussultorio alla pagina, nel suo lento sviluppo: d’altronde, nulla giunge inatteso, anzi la tecnica narrativa punta a scontare in anticipo gli esiti delle singole vicende, facendole crescere su se stesse in un clima di stagnazione esasperata e ravvivando l’episodio conclusivo con uno sberleffo che ha funzione di chiusura epilogica.
       Incapaci di un impegno durevole nell’azione costruttiva, questi squallidi eroi borghesi sanno soltanto recitare, con maggiore o minore buona volontà: ma ogni recita ha una fine, che per loro è sempre grottescamente penosa. Ecco il convegno dei vecchi combattenti della rivoluzione, in casa di donna Caterina: in gioventú, hanno tutti sostenuto una parte gloriosa, ma ora sono soltanto dei poveri relitti, sui quali lo scrittore incrudelisce, passandoli in rassegna uno a uno, per rilevarne il disfacimento fisico e morale. Il punto di vista adottato è quello di Roberto Auriti, che ha vissuto la stessa esperienza delusiva dei suoi coetanei, ma nell’atmosfera disincantata della capitale anziché nel clima angusto della provincia: ed è quindi ora in grado di valutare con chiarezza scorata la misura del fallimento comune.
       L’artificio essenziale della prosa pirandelliana consiste appunto in un metodo di straniamento dall’interno: di volta in volta il narratore si adegua all’ottica di un personaggio tutto immerso nella situazione, ma collocato dalle circostanze in un angolo visuale appartato, da cui gli si fa chiaro ciò che gli occhi altrui non sono capaci di percepire distintamente. Il modo della sua implicazione nei fatti non è necessariamente passivo, tutt’altro: proprio l’esser indotto ad agire anche nella sfiducia sull’opportunità dell’iniziativa è condizione per cui tutto quanto accade trapassi dal piano dell’operosità seriosa a quello della farsa inconcludente.

       Di piú, il procedimento nasce e si esplica primamente nell’intimo dell’individuo, che mentre vive con maggior intensità, cioè aliena e brucia il suo patrimonio coscienziale, sente l’esigenza di rimpiattarsi in un cantuccio di sé, a guardarsi vivere: cioè a guardarsi recitare, poiché la vita è teatro.
       Alla dimensione psicologica corrisponde dunque immediatamente quella sociale: estranei a se stessi, gli attori tendono a serrare il confronto reciproco delle interpretazioni per affinare meglio la coscienza della falsità propria e dell’inganno universale: questo infatti è, sia pure in negativo, l’unico modo di realizzazione possibile dell’io borghese, giacché non implica alcuna uscita da se stessi. Così ai momenti dell’indugio autoanalitico fa riscontro la disposizione dei personaggi su linee di convergenza destinate a sfociare in scene d’insieme quasi coreografiche, dove uno di essi si incarica di guidare il balletto: cioè di scoprire il gioco insensato del destino, che ha accozzato la recita.

       L’episodio piú movimentato ha luogo a Roma, in casa Passalacqua, dove Roberto Auriti trascorre le sue giornate meschine di naufrago dell’esistenza accanto all’amante e al marito di lei, artisti in disarmo, che campano allegramente di espedienti e cercano di spillar quattrini a ragazzotte desiderose di farsi strada con il bel canto. Giunge Corrado Selmi, un deputato nel quale Pirandello ha inteso raffigurare Rocco de’ Zerbi, mentre l’Auriti incarna Rocco Ricci Gramitto, zio materno dello scrittore. La Camera ha appena concesso l’autorizzazione a procedere contro l’uomo politico, per frode bancaria; su Roberto, che per amicizia si è lasciato coinvolgere nello scandalo, pende una denunzia di complicità. Olindo Passalacqua si preoccupa che la moglie non sappia nulla, per non addolorarla; dalla stanza accanto si odono i vocalizzi miagolati da una studentessa; Roberto geme convulsamente sul petto di Corrado; costui infine, che ha già deciso il suicidio, si scrolla con «una risata pazzesca», afferra l’annaffiatoio e prende a rovesciar acqua su tutti: «”Ma dà qui!” disse, ghermendo l’annaffiatoio e avviandosi di furia al terrazzo. “Ma che facciamo sul serio? Annaffiavi? E seguitiamo ad annaffiare! Qua… qua… così! così! Pioggia, Olindo! pioggia! pioggia! […] La pianta, Nannamia,” gridò il Selmi, “quale è la pianta piú utile? Il riso! Coltiviamo il riso e annacquiamo Olindo che fa ridere!”. “Ma io piango, invece…” gemette il Passalacqua. “E appunto perché piangi, fai ridere!” ribatté il Selmi. “Chi fa ridere, invece…” borbottò Antonio Del Re, serrando le pugna. “Fa piangere, è vero?” compi la frase il Selmi».
       Antonio, il giovane nipote di Roberto arrivato fresco da Girgenti, è disgustato; se la spassa invece Celsina, figlia di un agitatore socialista, che ha raggiunto il ragazzo a Roma non tanto per amore quanto per farsi ambiziosamente strada nel mondo. Compare in quella Mauro Mortara, «con gli occhi ilari e lagrimosi», beato d’esser in visita nella Città Eterna. Si fa sulla soglia, senza parlare, il poliziotto venuto ad arrestare l’Auriti. Sbigottimento generale; la scena si svuota; restano per terra le medaglie che Mauro s’è strappato dal petto, al veder condotto in prigione come un ladro «il figlio d’un eroe che gli morí fra le braccia nella battaglia di Milazzo», un patriota garibaldino, il piú giovane dei Mille.

       La melodrammaticità romanzesca
       Nella rappresentazione del mondo borghese I vecchi e i giovani ha come connotati essenziali quelli del teatro della crudeltà e dell’assurdo, tipici di tutta l’opera pirandelliana e portati a evidenza massima nella produzione drammaturgica. Lo spettacolo pone soprattutto in rilievo l’imparità dei personaggi rispetto alla situazione che sono chiamati a vivere. I procedimenti cambiano però, anzi addirittura si capovolgono, quando entrano in scena i ceti aristocratici. Il personaggio stavolta appare superiore agli avvenimenti nei quali si trova immerso. Valga l’esempio di donna Caterina Auriti Laurentano, vestale del patriottismo o forse meglio sua vedova, luttuosamente fedele alla grande speranza risorgimentale tradita dall’inettitudine delle classi dirigenti postunitarie.
       Il ritratto ambisce a una ieraticità di tratti da tragedia greca: l’austera eroina svolge un ruolo di Cassandra, profetessa chiaroveggente ma inascoltata delle sventure che incombono sulla Sicilia e l’Italia. Ed ecco il destino la atterra: la notizia che il figlio Roberto è sotto inchiesta, coinvolto nel marasma fangoso che travolge la nazione, le fa sentire giunta l’ora di separarsi dagli uomini. Il tradimento è compiuto. Muta, immobile, gli occhi chiusi, attende la morte. Solo il pianto di Mauro attinge un’intensità di disperazione analoga alla sua, giungendole all’animo. Ma è inutile, ormai: «La morente, rimasta sola nell’ombra, immobile su i guanciali ammontati, udì tardi la voce, come se questa avesse dovuto far molto cammino per raggiungerla nelle profonde lontananze misteriose, ove già il suo spirito s’era inoltrato. E da queste lontananze, in risposta a quella voce, tardi venne alle sue palpebre chiuse una lagrima, ultima, che nessuno vide. Sgorgò da un occhio; scorse su la gota; cadde e scomparve tra le rughe del collo. Quando Pompeo Agro tornò a sedere su la poltrona a piè del letto, né più nell’occhio, né più su la gota ve n’era traccia. Donna Caterina era morta».

       L’enfasi del brano nobilita retoricamente la commozione da cui lo scrittore è preso: ma siamo a un livello non tanto di tragedia quanto di melodramma patetico. Di fronte al mondo aristocratico Pirandello è come in soggezione; si sforza di adeguare lo stile all’elevatezza morale che accomuna i membri della casata principesca dei Laurentano, pur nella diversità dei temperamenti e delle opinioni; quanto piú li vede circondati oppressi schiacciati dalla meschinità borghese, tanto più si applica a celebrare la loro grandezza solitaria: uomini di fede, sempre, librati ben oltre la materialità dei fatti che li condizionano.
       Il romanzo viene così percorso da una corrente di eloquenza, donde possono emergere anche similitudini di stampo ultraclassico: «Come un cavallo riottoso, cacciato contro sua voglia lontano dagli ostacoli che avrebbe dovuto superare, a un tratto, investito da una raffica turbinosa, adombra e s’impenna e recalcitra, fremendo in tutti i muscoli, Lando Laurentano, investito dalla veemenza di quell’indignazione generale, a un certo punto s’era impuntato, sentendosi soffocare dall’avvilimento della sua fuga».

           Qui lo scopo è di rilevare la fierezza del giovane principe, al paragone con i dirigenti dei Fasci siciliani, che scappano con la coda fra le gambe al sopraggiungere della repressione. Ma già in precedenza, al convegno tenuto nella casa romana dello stesso Lando, un’altra similitudine aveva adempiuto in modo analogo un compito opposto, schernendo l’inconcludenza parolaia degli agitatori da strapazzo: «Come i ranocchi quatti a musare all’orlo d’un pantano, se uno se ne spicca e dà un tonfo, tutti gli altri a due, a tre, tuffandosi, vi fanno un crepitio via via piú fitto; gli ascoltatori, incantati dapprima dall’arguto dire dell’Apes, cominciarono alla fine dietro un primo interruttore a interromperlo a due, a tre insieme, e quasi d’un subito, tra fautori e avversari, scoppiò da ogni parte violenta la contesa».

       Nei confronti dei ceti inferiori, l’atteggiamento stilistico è analogo a quello verso la nobiltà, ma con un contenuto rovesciato. La retoricizzazione della scrittura manifesta la stessa tendenza all’effettismo melodrammatico: in luogo del tributo d’ossequio affettuoso abbiamo però l’indulgenza paternalisticamente commossa. Ecco un’altra, diversa immagine di morte: un adulto e un giovane, uccisi entrambi dalle truppe regie: «Due cadaveri in quella cassa, uno su l’altro: uno con la faccia sotto i piedi dell’altro. Quello di sopra era d’un ragazzo. Divaricate, le gambe; la testa, affondata tra i piedi del compagno. A guardarlo così capovolto, pareva dicesse, in quell’atteggiamento: “No! No!“, con tutto il visino smunto, dagli occhi appena socchiusi, contratti ancora dall’angoscia dell’agonia. No, quella morte; no, quell’orrore; no, quella cassa per due, attufata da quel lezzo crudo e acre di carneficina. Ma piú raccapricciante era la vista dell’altro, di tra le scarpe logore del ragazzo, coi grandi occhi neri ancora sbarrati e un po’ di barba fulva sotto il mento. Era d’un contadino nel pieno vigore delle forze. Con quei terribili occhi sbarrati al cielo, dal corpo supino, chiedeva vendetta di quell’ultima atrocità, del peso di quell’altra vittima sopra di sé. “Vedete, Signore” pareva dicesse, “vedete che hanno fatto!”».

       Al pari di donna Caterina, si tratta di due vittime della borghesia: ma l’anziana aristocratica era stata colpita in modo indiretto, nei sentimenti affettivi, mentre essi sono stati raggiunti fisicamente dal piombo che ha spento la loro carne: e la protesta che esprimono in limine mortis è non sdegnosamente altera ma pateticamente convulsa. Lo scrittore li sogguarda, d’altronde, non nell’ultimo prolungamento di vita dell’agonia ma nel primo irrigidirsi delle membra subito dopo il trapasso: la loro ultima maschera non ha la compostezza funebre del volto della principessa: i lineamenti stravolti gridano una denuncia ormai vana contro la violenza subita.
       Solo così Pirandello poteva aderire con animo partecipe alle sofferenze del popolo siciliano: compatendone l’inerzia disperata, l’impotenza a farsi padroni della propria vita, cioè assurgere a soggetti autonomi del divenire storico. Massa amorfa anche se non apatica, immersa in una passività secolare, la plebe contadina costituisce bensí una delle forze sociali protagoniste dei Vecchi e i giovani: ma non è in grado di incarnarsi in individualità compiute e complesse. La sua rappresentazione è delegata emblematicamente alla figura tutt’affatto atipica di Mauro, e per il resto si affaccia solo in via di aneddoto episodico. È vero che i dirigenti socialisti si arrogano il diritto di parlare per suo conto; ma si tratta di intellettuali piccolo borghesi o di spostati senz’arte né parte, come «Propaganda e Compagnia», alias Luca Lizio e Nocio Pigna, i due animatori del Fascio girgentino: bene intenzionati, certo, e tuttavia vittime di un ideologismo astratto che vanifica grottescamente il loro operato tenendoli lontanissimi da una vera immedesimazione negli stati d’animo di minatori e braccianti.
       Così la vicenda collettiva degli insorti non giunge mai direttamente sulla pagina, al momento stesso in cui l’azione si compie: ne abbiamo piuttosto un’eco mediata, e come postuma, attraverso il resoconto di personaggi che non vi sono stati né avrebbero potuto esservi implicati. È da un giornale letto da Corrado Selmi, ad esempio, che apprendiamo notizia del massacro di Aragona, in cui la folla degli zolfatari ha linciato l’ingegner Costa e Nicoletta Capolino, bruciandone i cadaveri. D’altra parte, questo stesso episodio atroce non è un’esplosione spontanea di collera cieca, ma comunque vitale, delle masse popolari: a guidarle, a dare il via all’eccidio è quel Marco Preola, «aborto di natura», giornalista fallito, ricattatore e voltagabbana, che avevamo già conosciuto come redattore del foglio clericale di Girgenti.

       Il popolo è e resta incapace di iniziativa consapevole: altro non sa che riunirsi in cortei disordinati, brandendo il crocifisso e il ritratto del re, per rivendicare il diritto più elementare, quello all’esistenza, e farsi sorprendere inerme dalla fucileria delle truppe. Inutile narrare distesamente queste vicende di supplica piuttosto che di rivolta: a chiarirne il significato bastano i cadaveri innocenti rimasti sul terreno, così come li vediamo con gli occhi di Lando, nel brano riportato più sopra. La riluttanza a una descrizione effettuale dei moti popolari raggiunge il culmine nell’ultima pagina del romanzo, che pure rappresenta lo scontro in cui viene ucciso Mauro. Un doppio espediente è messo in atto: la soggettivizzazione del racconto, secondo lo stato confusionale del personaggio, e l’astrattezza dell’immagine evocativa con cui il narratore sintetizza la dinamica convulsa degli avvenimenti, evitando di concretarne i fattori umani: «non ebbe tempo di veder nulla, di pensare a nulla: travolto, tra una fitta sassaiola, in uno scompiglio furibondo, ebbe come un guazzabuglio di impressioni così rapide e violente da non poter nulla avvertire, altro che lo strappo spaventoso d’una fuga compatta che si precipitava urlante; un rimbombo tremendo; uno stramazzo e… La piazza, come schiantata e in fuga anch’essa dietro gli urli del popolo che la disertava, appena il fumo dei fucili si diradò nel livido smortume dell’alba, parve agli occhi dei soldati come trattenuta dal peso di cinque corpi inerti, sparsi qua e là».

       Da un lato l’insistenza sull’impossibilità di «veder nulla, di pensare a nulla», di «poter nulla avvertire»; dall’altro la personificazione della «fuga compatta» e poi della piazza «schiantata». Così appare conclusivamente la terra di Sicilia: un luogo dove l’umanità piú vitalmente ingenua non è in grado di attingere il livello della coscienza, tutta tesa com’è a cercare riparo da una violenza non meno incomprensibile che ineluttabile. Le cose, la natura stessa ne sono travolte. La morte rimane sola e vera protagonista del libro: la morte, o meglio i sussulti di un’agonia senza fine, giacché il gran corpo collettivo è ricco di energie ancora valide, condannate a oscillare tra l’inerzia letargica e la frustrazione della sconfitta.
       Qui, infine, il destino del popolo si unisce a quello degli altri ceti e la gente di Sicilia appare scontare lo stesso fato che incombe sull’intera nazione. Roma, «putrida carogna», cuore infetto di uno Stato marcescente, simboleggia con l’icasticità d’un mito negativo questa condizione cronica di non vita, che è peggio della morte. Le migliori attitudini del narratore appaiono volte ad assaporare con acutezza voluttuosa una disperazione che il raziocinio sa ineludibile, perché imposta dalla legge dell’esistenza: anche se, portando lo sguardo sulla vastità del dramma collettivo, risorge volontaristicamente la speranza favolosa se non di un riscatto almeno d’uno sforzo di solidarietà attiva fra tutti i membri della famiglia italiana.

       Un intreccio arrovellato
       La struttura dei Vecchi e i giovani risente della laboriosità dello sforzo esperito per saldare le due componenti che presiedettero alla progettazione del libro: il pessimismo scettico, che dilaga per la maggior parte del quadro, e l’empito della protesta indignata, che costituisce l’asse portante del discorso narrativo, aprendolo infine a un vaticinio di palingenesi. Un fattore statico e uno dinamico, insomma, strettamente combinati: quanto più la narrazione si impaluda in un proliferare di linee avviluppate, tanto più cresce l’ansia di portare a termine l’itinerario senza abbandonarsi al disgusto ma anzi trovandovi la fonte di nuove energie. Così fra i tempi e i luoghi della vicenda romanzesca si instaura un rapporto di opposizione e complementarità, attraverso una fitta serie di rimandi giocati alternamente sul prevedibile e sull’imprevisto: gli episodi sembra non debbano far altro che confermarsi reciprocamente, ma dalla loro interdipendenza emerge, come in negativo, un messaggio levato oltre di essi.

       La partizione della materia rivela subito di obbedire a un criterio di simmetrie sin troppo elaborate, che tuttavia non vogliono configurare un sistema di rispondenze geometricamente chiuso: anzi, la bipolarità delle angolazioni narrative è via via esaltata, sino al doppio epilogo, dove il circolo torna su se stesso ma lascia pur libera una linea di fuga. Il libro comprende due parti pressappoco eguali, ciascuna divisa in otto capitoli. La prima, ambientata tutta a Girgenti, intreccia il racconto della sconfitta elettorale di Roberto Auriti, scontata in partenza, con il fidanzamento fra Ippolito Laurentano e Adelaide Salvo, già deciso prima dell’inizio del racconto. La seconda parte ha una suddivisione interna: i primi quattro capitoli ci trasportano dalla provincia a Roma per farci assistere all’arresto di Roberto e alla pazzia di Dianella; con gli ultimi quattro torniamo a Girgenti, dove l’eco scandalosa della fine del matrimonio di don Ippolito si perde nel clima di sgomento generale dello stato d’assedio. Alla chiusura del romanzo ci ritroviamo nello stesso luogo donde la narrazione aveva preso le mosse: la villa di Valsania, residenza di don Cosmo. Qui giunge Lando con i suoi compagni di fuga, per ripartire alla volta di Malta; di qui lo sdegnato Mauro si allontana, incontro alla morte.
       Questo schema architettonico assegna un peso preponderante alle vicissitudini dei membri della famiglia Laurentano. Ma la storia della grande casata nobiliare si realizza attraverso l’impatto con la nuova civiltà borghese, da cui i suoi componenti, vecchi e giovani, traggono sollecitazioni diverse: la tendenza a un altero o malinconico ma sempre sterile arroccamento su se stessi, oppure il cedimento a forme di compromissione destinate a risolversi nell’ignominia. Il nodo strutturale del romanzo sta nell’assegnare alla presenza borghese un ruolo duplice: vittoriosa nei confronti dell’aristocrazia, ma sconfitta dalla sua stessa corruzione intima, che le impedisce di affermare ordinatamente il suo potere sull’intera nazione, cioè anzitutto sulle classi lavoratrici.

       A tale scopo vengono adibiti due distinti filoni d’intreccio. Il primo trae origine dalle memorie familiari dello scrittore: è la cronistoria senza sorprese della parabola discendente percorsa, tra la mancata elezione e l’arresto, da un personaggio d’origine nobiliare ma immedesimatosi nella classe al potere, Roberto Auriti. Attorno a lui, l’ambiente piccolo borghese che lo risucchia, svuotandolo di dignità e di energia, senza d’altronde infondergli quel cinismo allegramente e persino candidamente irresponsabile che è la sola ragione di forza dei Selmi e dei Passalacqua. A effetto di contrasto, la figura di Roberto è sovrastata da quella della madre, sacerdotessa inascoltata dell’ideale. Il secondo filone ha invece carattere altamente romanzesco, e come tale svela la sua logica interna solo in prossimità della catastrofe. Il proscenio appare occupato da don Ippolito; ma il vero deus ex machina è Flaminio Salvo, che combina machiavellicamente il matrimonio tra la sorella e il vecchio principe per preparare il terreno alle nozze che più gli stanno a cuore, quello della figlia Dianella con l’ultimo dei Laurentano, Lando. Il primo sposalizio ha felicemente luogo con la mediazione del vescovo; per portare a termine l’altro progetto, Salvo ricorre invece ai buoni uffici del suo cliente Capolino, che persuade la moglie Nicoletta a fuggire con Aurelio Costa, l’ex popolano imborghesito di cui Dianella è innamorata.

       Fino a questo punto, le due linee della trama procedono parallele, rimandando l’una all’altra solo in virtù della loro contiguità spaziale e temporale. A fonderle deve intervenire un terzo elemento, l’irruzione della storia pubblica, che travolge sia i dati cronistici sia i romanzeschi. Protagonista sembra diventare il popolo in rivolta: il suo intervento infatti vanifica il disegno di Salvo, con il massacro di Nicoletta e del Costa e la susseguente pazzia di Dianella. Ma subito dalla massa plebea emerge la personalità aristocratica di Lando, qualificandosi come il punto focale della narrazione. Lo abbiamo visto cooperare alla caduta di Roberto, con il rifiuto di dargli soccorso a motivo di un rancore privato verso l’amico di lui Corrado Selmi; lo sappiamo autore inconsapevole della rovina di casa Salvo, quale oggetto delle mire dinastiche di Flaminio; lo scorgiamo ora assumersi l’eredità ideale dei moti popolari, che pure non ha condiviso anche se ne è stato corresponsabile. Le molteplici esperienze attraversate gli sono valse la capacità di rischiarare la via del futuro, che prenderà forma dal superamento di tutti i particolarismi, individuali e di classe, risolvendo il contrasto fra socialità e nazione.
       La statura messianica del personaggio è confermata, in chiaroscuro, dall’opportunismo ultraborghese di Capolino, che nella contingenza effettuale parrebbe il solo vincitore: la tragedia familiare non lo sconvolge piú di quanto faccia la crisi del paese, anzi gli diventa occasione per rinnovare le sue fortune personali, fuggendo con Adelaide Salvo, maritata Laurentano. Ben altra è la lezione morale che Lando ha appreso: non per nulla a lui rimandano anche la figura di don Cosmo e quella di Mauro, che nel corso delle varie vicende romanzesche hanno assolto per così dire una funzione catalitica, come portatori delle due istanze di verità postulate dal narratore, all’apparenza opposte ma nella sostanza complementari. Lando è il giovane che del vecchio popolano riprende l’ansia di attività generosa, ma non i ritardi mentali, mentre ripete l’alta consapevolezza intellettuale dell’anziano aristocratico, depurata però del suo scetticismo amaro.

       Le luci del racconto convergono dunque sul principe socialista, che dal punto di vista ideologico vuol rappresentare il fattore risolutivo, la sintesi a posteriori delle contraddizioni emerse nel quadro romanzesco. Ma dal punto di vista strutturale il personaggio non è in grado di reggere il peso di una narrazione troppo complessa, raccogliendone tutte le fila. La sua connessione alle due componenti principali dell’intreccio appare estrinseca o comunque non decisiva; e anche nel tratto terminale la sua parte non è tanto quella del protagonista attivo quanto del testimone, coinvolto in avvenimenti dai quali è in grado di trarre un ammaestramento positivo proprio perché non vi si riconosce.
Tra i vari ingranaggi della macchina narrativa si producono così delle sfasature che ne compromettono l’organicità funzionale. I singoli elementi tendono ad avere uno sviluppo autonomo, anche se rimandano tutti al clima comune determinato dall’ossessiva presenza borghese. Come s’è già detto, la tecnica pirandelliana consiste nel calarsi interamente, di volta in volta, nella situazione vissuta dal personaggio, ricostruendone i dati esterni con una ambizione di completezza esaustiva: su queste premesse viene attuato il passaggio dal sociologico allo psicologico, che conduce a sprofondare nella contraddizione esistenziale dell’io. Dal chiuso della coscienza si esce però subito, per verificare le sollecitazioni cui è sottoposta dal mondo: un nuovo episodio prende vita mentre altri gli concrescono accanto, nascendo da fattori diversi ma seguendo uno svolgimento analogo in quanto generati tutti dalla stessa civiltà negativa e obbedienti alla stessa logica, ciecamente costruttiva e distruttiva.

       Nella prima parte la narrazione procede per blocchi omogenei estesi per vari capitoli, alternando la vicenda elettorale di Roberto a quella matrimoniale Laurentano-Salvo; nella seconda parte il succedersi delle scene si fa più sciolto e serrato, per conseguenza dell’intromissione di Lando. All’interno delle unità narrative maggiori, il metodo seguito per raccordare e fluidificare i passaggi scenici resta comunque identico: un personaggio viene portato alla ribalta e posto a confronto con altri; nell’ambito di questo spazio si affaccia in modo diretto o indiretto un elemento di novità; le quinte girano, si configura un ambiente diverso in cui lo spunto precedente è ripreso con ampiezza adeguata; e così via.
       Ma la duttilità delle articolazioni poste in opera fra gli episodi componenti il capitolo o l’insieme di capitoli dà maggior rilievo al fatto che i tre nuclei narrativi non si integrano, invece, intimamente. E ciò a dispetto della rete di rimandi, corrispondenze, analogie instaurata fra i personaggi, che sembrano rincorrersi, rimpiattarsi, tornare alla vista da un piano all’altro dello stesso edificio: prima tutti a Girgenti, poi migrati quasi in massa a Roma, infine di nuovo nella cittadina siciliana. Certo, l’appartenenza comune a un unico microcosmo urbano rende plausibile l’intreccio vertiginoso di rapporti che oltrepassano le differenze sia di classe sia di generazione: per far l’esempio di una figura fra le piú periferiche, Celsina Pigna, figlia dell’organizzatore socialista, amoreggia con Antonino Del Re, nipote di donna Caterina Laurentano, e si ritroverà con lui a Roma in casa dello zio Roberto, dove conoscerà Corrado Selmi e Mauro Mortara, mentre i dirigenti dei Fasci la condurranno dal principe Lando. Tuttavia, per quanto Pirandello rimescoli continuamente le carte, queste gli si dispongono su piani che non collimano.

       L’unità dei Vecchi e i giovani vorrebbe fondarsi sul rapporto non solo di concittadinanza ma di parentela che sussiste fra i membri di casa Laurentano. Ma il progetto non può avere esecuzione adeguata in quanto i personaggi nei quali si incarna appaiono piuttosto agiti dall’esterno che non dinamicamente traenti la mole narrativa. A muoverla sono i loro antagonisti, gli eroi borghesi, anzitutto Flaminio Salvo: appoggiando la candidatura di Capolino, determina il fallimento elettorale di Roberto; il desiderio nascosto di far sposare la figlia a Lando gli fa combinare il matrimonio di don Ippolito e Adelaide, distruggendo invece quello di Ignazio e Nicoletta, spinta a fuggire con Aurelio Costa; infine la durezza del suo atteggiamento verso gli operai delle miniere lo rende corresponsabile dell’eccidio di Aragona e indirettamente della generale sollevazione di popolo.
       Ma Pirandello prova una riluttanza invincibile a raffigurare dispiegatamente un eroe dell’azione, sia pur indirizzata in senso negativo. Il ritratto di Salvo si qualifica non tanto per i connotati imperiosi d’una volontà che trionfa sul corso degli eventi, quanto per un funesto presagio intimo di sconfitta, che gli avvenimenti si incaricheranno di confermare. Anche e proprio laddove il capitalista borghese esplica meglio la sua attitudine al comando, protagonista non è lui ma la resistenza opposta dagli uomini e dalle cose ai suoi disegni. L’umanità di Flaminio è salvata appunto dalla consapevolezza dell’illusorietà dell’edificio di dominio che ha costruito e viene costruendo: la sua è una falsa demiurgia, realizzata tutta in una dimensione esterna, senza attingere mai il livello della creatività vera, quello delle coscienze.

       La funzione del personaggio Salvo consiste nell’illustrare esemplarmente l’incapacità e impossibilità di sovrapporre un ordine innaturale, come quello borghese, al flusso spontaneo, caotico ma vitale dell’esistenza collettiva: la reazione consiste in un esasperarsi di tendenze centrifughe destinate a esplodere senza controllo, nel trionfo della morte. Il disperso mondo sociale non tollera le offese recategli dalla volontà pseudounificante della civiltà borghese. E la scoordinata sintassi narrativa intende mimare la crisi dei rapporti interpersonali, quale si esplica anzitutto nell’ambito della famiglia per dilagare poi nelle dimensioni più ampie del vivere consociato.
       La materia romanzesca si dispone attorno a una pluralità di punti di aggregazione, incentrati sui singoli destini individuali; ogni scomparto autonomo è dedicato a un ritratto; ogni caratterizzazione fisionomica è condotta su due versanti, uno esterno, esposto al condizionamento ambientale, uno interno, di macerazione solipsistica. Per il primo aspetto, le vicende unilineari dei personaggi si intersecano e aggrovigliano, senza riuscir ad assumere una disposizione architettonicamente coerente; per il secondo, ciascuna esistenza ritrova senso compiuto, nella misura in cui lo scontro con la realtà provoca uno sbilanciamento dell’io che si rinchiude in se stesso e si autoconsuma in un’inerzia funerea oppure piomba nella notte della follia. Unico a salvarsi è Lando; ma ciò accade non tanto per virtú intrinseca sua quanto perché la mano dello scrittore lo sorregge e lo sbalza oltre l’orizzonte d’impotenza in cui tutti gli altri personaggi si aggirano.

       Un eroe per l’Italia futura
       Il privilegio coscienziale concesso al giovane principe rappresenta il dato basilare per comprendere il punto di vista complessivo adottato da Pirandello nella rappresentazione romanzesca, e quindi il tipo di rapporto che egli si propone di attuare con i lettori. Siamo di fronte a un caso perspicuo di identificazione del creatore nella creatura. Lando è l’eroe esemplare in cui Pirandello proietta il suo disgusto per il presente e la speranza nel futuro, il criticismo corrosivo e l’ansia di una fede laica, l’interesse sincero per la sorte delle masse diseredate e la convinzione che solo un’opera di paternalismo illuminato ne consentirà il riscatto. Non per nulla si tratta di un intellettuale, un uomo di cultura: ma che aspira all’azione, e anche se non la realizza effettualmente, esce però di scena avendo acquisito consapevolezza del criterio secondo cui agire.
       Il linguaggio romanzesco corrisponde alle caratteristiche fisionomiche del personaggio: la scrittura pirandelliana getta per così dire un ponte fra aristocraticismo stilistico e familiarità di eloquio plebeo, sconvolgendo la medietas comunicativa borghese in nome d’una urgenza espressiva che vuol dare alle parole il dinamismo corposo degli avvenimenti vitali. Allo stesso modo, la struttura dei Vecchi e i giovani è determinata dall’ottica mentale di Lando, quasi egli avesse impreso a narrare le memorie della famiglia, con la lucidità di chi si colloca oltre i dissidi patiti dai protagonisti e tuttavia secondando l’inclinazione ad avvolgerne d’un’aura affettuosa i ritratti. Ma per una verifica finale delle modalità e significati di questo processo di immedesimazione nella figura dell’ultimo erede dei Laurentano occorre portarsi sul piano ideologico.

       Lando è il travestimento aristocratico del borghese Pirandello, che attraverso di lui esprime il suo odio per la propria classe, alla quale continua ad essere visceralmente legato. Il figlio della borghesia si rivolta contro il ceto sociale che lo ha generato, contestandogli la mancanza di autorità dimostrata non riuscendo a risolvere la questione meridionale e quindi a sviluppare adeguatamente la rinascita della nazione. Contro la mediocrità degli attuali detentori del potere prende corpo l’appello ai loro predecessori: magnanimi sempre, anche negli errori, anche nelle colpe. Ma l’appello al passato non può assumere connotati di rimpianto elegiaco, giacché ciò significherebbe revocare in forse l’impresa che la generazione dei padri ha pure compiuto, l’unità d’Italia. Lo ieri non può né deve risorgere: la sconfitta dell’ancien régime è un fatto giustamente compiuto: dalla rivoluzione nazionale non si torna indietro, a dispetto dell’avvilimento per i modi indecorosi con cui si è voluto realizzarla.
Il punto è che le forze sociali spodestate dalla borghesia sappiano riprendere l’iniziativa, adeguandosi ai tempi, cioè subentrando nel compito che il Terzo Stato ha saputo astutamente addossarsi ma non portare a soluzione degna. Occorre dunque che l’antica aristocrazia terriera scavalchi i ceti intermedi per assumere in proprio la rappresentanza degli strati subalterni, grande serbatoio di energie umane che possono declinare a esiti rovinosi ma, indirizzate adeguatamente, rinsangueranno il corpo fiaccato della nazione.

       Pirandello riprende l’esigenza di un nuovo italianismo che aveva sorretto la scoperta del mondo popolare siciliano da parte del Verga verista. Ma nell’autore dei Malavoglia, come in Capuana e piú ancora in De Roberto, il fallimento della borghesia veniva imputato proprio alla ricerca di un’alleanza con i ceti feudali, che si risolveva nell’accettazione d’un ruolo subalterno: nel passaggio dai Borboni ai Savoia il padronato terriero non solo conservava ma accresceva il suo predominio. Al nostro scrittore invece sembra che siano le forze capitalistiche ad assumere l’egemonia, nel blocco economico-sociale al potere in Sicilia; nei Vecchi e i giovani la grande proprietà latifondista domina bensì il quadro, ma non con l’incombenza paurosa attribuitale, poniamo, nei Viceré: tale figura spetta piuttosto all’esponente del profitto industriale e finanziario.
       In base a questa diagnosi, il narratore concepisce un progetto, o diciamo un auspicio, d’un irrealismo sorprendente: i detentori della ricchezza agricola rinunzino spontaneamente alle posizioni di rendita parassitaria, si svincolino dal legame con l’alta borghesia, promuovano in modi controllati l’avanzamento delle plebi contadine, infine prendano a gestire la causa unitaria contro cui s’erano battuti durante il Risorgimento. Nel suo velleitarismo letterario, questa idea-guida nasceva da una doppia preoccupazione molto concreta: il borghesissimo Pirandello, erede del laicismo e del radicalesimo risorgimentali, vede le masse popolari soggiacere all’influenza organizzata di due ideologie opposte ma egualmente nefaste al progresso del paese: clericalesimo e socialismo.

       Nei confronti del primo pericolo, il romanziere non ha riguardi: la Chiesa incarna l’antirisorgimento e rappresenta oggi l’antinazione, fungendo da cemento e copertura dell’intreccio di interessi tra borbonici reazionari e affaristi senza scrupoli: emblematica è la parte di mediatore svolta dal vescovo Montoro nel matrimonio di Adelaide Salvo con Ippolito Laurentano. Nessun lievito ideale anima queste operazioni: il presule girgentino ci appare, nell’incontro con don Cosmo, come un carrierista che ha sepolto la miscredenza sotto una coltre di ipocrisia melliflua; le sue prese di posizione pubbliche sono dettate solo da una volontà ottusa di difesa dei privilegi della casta ecclesiastica, in quanto connessi indissolubilmente a quelli dei ceti proprietari.
       La religione si limita a offrire un alibi per predicare al popolo «lo starsi quieto tra le tante tribolazioni della vita»: questo è il messaggio offertoci, per antifrasi ironica, nel soliloquio di Capitan Sciaralla, al primo capitolo; e il motivo viene ribadito, verso la conclusione dell’opera, con la pastorale di monsignor Montoro ai reverendi parroci, intitolata «Semper pauperi habetis vobiscum». Il conservatorismo dell’alto clero siciliano non si lascia scuotere nemmeno dalla brutalità delle misure repressive disposte dal governo, che uniscono in un moto d’indignazione tutti gli isolani, al di sopra delle differenze politiche e sociali: il borbonico don Ippolito pensa addirittura di venire a un’intesa col figlio socialista, in nome della comune volontà di spingere le masse a rovesciare l’iniquo regime capitalistico. Proposta irrealizzabile, naturalmente, visto chi la avanzava: ma significativa per sottolineare quale fosse il punto di maggior rischio, agli occhi di Pirandello: la possibilità che nelle plebi esasperate la fede religiosa smettesse di costituire un ostacolo e anzi divenisse un incentivo all’egualitarismo sociale. Non per nulla, d’altronde, il romanzo introduce, con la figura dell’eterodosso canonico Pompeo Agro, i motivi tipici della «democrazia cristiana», quali in quel torno di tempo si agitavano nel mondo cattolico.

       Veniamo così all’altro grande errore sovrastante la Sicilia e l’Italia. Nel fare i conti con il socialismo, Pirandello pone anzitutto una premessa: il popolo non può piú andare avanti così, perché muore di fame. E con lo stomaco non si ragiona, è inutile ricorrere a belle parole e alati ideali. Ce lo conferma subito, a inizio di libro, il «vecchierello mendico» che col rosario in mano aspetta l’elemosina dal capo delle guardie di don Ippolito, «e sentendo un lungo brontolio nel suo stomaco gli aveva fatto notare con un mesto sorriso: “Senti? Non te lo dico io; te lo dice lui che ha fame…”».
       I vecchi e i giovani insiste energicamente sulla materialità fisica della miseria sofferta dai lavoratori siciliani. Assieme, rileva con eguale insistenza l’altra fame che generazioni di contadini hanno nutrito e nutrono: l’ansia di giustizia sociale, che assume concretezza nell’aspirazione al possesso della terra. Valga l’aneddoto struggentemente icastico sul bracciante che una sera, incappucciato, con aria di sospetto e mistero trae in un vicolo l’organizzatore del Fascio girgentino per chiedergli sottovoce: «È qua che si spartiscono le terre?» E quando il dirigente esterrefatto cerca di spiegargli che per avere le terre occorre unirsi, concordare un programma politico, sostenere delle lotte, l’altro ripiomba subito nell’«amara e cupa incredulità» da cui per un attimo s’era così ingenuamente sollevato: «Ho capito. Mi pareva assai! Mi hanno burlato». «Ma che dobbiamo volere noi poveretti? che possiamo volere?». «Voscenza mi lasci andare… Non è per me…». «Sissignore, bacio le mani… Per carità, come se non le avessi detto niente…».

       Tale è l’abisso di ignoranza diffidente e scorata in cui l’incuria dei governi ha lasciato cadere le plebi. Appunto da questa constatazione muove la critica al programma politico dei Fasci, affidata al personaggio di Spiridione Covazza, dietro cui si cela la figura storica dell’onorevole Napoleone Colajanni. Durante un dibattito tumultuoso in casa di Lando, egli dà una impeccabile lezione di realismo ai giovani dirigenti socialisti, cattivi conoscitori di Marx e quindi incapaci di applicarne le teorie alla situazione concreta dell’isola: se compissero un’analisi appena oggettiva delle forze in campo, senza scambiare i loro desideri con la realtà, si renderebbero conto che contadini e zolfatari sono disponibili soltanto per una rivolta sanguinosa e infeconda, non per una rivoluzione politicamente organizzata.
       I moti che con tanta e sia pur generosa avventatezza si vanno preparando sono dunque destinati a disfatta sicura. D’altra parte le richieste avanzate dai Fasci non hanno affatto una sostanza eversiva: la riflessione intima di Lando subentra al discorso di Covazza, mettendo in chiaro che si tratta soltanto di ottenere «ciò che forse nessuno, fuori dell’isola, avrebbe mai creduto che già non ci fosse»: «una buona legge agraria, una lieve riforma dei patti colonici, un lieve miglioramento dei magri salari, la mezzadria a oneste condizioni, come quelle della Toscana e della Lombardia, come quelle accordate da lui nei suoi possedimenti, sarebbero bastati a quietare quei miseri, senza tanto fragor di minacce, senza bisogno d’assumere quelle arie d’apostoli, di profeti, di paladini».

       Scartata l’ipotesi rivoluzionaria, l’unica via che la realtà consente di esperire è quella delle riforme. Ma all’ordine delle considerazioni oggettive si sovrappone la scelta ideologica del personaggio, e dell’autore con lui. Lando sente di non poter soddisfare la sua smania di vitalità eroica dedicandosi a sostenere un programma di rivendicazioni tanto modeste: «Poteva oggi pascersi di esse, e non pensare ad altro? No, no: troppo poco per lui!». L’illuminazione successiva gli viene di fronte al fallimento della prova di forza ingaggiata dai socialisti con il governo: per attuare un piano di riforme che portino a un miglioramento nelle condizioni di vita dei lavoratori occorre seguire il metodo non della lotta ma della collaborazione di classe, fra l’aristocrazia fondiaria e il proletariato agricolo. La spinta ideale all’azione concorde sarebbe stata fornita da una ripresa del sentimento patriottico, contro le nostalgie passatiste, da un lato, e le minacce disgregatrici dell’internazionalismo socialista, dall’altro.

       L’impotenza ad agire
       Il sogno di Lando consiste dunque nello sviluppare interclassisticamente la protesta della civiltà agricola meridionale contro le sopraffazioni dell’industrialesimo urbano insediato nel Nord Italia. Ma se questa apertura prospettica illumina la disposizione dei materiali narrativi, non induce però un ribaltamento d’orizzonte. Non è solo la struttura interna del romanzo a ostacolarlo: la personalità stessa dello scrittore non consente di dare corpo concreto ai motivi rappresi attorno alla figura del giovane Laurentano. Già il profilo del personaggio, con la sua ansia indeterminata di vita attiva, rischia di assumere lineamenti dannunziani piuttosto che pirandelliani: rappresentarlo all’opera, intento a realizzare costruttivamente i suoi nuovi ideali, avrebbe implicato una fuoruscita definitiva dall’universo mentale del nostro scrittore.
       L’autore del Fu Mattia Pascal non poteva rinunziare all’apriorismo critico che lo induceva a contestare ogni tentativo di stabilire un rapporto organico fra l’individuo e i suoi simili: cioè a negare non una determinata forma di organizzazione sociale, ma la socialità stessa. Solo l’esistenza dell’io è secondo natura, non quella della civiltà. E il destino del singolo è di scontare sino in fondo la carenza irrimediabile di comprensione solidale con gli altri. Certo, l’umanità dell’uomo si misura sull’impegno magnanimo con cui persegue un’illusione eroica, che il flusso della vita corrompe e disgrega. Di qui il canone di valori moralmente positivi che nei Vecchi e i giovani contraddistingue gli esponenti della classe aristocratica. Ma la realtà si vendica, costringendoli a una solitudine impotente e delusa, nella quale la loro tensione energetica degenera in follia monomaniacale.

       La vera risorsa cui attingere resta allora soltanto la lucidità intellettuale nello stendere il resoconto del proprio fallimento: l’io prende atto di non aver un punto di stabilità interiore al quale rapportare le relazioni intessute con gli altri: e rinunzia a capire, rinunzia ad agire, infine rinunzia a vivere. La tensione perpetua in cui versano i personaggi pirandelliani deriva dall’insofferenza verso tutti i vincoli legali e formali, che rendono inautentico l’individuo; e d’altronde dalla consapevolezza che la spinta istintiva a realizzare se stesso può esser soddisfatta solo nell’incontro con gli altri: donde la necessità dell’obbedienza a una legge collettiva. L’insoddisfazione critica per la realtà presente degli ordinamenti borghesi trapassa in disagio per l’esistenza. Si perde così ogni prospettiva di rinnovamento storico; in compenso viene esaltata la furia iconoclastica dell’oltraggio alla civiltà.
       Il socialismo marxista diventa allora semplice strumento per corroborare l’indole distruttiva della rivolta contro le istituzioni: ma al di là delle motivazioni razionali, lo stato d’animo antiborghese rimanda a una rabbia anarchica contro tutti i principi costitutivi della politica. Se occorresse accertare ancora la fisionomia del personaggio di Lando, ricordiamo il brano chiarificatore in cui un amico del giovane principe revoca esplicitamente in dubbio il valore della sua adesione al socialismo, con queste parole: «Socialista, un indisciplinato socialista, un nemico, non di questo o quell’ordine, ma dell’ordine in genere, d’ogni forma determinata?». Questo appunto era l’atteggiamento fondamentale di Pirandello. Perciò I vecchi e i giovani costituisce l’affresco allucinato di un tracollo generale, in un clima da fine della storia. La Sicilia e l’Italia vanno alla deriva e fra i cittadini, fra le classi manca la coesione necessaria per la salvezza comune. La denuncia di questo stato di cose conta assai più del tentativo impossibile di delineare una soluzione.

       L’interesse documentario del romanzo sta essenzialmente nel vigore con cui viene rappresentata la svolta prodottasi all’entrata del paese nell’epoca della civiltà di massa: un sommovimento profondo, che non poteva non provocare la conflagrazione dei problemi e contrasti accumulatisi durante e dopo il processo di nascita dello Stato unitario. Ma la sensibilità sociale di Pirandello non è sorretta da una conoscenza adeguata dei meccanismi che hanno determinato gli squilibri di cui soffre lo sviluppo della nazione. Egli mette a fuoco un nodo fondamentale della crisi: il fatto che il Mezzogiorno ha pagato le spese dell’avvio di industrializzazione del Nord. Quanto all’analisi delle responsabilità, tuttavia, non sa andar oltre le ben note accuse d’ordine morale al mercantilismo gretto della mentalità borghese.
       Così lo sguardo portato sulla complessità dinamica dell’universo sociale torna subito a concentrarsi sui drammi interiori dell’individuo: il romanzo, s’è detto, trova i risultati espressivi migliori nella dimensione psicologica. E la consapevolezza dell’irruzione effettuata dalle masse sulla scena pubblica non dà come conseguenza un accrescimento di fiducia nella democrazia: al contrario, le sorti future del proletariato vengono demandate a un’opera intrapresa oculatamente dall’alto. Potrebbe persino venire a mente il cosiddetto «socialismo della cattedra», teorizzato nell’ambito di quella cultura tedesca che Pirandello, in gioventú, aveva avuto modo di conoscere bene. Ma nel suo pensiero svolge un ruolo decisivo la preoccupazione nazionale: si affaccia perciò piuttosto il ricordo dell’appello del Pascoli alla «grande proletaria», invitata a decidere il suo avvenire nelle imprese d’oltremare.
       Il raffronto con l’atteggiamento pascoliano è d’altronde significativo perché consente di ribadire, per contrasto, il merito maggiore dei Vecchi e i giovani sul piano storico: il duro richiamo alla necessità non di conquistar colonie ma di smettere lo sfruttamento coloniale delle terre del Sud. Ma proprio qui sta anche il motivo primo per cui l’intervento sull’opinione pubblica che lo scrittore intendeva compiere con questo romanzo rimase senza effetto. La classe dirigente italiana non era affatto disposta ad affrontare la questione meridionale con l’urgenza che Pirandello giustamente reclamava. Altri erano i problemi, altre le vie su cui la nostra vita politica si indirizzava in quel torno di tempo: la prima redazione dell’opera appare poco avanti la spedizione di Libia; la stesura definitiva è pubblicata quasi alla vigilia della guerra mondiale.

       Di più, il clima culturale in cui il libro vedeva la luce non dava alcuna rispondenza agli impulsi che l’avevan fatto nascere: i ceti intellettuali, quand’anche non partecipavano alla fascinazione collettiva per le avventure ideali e i miti estetici del dannunzianesimo, erano assai poco inclini a fare i conti con la concretezza della realtà economico-sociale. Il discorso dei Vecchi e i giovani suonava anacronistico: lo si sarebbe potuto capire all’epoca del verismo, non ora. Ma poi, tutto l’impianto del romanzo soffre d’uno scompenso di fondo, per quanto attiene alla ricerca del dialogo con il pubblico. Lo scrittore cerca infatti i suoi interlocutori nell’ambito non dell’aristocrazia né tanto meno delle classi popolari ma di quella stessa borghesia che l’opera pone sotto accusa. Consapevole di questa incongruenza, mira a catturare l’attenzione con procedimenti di tipo provocatorio, tali da indurre uno choc emotivo nel lettore che, disorientato e vinto, si renda disponibile a elargirgli il suo consenso.
       Da ciò la larga escursione delle tonalità di linguaggio e l’aggressivo espressionismo stilistico; da ciò soprattutto la tecnica dell’alternanza e commistione fra spietatezza loica dell’analisi e causticità del sarcasmo con cui vengon revocati in dubbio i risultati degli accertamenti appena eseguiti. Sotto l’effetto di questi impulsi concomitanti la pagina si carica d’una foga sovreccitata: il pubblico è tenuto in uno stato di disagio permanente, senza mai consentirgli pause di abbandono. Quand’anche si profila un momento di espansività patetica, subito il romanziere si affretta a contraddirlo così da aggravare ulteriormente la frustrazione di chi lo segue. Il fitto proliferare di episodi e figure esige un contributo di attenzione che non viene rimunerato con un rilancio estroso dell’intreccio: occorre concentrarsi di volta in volta su situazioni particolari, per poi constatare che tendono a sovrapporsi anziché svilupparsi una dall’altra: l’intervento dell’imprevedibilità casuale si limita a confermare un’attesa dall’esito scontato.

       Questi caratteri formali ravvicinano molto I vecchi e i giovani ai Viceré di De Roberto ispirati da una volontà analoga di sopraffare il lettore con l’ampiezza elaborata di un congegno romanzesco irridentemente crudele, che non solo non risparmia ma anzi infierisce in modo particolare sulle zone di sensibilità più scoperta dell’opinione media. Ma il capolavoro derobertiano ottiene un risultato di coerenza assoluta, in quanto salvaguardato da un rifiuto intransigente delle consolazioni offerte da ogni residua speranza nella storia e nella natura umana. L’educazione positivista del narratore è approdata a un nichilismo di stampo swiftiano, che non concede all’animale uomo altra possibilità di progredire se non marciando a ritroso.
       Nell’opera pirandelliana l’ardore di negazione appare esibito con un eccesso di compiacimento enfatico: donde la gonfiezza della sintassi narrativa, e assieme la tendenza alla dispersione delle linee d’intreccio. Lo scrittore appare piuttosto esagitatamente preoccupato di convincere, laddove De Roberto si limitava a narrare, con pacatezza piú distesa e proprio perciò piú autenticamente portatrice d’angoscia. In effetti la profluvie di oltraggi accumulata nei Vecchi e i giovani mira a ingenerare uno stato d’animo di prostrazione desolata, da cui per contrappasso, quasi per moto di sollievo, possa scaturire l’adesione all’apertura verso il futuro incarnata da Lando, nell’ultimo scorcio del libro. Ma ciò si verifica troppo tardi; d’altronde il mutamento prospettico, s’è già detto, non prende né potrebbe prendere corpo adeguato. Nello stesso tempo, il jeu de massacre cui assistiamo non ha la logicità irreparabile dei Viceré, dove il metodo impersonale conferisce alla dichiarazione di bancarotta del progresso storico un valore di catarsi scientificamente agghiacciata: I vecchi e i giovani assomma una serie di tratti tipici del pamphlet agitatorio, senza però indicare con risolutezza lo sbocco presumibile di un dispendio tanto convulso di energie dissacratrici.

       Un meridionalismo equivoco
       Il pubblico contemporaneo non trovava insomma nell’opera stimoli abbastanza persuasivi per rispondere all’invito al dialogo rivoltogli dallo scrittore. Quanto a lui, Pirandello prese atto della freddezza con cui il libro era stato accolto e ne trasse conseguenze rilevanti. Questa esperienza aveva assunto ai suoi occhi un significato decisivo, proprio in quanto gli aveva consentito di chiarire a se stesso il contrasto di fondo tra il suo scetticismo metastorico e la volontà di rivalsa contro le mistificazioni del potere borghese. A mediare i due elementi doveva provvedere la teoria delle illusioni eroiche, ingannevoli e tuttavia necessarie per non annegare nell’ignavia lo slancio vitale che è in ogni essere umano. Da ciò la delega di fiducia concessa all’individualità esemplare che si distacca dal gregge in quanto sa conciliare i confusi egoismi dei singoli indirizzandoli verso un fine collettivo che li trascenda.
       Nei Vecchi e i giovani questa istanza di superamento della pseudociviltà borghese assume i connotati paternalistici del personaggio Lando. Ma già nel Fu Mattia Pascal il disprezzo per i regimi democratici si traduce in esaltazione dell’autoritarismo: «La democrazia, mio caro, la democrazia, cioè il governo della maggioranza. Perché, quando il potere è in mano d’uno solo, quest’uno sa d’esser uno e di dover contentare molti; ma quando i molti governano, pensano soltanto a contentar se stessi, e si ha allora la tirannia piú balorda e piú odiosa: la tirannia mascherata da libertà». Affermazioni analoghe sono sparse in altre opere. Ma il dato di maggior interesse è che dopo il romanzo sui Fasci siciliani Pirandello rinunciò a dar loro concretezza rappresentativa, incarnandole in episodi e figure: anzi, tendenzialmente escluse i motivi politici dalle sue pagine.

       Non per questo rinunziò ad assumere atteggiamenti politici, nella vita pratica, in conformità all’orientamento che si delinea nell’unico libro d’argomento civile e sociale. Così nel 1924 lo scrittore giungerà alla clamorosa adesione al fascismo, con il telegramma inviato a Mussolini proprio il domani del delitto Matteotti. Si crea in tal modo una netta dicotomia: da una parte il Pirandello letterato, che nei drammi racconti romanzi sottopone a un rovello incessante la coscienza dei lettori, beffandone ogni argomento di fede per coinvolgerli in uno stato di crisi morale senza sviluppo. Dall’altro lato, il Pirandello uomo di parte, che nel dittatore da cui sarà nominato accademico indica l’essere capace di sollevare l’Italia dal marasma sovversivo, garantendole tranquillità e benessere: l’uomo della Provvidenza, insomma.
       Il divario era netto ma non inspiegabile. Il fascismo rappresentava l’avvento di quella grande illusione vitale di cui la comunità nazionale aveva un bisogno spasmodico, dopo l’esito delusivo del Risorgimento e il tracollo del liberalismo, di fronte all’avanzata della demagogia di massa socialista. Nell’orizzonte pirandelliano, alla classe operaia del Nord industrializzato non è riconosciuta alcuna figura di antagonista storico del regime borghese. La sua esperienza di vita gli suggeriva di affidare tale ruolo ai ceti preborghesi del Mezzogiorno. Da essi doveva partire lo slancio per travolgere la democrazia liberale e instaurare un ordine nuovo: la guida sarebbe spettata a un capo carismatico, dittatorialmente prestigioso come il condottiero dei Mille: le plebi contadine, seguendolo con docile entusiasmo, ne avrebbero avuto in premio un alleviamento delle loro condizioni economiche: senza però che questo implicasse alcuna rivoluzione nelle strutture produttive, abbattendo il principio di proprietà.

       Ma la compagine malferma dei Vecchi e i giovani denuncia l’impossibilità di dare una vera giustificazione meridionalista alla svolta auspicata nel destino della nazione. Per determinare il crollo del parlamentarismo borghese occorreva che il capitalismo industriale e finanziario venisse assunto non come il responsabile della spoliazione del Sud ma come l’alleato indispensabile dei ceti agrari del Mezzogiorno. Quando le vicende storiche del paese diedero realtà a questa fusione di interessi economici e politici, Pirandello fu portato a riconoscervi il compimento del sogno ingenuo abbozzato nel suo romanzo. Ma l’accettazione della prospettiva aperta dall’avvento del fascismo al potere implicava la perdita dell’elemento di autenticità più profonda insito nei Vecchi e i giovani, sul piano sociale: la calda simpatia per i motivi di protesta delle classi diseredate, sepolte da secoli nell’abbrutimento della miseria.
       Né solo di questo si trattava. All’atto in cui Pirandello si riconosceva nella dittatura fascista, gli veniva meno uno dei poli fra i quali trovava svolgimento la sua visione delle cose umane: lo spontaneismo esistenziale, la volontà di cogliere il flusso degli impulsi vitali nel singolo individuo, oltre le costrizioni formalistiche cui la ragione collettiva lo assoggetta, Così il camerata Pirandello poté ben professarsi adepto del nuovo regime, rivendicando anzi un ruolo di precursore; ma non fu in grado di improntare con coerenza a questi convincimenti l’opera letteraria. La contraddizione rimase irrisolta: l’esperienza dei Vecchi e i giovani si rivelò irripetibile.
       Proprio la sua unicità, d’altronde, ne accresce il valore di testimonianza sullo stato di disgregazione di una società incapace di trovare entro se stessa motivi e forze adeguate per una rinascita. Dalle pagine del romanzo, la gente di Sicilia appare viva solo nel cupo rimescolio delle ragioni di scontento coltivate da tutti e da ognuno; progetti speranze, chimere fermentano senza frutto, giacché la realtà dei rapporti di classe oppone una resistenza insormontabile al movimento rinnovatore della storia. Il passato continua a morire ogni giorno, e il futuro non sa nascere ancora. Infine, lo scrittore rivela il suo legame organico con un ceto intellettuale che appunto quando professa maggior sensibilità per il corrompersi del tessuto sociale diviene piú disponibile per le mistificazioni equivoche. E i tempi evolvevano verso il peggiore degli inganni, a danno non solo della Sicilia ma dell’intero popolo italiano: I vecchi e i giovani viene pubblicato circa un ventennio dopo la fiammata dei Fasci dei lavoratori, insorti per rivendicare giustizia alle plebi; di li a poco, nel 1915, vengono fondati i primi Fasci di azione rivoluzionaria, a propugnare l’intervento del paese nella guerra mondiale.

Vittorio Spinazzola

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