Mattia Pirandello fu Pascal

Di Pietro Gibellini. 

Tra i romanzi più noti di Pirandello, pubblicato per la prima volta a puntate su “Nuova antologia”, nel 1904. Con questo romanzo Pirandello supera i confini regionali e sociologici del suo mondo per concentrarsi sempre più sul caso umano, sulla crisi segreta della coscienza, sul dramma dell’individuo atomizzato e isolato in un caos senza nome.

Indice Tematiche

Il fu Mattia Pascal analisi
Bernard Blier, Elsa Morante e Marcello Mastroianni. Le due vite di Mattia Pascal, Film Antenne 2, 1985.

Mattia Pirandello fu Pascal

Fonte: Pietro Gibellini, Mattia Pirandello fu Pascal, in “Critica letteraria”, n. 91- 92,1996, pp. 163 – 187 [= pc 36].

da Liber liber

MATTIA PASCAL C’EST MOI

«Madame Bovary, c’est moi». Potrebbe riformularla per sé, la celebre frase flaubertiana, Luigi Pirandello, a proposito del Mattia Pascal ? Me lo chiedo sfogliando il carteggio fra lo scrittore e l’editore Enrico Bemporad, ora recuperato dall’Archivio Storico Giunti, e in particolare la lettera del 1° marzo 1921: Pirandello sta discutendo della sistemazione editoriale delle Novelle per un anno, e mostra di attribuire importanza estrema alla copertina, una xilografia eseguita dal figlio Fausto, che gli pare «decorosissima, originale, e molto appropriata». E la commenta così: «La vita ingenua che rifugge spaventata dalla maschera del dolore. Ma tutto questo, senza dare nessuna importanza di rappresentazione al simbolo, altro che di semplice fregio decorativo». In cantiere non ci sono solo le Novelle: «Domani, intanto, Le spedirò il resto delle bozze del Fu Mattia Pascal, che hanno bisogno d’una revisione, e insieme l’Avvertenza su gli scrupoli della fantasia, che farà da appendice al volume. Avrà ricevuto a quest’ora, insieme col materiale del secondo volume delle Novelle per un anno, il primo fascio di bozze corrette del Fu Mattia Pascal e il ritratto che dovrà servire per prefazione. L’idea mi sembra originale, e servirà anche a dar un che di nuovo e d’attraente alla ristampa». Dunque, come la copertina aiuta a caratterizzare l’anima interna delle Novelle nella struttura Bemporad e a marcarne già dall’esterno la diversità dai precedenti volumi Treves, così la «ristampa» 1921 del romanzo affida al ritratto dell’autore il compito di accentuarne la novità, recata anche dalla revisione del testo e dall’aggiunta dell’appendice polemica, in risposta alle critiche subite dal vecchio romanzo e dalla recente messa in scena dei Sei personaggi. L’idea di uno stretto rapporto fra protagonista e autore, affidato all’autoritratto, doveva essere latente già all’origine, a giudicare dal fatto che il manoscritto su cui fu esemplata la princeps («Nuova Antologia», 16 aprile-16 giugno 1904), un autografo conservato ora ad Harvard ed esaminato dal Borsellino, fu donato da Pirandello all’amico Antonio Campanozzi, ancor prima che il romanzo uscisse in volume, insieme a una foto-ritratto dell’autore. L’edizione del 1921 (forma definitiva del romanzo apparso nel 1904 e ripubblicato con ritocchi nel 1910 e nel 1918) esibisce nel frontespizio gli elementi di novità: «seconda ristampa con un ritratto per prefazione e in fine un’avvertenza su gli scrupoli della fantasia», e reca puntualmente il volto dell’autore ancor giovane e chiomato: la foto scattata da una mano importante come quella di Luigi Capuana (risalente al tempo del matrimonio di Pirandello, proprio nell’età e nella condizione di Mattia Pascal) ritraeva lo scrittore in una posa studiata, da artista, a metà fra Rodin e le tante “malinconie allo specchio” studiate da Jean Starobinski. Quanto alla chiosa («con un ritratto per prefazione»), essa è tanto più significativa perché esibita nel frontespizio di un «romanzo» scritto in prima, primissima persona. Si aggiunga che il ritratto, collocato nel 1921 nell’antiporta, per la ristampa del 1925 venne fatto spostare dall’autore nel controfrontespizio, a diretto riscontro con l’indicazione che lo qualificava come prefazione; la pignoleria del bibliofilo Pirandello si univa alla preoccupazione comunicativa: al lettore doveva suggerirsi fin dal principio il coinvolgimento autobiografico.

Dunque, «Mattia Pascal, c’est moi»? È un quesito di fondo del romanzo pirandelliano meritatamente più celebre, il Mattia Pascal, anzi Il fu Mattia Pascal, se vogliamo citare per intiero l’intitolazione del libro. È posato sul tavolo, quando mia figlia, gettando un’occhiata curiosa sulla copertina, mi chiede ragione di quel titolo: a un ragazzo d’oggi occorre spiegare una formula frequente nella lingua d’altri tempi e ormai dimenticata. Le dico perciò che significa “Il signor Mattia Pascal, defunto, in realtà “vivente-defunto”… (Penso fra me: è l’equivalente del “mastro-don” verghiano, solo che Pirandello ha spostato sul piano esistenziale quella crisi d’identità che lo scrittore verista collocava sul piano sociale; ma è anche vero che, in Cavalleria rusticana, Turiddu, sradicato dalla tribù, non riesce più a rientrarvi, restando un emarginato, un paesano-forestiero. Pirandello aveva intuito la ricchezza antropologica e la complessa modernità del maestro cui l’etichetta veristica calza così stretta, anticipando di molti decenni i critici professionisti). Ma torno alla spiegazione de Il fu, aggiungendo: «Ancora ai miei tempi, se uno aveva il padre, per identificarlo meglio si diceva Barbieri Ermanno di Gioacchino, se invece il padre era morto, Barbieri Ermanno del fu Gioacchino, o più brevemente Ermanno fu Gioacchino. Così Mattia Pascal…». Mi fermo di colpo. Di chi era figlio Mattia?

PASCAL MATTIA FU…

Sul nome Mattia e sul cognome Pascal, s’è già scritto molto. Il primo, nel testo del romanzo, è annesso all’area semantica della pazzia, per bocca di Berto, fratello del protagonista: «Mattia, matto». Si deve inoltre osservare che Mattia è voce diffusa nel sud d’Italia, come variante di Matteo: il nome finisce così per smascherare la contaminazione fra il fittizio borgo ligure che fa da sfondo alla vicenda, Miragno, e la nativa Girgenti, già attuata con la riambientazione in Riviera della biblioteca agrigentina Lucchesi-Palli e di alcuni squarci di paesaggio siciliano, anche mentale. Sul cognome pende una dubbiosa ipotesi di rapporto con la Pasqua, evocata per la “quarantena” passata al buio dal protagonista convalescente dopo l’intervento oculistico: ma vi alluderebbe anche il titolo del capitolo XVII, Rincarnazione, e la parte finale del romanzo, con la morte presunta e la resurrezione del protagonista. Cause più probabili della scelta del cognome, l’allusione all’oscuro teosofo Théophile Pascal e al luminoso moralista Blaise: a entrambi, come vedremo, poiché se il primo è menzionato nella biblioteca esoterica di Anselmo Paleari, le tracce del secondo non sfuggono a un’investigazione appena attenta.

Ma il padre? È anonimo, come la madre. Un nome, veramente, l’aveva nella prima edizione: si chiamava Gianluca; ma la pagina fu tolta nella stampa del 1910. Alla signora Pascal il romanzo non dedica molte righe: sappiamo comunque di lei più di quanto l’io-narrante ci dica di suo marito. A tratti storici riconoscibili in certe donne siciliane, vittime di «amori senza amore», altrove disegnate da Pirandello, la madre di Mattia assomma caratteri archetipici, di natura psichica o antropologica. Si vergogna di ridere, rassegnata al suo destino; per la «scarsa esperienza della vita e degli uomini», si è abbandonata al marito «come una cieca»; per i figli, nutre una tenerezza morbosa. Rimasta vedova, patisce l’erosione del patrimonio ad opera della «talpa» Malagna, finché vende la casa e va ad abitare con Mattia. L’altro figlio, Berto non può infatti prenderla con sé, poiché vive nella casa della moglie e teme gelosie (alla feroce visione della famiglia, contribuisce il dettaglio che Berto ha poco «cuore»). Angariata dalla consuocera-megera, sarebbe disposta a ritirarsi presso la vecchia serva, Margherita; ma sua sorella, la zia Scolastica, viene a prenderla, impiastrando di pasta il muso della vedova Pescatore (a partire da questa scena, degna di un film da torte-in-faccia, Mattia imparerà a ridere delle tragedie: è così telegraficamente enunciata la poetica dell’Umorismo, il saggio che Pirandello dedicherà di lì a poco «alla buon’anima di Mattia Pascal bibliotecario»).

ONOMASTICA ALLUSIVA

Stratega dell’onomastica allusiva, Pirandello istituisce, attraverso zia Scolastica, un contrasto con la signora Pascal, dando vita a una sorta di coppia Marta-Maria con tratti invertiti: spirito pratico la vergine, passivamente abbandonata la sposa. Nubile per non cadere vittima degli uomini che sono tutti traditori (e a tale qualificazione non sembra in definitiva sottrarsi neppure Mattia, che a dispetto delle buone intenzioni si rivela seduttore e traditore a ripetizione), la zia porta il nome della sorella del santo laborioso per eccellenza, Benedetto, ed evoca anche la filosofia razionalistica e combattiva di san Tommaso. Al contrario, la madre vive fino in fondo il suo percorso di spirituale abbandono, fino a morire assieme alla sopravvissuta figlioletta gemella di Mattia, gettando il due volte orfano protagonista in una cupa disperazione (un contadino lo consola dicendogli che nell’aldilà la nonna si prenderà cura della nipotina). È curioso che l’osservazione di Pirandello sullo strabismo divergente di Mattia che scinde la sua prospettiva e sulla sua tendenza a guardare sempre anche “altrove” (corrispettivo fisiognomico di una poetica dell’allegoria) cada proprio a ridosso dello sketch comico di zia Scolastica. Quanto all’associazione fra il personaggio materno e il modello “mistico”, acquista significato il fatto che, in contrasto coi molti ritratti fisici del romanzo, pieni di volti “scontraffatti” e di corpi caricaturali, della mamma il narratore non rileva che la voce nasale e la vergogna di ridere. Ma la sua figura viene evocata significativamente anche nell’ultimo capitolo: Lazzaro profano, Mattia vive con zia Scolastica e dorme nel letto in cui era morta la mamma. Il casto congiungimento, il ritorno alla Madre, non esige altro commento.

L’immagine materna torna anche per via di metafora nel tessuto del romanzo e nell’immaginario del protagonista. Una «minuscola mammina», gli appare Adriana Paleari, donna-bambina riconosciuta fin dall’inizio per una sorta di parentela onomastica (si chiama Adriana «come me», è il primo pensiero di Mattia nelle nuove vesti di Adriano), che anticipa il nome della memorabile protagonista della novella Il viaggio. Anche lei religiosa, anche lei chiusa in una timidezza infantile, anche lei sacrificata alle ragioni della famiglia, anche lei avvinghiata alla salvifica scoperta dell’amore, della possibile liberazione, in un bovarismo di segno positivo. (L’Adriana della novella si abbandonerà al caldo abbraccio dell’amato, prima di morire, mentre la giovane del romanzo non può che stringere forte la mano di Adriano Meis, nel buio della seduta spiritica). L’incrocio e la sovrapposizione di ruoli familiari, che tanto attraggono la psiche strabica di Mattia, hanno sempre affascinato Pirandello: le Novelle per un anno abbondano di ragazzi-padri, di madri-sorelle, di fidanzate-vedove e via dicendo. La catena associativa Adriano-Adriana (stesso nome come vincolo pseudo-parentale, tratti materni della fanciulla amata) denuncia la base archetipica, se non psicanalitica, di quel legame d’affetto. Ciò è confermato dall’altro aspetto di Adriana che attira Adriano, cioè il suo atteggiamento filiale: la componente infantile di Mattia, don Giovanni con improvvise tenerezze paterne e manifestazioni infantili, sembra proprio l’esito inconsapevole di una formazione senza padre. In Adriana egli ama la madre, la figlia, forse la sorella, non la donna.

UN PADRE SENZA NOME

E quanto alla madre, sat prata biberunt. Ma il padre? Quest’uomo Senza Nome (un’eccezione, in un romanzo in cui anche i nomi delle comparse sono scelti con cura) appare all’inizio del romanzo, per sparire subito, morendo. Con la sua morte, finirà l’agiatezza da lui procurata, quell’Eden che per Mattia resta confinato nell’infanzia. Ma quelle ricchezze, aggiunge il narratore, sono state forse vinte col gioco: il padre sembra fungere da premonitore della sorte del figlio, cui proprio l’azzardo, sotto forma di ticchettante roulette, darà un’imprevista agiatezza. Anzi, quel padre sembra segnare il destino del figlio, la cui carriera segue un percorso contrario eppur omologo, e dunque confrontabile con esso. Il patrimonio paterno consisteva in terre e case; la precisazione sembrerebbe pleonastica: in cosa può consistere la ricchezza di un signore di provincia, alla fin de siècle, se non in beni immobili? Quel dettaglio sembrerebbe funzionale solo all’immediato intreccio narrativo: l’ascesa economica della «talpa» Malagna, che deruba la vedova, riprende il consueto motivo dell’amministratore che s’ingrassa a spese del padrone. Al contrario, esso proietta un’ombra sottile sulle avventure di Adriano Meis, uomo senza terra per eccellenza, viaggiatore prima lieto poi malinconico come un «forestiero della vita»: a differenza del padre, egli sarà un uomo senza casa che si introdurrà rischiosamente in quella altrui; e mentre tutta la ricchezza paterna era materializzata in beni tangibili, egli sarà costretto a portare con sé il danaro, pagando col prezzo d’un furto il deposito segreto delle banconote nello stipo di casa Paleari. Rispetto a quella della madre, la descrizione del padre è, come già accennato, ancora più sbrigativa; eppure il narratore gli attribuisce due aggettivi, «sagace e avventuroso», che diventano la pietra di paragone su cui vagliare il tasso della riuscita di Mattia: anche lui a suo modo astuto e ardito, oppure sciocco e inetto? L’Ulisse eroico, proteso verso Itaca-Miragno dopo tanti viaggi seducenti e tempestosi, o l’Ulisse tracotante e incauto, che valica le colonne d’Ercole dell’io, abbandonando il mare nostrum dell’identità, fino al punto di non-ritorno? (Il nostro “eroe” non sarà gratificato, però, della piena agnizione che consola il figlio di Laerte riconosciuto dalla nutrice senza incertezza, nonostante il travestimento, grazie alla vecchia cicatrice; corretto chirurgicamente lo strabismo, Mattia non sarà infatti identificato dai compaesani).

L’idea del ritorno di Adriano-Mattia a Miragno prende forma con l’immagine delle radici: «Rinnestarmi alle mie radici sepolte», è il programma che impone a se stesso il protagonista, mentre torna verso Pisa in treno, col berrettino da viaggio che gli ha dato l’idea di “suicidare” Adriano per reincarnarsi in Mattia. Né può escludersi che, traslocando tratti riconoscibilmente siciliani nel paesaggio ligure, Pirandello intendesse percorrere a ritroso il cammino dei suoi antenati, scesi dalla Riviera all’Isola. Quella delle radici è comunque un’immagine dal significato essenziale; implica infatti che la ricerca del proprio destino, prima indirizzata verso la liberazione e la fuga, cioè verso il futuro, va invece rivolta verso il passato, verso il recupero di una verità perduta e di un’identità smarrita. A suo modo, Mattia Pascal si muove verso la mèta perseguita da Marcel nella Recherche, trasferita, s’intende, dal titanismo memoriale all’opportunismo biografico. Per ritrovare se stesso, deve tornare al nome trasmessogli dal padre, deve tornare ai padri (non si può parlare di ritorno alle antiche madri, sotto specie di suocera e di moglie: Mattia le vede come un peso da sopportare o delle avversarie su cui prendere una beffarda rivalsa, non già come fonti di un valore positivo da riscoprire). Il ritorno a un padre, anche senza nome, diventa garanzia della consistenza e dell’identità certa del figlio. Questo spiega la tutt’altro che comica o superficiale invettiva della Premessa seconda (filosofica) a mo’ di scusa:: «Maledetto sia Copernico». È la nostalgia di un universo tolemaico in cui la terra non giri e l’uomo consista sicuro e fermo al centro del mondo, certo del suo posto voluto e guidato da un Padre-che-è, di quell’universo fatto proprio – guarda caso – dalla filosofia scolastica secondo cui nomina omina; la nostalgia di una certezza di sé gratuitamente ricevuta, e non da inseguire chimericamente, penosamente.

UN’ASSENZA INGOMBRANTE

L’assenza del padre (con la minuscola) è comunque assenza ingombrante. È infatti il primo ostacolo alla reinvenzione di sé come Adriano Meis: Mattia deve immaginarsi la vita di Adriano riducendo al minimo i dettagli controllabili: si dice dunque nato in Argentina o su un piroscafo, da un padre emigrato per spirito di inquietudine e ribellione, uno scavezzacollo svanito nel nulla, figlio d’un probo studioso di antichità cristiane; questo nonno immaginario verrà costruito a sua volta come un mosaico composto da tessere prese da tanti vecchi conosciuti nella vita reale. (Ci pare di cogliere, qui, una vera dichiarazione di poetica: al pari di Mattia, che inventa la storia di Adriano come un romanzo orale nel romanzo scritto, anche Luigi ricorre per il suo mosaico inventivo a tessere di vissuto; ed è questo un altro aspetto del suo spontaneo proustismo). Più tardi, l’ombra di Paolo Meis, padre fantastico di Adriano, viene a perseguitarlo, quando quel «bracco» di Terenzio Papiano scova un Francesco Meis che crede di ravvisare in Adriano il figlio di un «barba Antonio» partito per l’America, e che, pur di soddisfare il suo bisogno d’affetto parentale, è disposto a modificare i suoi pochi ricordi per farli coincidere con quelli fittizi di Adriano. L’irruzione dialettale («Dôva ca l’è stô me car parent?») adempie qui una funzione di straniamento e rottura, analoga a quella di linguaggi “altri” (il francese dei croupiers, lo spagnolo del Pantogada, di Pepita e di Bernaldez; senza contare i messaggi veicolati da fonti non orali – i giornali letti sulla via del ritorno – o non verbali – il berretto da viaggio ripescato nella tasca -, decifrati dal protagonista come annunci del destino). Del resto, ogni linguaggio straniero mescidato o alterato, nella Babele della vita en plein air che gareggia con la «babilonia di libri» della biblioteca Boccamazza, porta a Mattia un barlume di rivelazione: gli accenti spagnoli riconducono alla memoria il misterioso personaggio del casinò; il pastiche di Pepita è spia e presagio di più sostanziali “pasticci”. Un rilievo particolare merita poi l’abolizione della esse nella pronuncia del Bernaldez: storpiandolo in «Mei», egli conferisce al già simbolico cognome di Adriano (nato dalla crasi fra il cristologo gesuita De Feis e il ferreo positivista De Meis) nuove risonanze finora sfuggite agli esegeti del romanzo: lo fa genitivo oggettivo dell’Ego, o macaronico plurale dell’Io (secondo una tendenza già collaudata coi Dialoghi fra un «Gran Me» e un «piccolo me»). Sembra segnare, insomma, l’oggetto della vera quête di Mattia-Pirandello (la ricerca di sé) e la dicotomia della persona nelle due maschere (personae) di Mattia e Adriano.

SCRIBO ERGO SUM

Letto così, il Mattia Pascal non è la storia di uno che fugge da sé, ma di uno che si cerca, cercando il padre. Il titolo del libro potrebbe suonare, per paradosso, Il Mattia fu Pascal. Vedremo più avanti che Mattia risulta orfano non solo dell’anonimo padre liquidato in poche righe all’inizio dell’opera, ma pure (in senso ideale) di Blaise, e fors’anche di quel Padre irriducibilmente caché che il filosofo del grand siècle cercava con ostinazione, e che il nostro narratore non sembra aver trovato. Eppure in qualcosa Mattia sembra essersi trovato: nella scrittura. Al cogito ergo… e al dubito ergo…  dei pensatori antichi, il Nostro può opporre almeno uno scribo ergo sum. (e in tal senso, Pirandello può dire: sì, «Mattia Pascal c’est moi»). Ne troviamo conferma in alcuni particolari; la carta è spesso la riprova di una realtà altrimenti non accertabile: è dal giornale che Mattia attende la conferma della propria morte, e poi di quella di Adriano Meis; è al manoscritto che affida il còmpito di fermare e dunque di dar qualche consistenza a un’esperienza personale, al senso di una vita che sembra sfumare fantasmaticamente nel non essere. Potrebbe avere un senso simbolico il fatto che la stesura duri, a dire dello scrittore, sei mesi; chi pensi all’equivalenza anno-vita stabilita dal progetto delle Novelle per un anno può ben cogliere in quel semestre l’emblema di una vita dimidiata. Un senso di vissuto “a metà”, fatto di solitudine e sterilità, caratterizza peraltro i reclusi della biblioteca (il vecchio Romitelli, don Pellegrinotto e lo stesso Mattia, ridotto a clericus senza famiglia, convivente con una zia zitella); e potremmo scorgere nella caricatura del precettore Pinzone, tolto a ricordi autobiografici già messi a fuoco nella novella La scelta (1898), spunti autosatirici: dal gusto dei bisticci e degli enigmi all’inclinazione per i linguaggi maccheronici. I nomi stessi di Romitelli e di Pellegrinotto sembrano evocare l’idea del romitaggio e della transitorietà tipica di una visione ascetico-rinunciataria.

Il Mattia Pascal potrebbe dunque leggersi quale consacrazione del Libro come sola ipotesi di realtà: l’autore lo pone però sull’altare di una religione svanita, in una chiesa sconsacrata che chiude le porte alla vita. Sì, Mattia-Pirandello trova una consistenza minima, o una pur dubbiosa prova del suo essere, proprio nella scrittura. Le disavventure del personaggio e il suo scacco esistenziale e conoscitivo («Io non saprei proprio dire ch’io mi sia») producono almeno un preciso oggetto letterario: ma si tratta di una letteratura spogliata d’ogni aura sacrale, nel perfetto stile di Pirandello.

Dopotutto, la sintesi concettuale della sua stravagante avventura, Mattia la opera proprio con un espediente letterario, ritagliando nel fraseggio comune espressioni di senso ambiguo: «mi rifaccio vivo», dice all’esterrefatto Berto, tornando dopo la lunga assenza e la morte presunta; e ai compaesani stizziti si limita a dare due risposte sole: donde torna? «dall’altro mondo», che ha fatto? «il morto». Sembra la sinopia di un Temps retrouvé ridotto all’essenziale, il cui esito resta peraltro incerto, quanto al «ritrovamento» del tempo. Ma analogo è il risvolto letterario (la storia, nel suo consumarsi, permette almeno la nascita del romanzo) e, soprattutto, comune è la funzione terapeutica della scrittura: il romanzo di Marcel consente a Proust di vivere; quello di Mattia strappa Pirandello al suicidio. Le implicazioni letterarie del romanzo, e la centralità del motivo del tempo e del destino, erano implicite in molte pagine critiche riservate al Mattia Pascal: accanto al tema dell’identità perduta o del dissolvimento della persona, scrive ad esempio il Borsellino, convive «anche quello di una rinascita come personaggio nello spazio che la letteratura viene ad acquistare in sostituzione della vita e con una nuova durata, dentro il tempo permanente del racconto che egli stesso scandisce per significare un destino, non solo una semplice successione di eventi». La chiesetta-biblioteca di Miragno è, in effetti, la parodia avant-lettre della “cattedrale” proustiana, dell’opera, cioè, che grazie all’arte consolida il fluire rapinoso del tempo: ma se l’oggetto vero del romanzo è il tempo, come scrive il Mazzacurati, va aggiunto altresì che il passato viene «esautorato come patrimonio etico-conoscitivo», inaridendosi «in luoghi appartati della memoria, come intrico di frammenti sentimentali dispersi».

S’intende dunque che, dietro la tensione speculativa del protagonista, c’è Pirandello, uno scrittore, ma uno scrittore d’indole filosofica. Perciò, se Mattia Pascal c’est moi, il parallelo tra il fittizio personaggio-narratore e l’autore ci preme collocarlo su un piano mentale-esistenziale, piuttosto che esternamente biografico, anche se, ricorderemo di sfuggita, Gaspare Giudice ha potuto parlare per il Mattia Pascal di «avventura autobiografica»; e in effetti nell’immediato retroterra del romanzo del 1904 si collocano episodi vagamente consonanti con l’intreccio: la preoccupazione della moglie per la dote dopo la rovina della zolfara paterna, la tentazione suicida di Luigi, che confessando le sue «tristissime angustie» all’amico Luigi Antonio Villari, in una lettera del 3 novembre 1904, aggiungeva: «Sarebbe veramente piacevole se Il fu Mattia Pascal, che uscirà in volume sui primi del prossimo ottobre, uscisse con questo frontespizio: “Il fu Mattia Pascal, romanzo del fu Luigi Pirandello”».

LA “QUÊTE” DI MATTIA

La costrizione alla quête è comunque croce dolente e titolo di gloria per il personaggio Mattia, che è a suo modo un eroe epico, o eroicomico. Egli ha il fascino di certi pìcari che, creduti straccioni, si scoprono prìncipi (in Mattia, l’appartenenza a due sfere sociali è determinata dalla condizione di signore decaduto; presso i compaesani egli ha fama di «scioperato», secondo il cliché del nobile visto dai borghesi). In lui c’è qualcosa del Quijote, pronto com’è a lanciarsi in generose azioni: vuol sottrarre Romilda alla «triste ragna» ordita dalla madre e dal Malagna per garantire un erede all’amministratore-ladro, e intende consolare la povera Oliva (procurerà pasticci, all’una e all’altra); non tollera l’ombra di un sospetto volgare, al casinò; né esiterebbe a duellare con l’arrogante Bernaldez; vuol proteggere Adriana dalle mene del Papiano e, nella decisione di lasciarla per non illuderla con un amore impossibile, agisce anche un magnanimo spirito di sacrificio. Ma accanto all’hidalgo, l’animo di Mattia ospita anche Sancho Panza, in quella compresenza di anime che, agostinianamemte, Daudet riconosceva all’eroicomico Tartarin. Perdendo il senso della duplicità fra un Gran Me e un piccolo me, che è costitutiva della scomposizione umoristica (ed è lo strazio che lacera la mente dell’autore), si finisce per approdare ad una visione angusta: e non è mancato il critico marxista che, pensando di tesserne l’elogio, ha ridotto il Mattia Pascal a «romanzo dell’impossibilità del piccolo borghese di uscire dai limiti del proprio ceto medio». Accade a qualcuno di porgere delle condoglianze credendo di fare un complimento.

C’è poi un che di pinocchiesco in Mattia (ma non è a suo modo un pìcaro, il burattino collodiano?). Come Mattia, anche Pinocchio cerca la sua identità, per diventare di carne come Geppetto, il babbo che pur deve lasciare per crescere; anche il burattino collodiano muore e rinasce, impiccato dal gatto e dalla volpe, poi trasformato in ciuco e buttato a mare, quindi sepolto nel ventre di un pescecane come in una biblioteca (anche lì si legge, finché c’è un lumicino)… Mattia è insomma tutto l’opposto dello stinto Pomino junior, gregario dei due fratelli Pascal, che vive all’ombra di un padre di cui mutua persino il nome di battesimo, Gerolamo, oltre a quel cognome buffo e meschino. Dicendoci che zia Scolastica consiglia alla sorella vedova di sposare il buon Pomino senior, per sottrarla agli imbrogli del Malagna, l’autore ipotizza per Mattia una possibile paternità putativa, mediante una figura opposta a quella del perduto signor Pascal: una scelta che viene lasciata cadere sùbito, anche se, dal cavalier Pomino, Mattia otterrà per raccomandazione il posto di bibliotecario. Ma l’opportunismo è uno dei tratti di meschina furbizia che entrano nel personaggio eroicomico a temperarne la grandezza epica: si pensi alla privazione della prima vincita al casinò, patita senza reagire, o al furto tollerato in casa Paleari, a tante altre esitazioni e rinunce. Potremmo dire che il «piccolo me» ha imparato la lezione utilitaristica, con un bonario machiavellismo comune al fratello, che si sistema sposando una moglie ricca, mentre il «Gran Me», aspirando a una perduta legge dei padri, brilla almeno nel seguire etiche storiche (le morali “positive” che gli idealisti tedeschi ben noti a Pirandello distinguevano dalla moralità “in sé”), ma non armonicamente fuse.

«Bracco», nel romanzo, è detto il losco Papiano, mentre Mattia-Adriano sembra piuttosto una lepre costretta ad acquattarsi o a scappare. Ma la situazione prospettata sul piano narrativo, che vuole appunto Mattia fuggiasco, viene rovesciata sul piano conoscitivo; Mattia lavora continuamente di congettura: come un detective; ipotizza il presente, immagina il futuro, reinventa il passato; è instancabile nell’almanaccare sul destino proprio e altrui: appena assunto alla Boccamazza, già s’immagina ridotto a topo di biblioteca come il vecchio e solitario Romitelli (cognome emblematico, come abbiamo detto); quando, a Montecarlo, pensa di riscattare la Stia, già si vede frodato dal fattore o dal mugnaio; pensando di tornare a Miragno, si prefigura con repulsione o compiacimento l’impatto con le sue donne. Talvolta le sue fantasie obbediscono a semplici impulsi del cuore: che faranno i suoi, mentre viaggia dentro e fuori d’Italia? Come avrà reagito, Adriana, alla notizia della sua morte? Più spesso, però, il protagonista cerca di ricostruire le situazioni reali e mentali altrui con la determinazione di uno Sherlock Holmes: come nel capitolo XII, in cui le ipotesi sul misterioso contatto fra Pantogada e Papiano vengono snocciolate con ritmo da romanzo poliziesco, che tocca l’acme nell’imminenza e dopo il furto. Il buio della seduta spiritica è il luogo emblematico di questa gara fra la luce della ragione e il mistero tenebroso. La maledizione di Mattia è insomma quella di pensare continuamente la vita propria e altrui: e a furia di pensarla, si riduce a non viverla.

PER LITTERAM ET PER ALLEGORIAM

Dicevamo del buio, alludendo al luogo “reale” (all’interno della fictio narrativa) in cui si svolgono le sedute spiritiche. Ma esiste anche un buio metaforico: quello usato dal Paleari per le sue disquisizioni sul mistero e sulla sua personale visione della vita, la «lanternosofia». Dovremo inoltrarci per forza nelle dissertazioni filosofiche: il Mattia Pascal è infatti un romanzo d’idee sotto specie di romanzo d’avventura, un dialogo sui massimi sistemi sotto il velo del divertimento scanzonato, alla Candide ; lo stesso strabismo del protagonista-narratore vale come cifra metaetteraria, indica la compresenza di un piano letterale e di uno allegorico (o anagogico) che si innesta sul primo, senza peraltro negarlo. Basterebbe osservare come, accanto a titoli di capitoli di marca schiettamente denotativa, altri recano in sé una doppia significazione, come la coppia IX-X (Un po’ di nebbiaAcquasantiera e portacenere) che designa dettagli concreti della narrazione – la bruma milanese, l’arredo dell’appartamento romano – ma anche le fasi della ricerca mentale del protagonista (lo smarrimento, la sua riflessione sulla profanazione storica del sacro), o come la coppia XVI-XVII (Il ritratto di MinervaRincarnazione) che ammiccando rinvia a situazioni topiche del sublime artistico o religioso evocate con humour in accadimenti spiccioli (l’effigie di una cagnetta, il rientro in un’anagrafe “scaduta”). Il titolo stesso del romanzo coincide con quello del XVIII e ultimo capitolo (Il fu Mattia Pascal): ponendo in testa al libro il traguardo finale cui approda la narrazione, Pirandello sembra configurare la sua opera anche come trattato, teorema, inchiesta. Si aggiunga poi che il romanzo inizia di fatto col capitolo III, preceduto com’è da due Premesse, di cui la seconda è detta espressamente «filosofica». Del resto, come esempio di capolavoro dell’ingegno umano non viene citato il poema dantesco, l’opera cioè più esemplarmente costruita sulla pluralità dei sensi? (Il capitolo Io e la mia ombra, per cui è stato pur opportunamente invocato il modello di Chamisso, sembra leggibile come una trascrizione profana del colloquio dantesco fra il vivente pellegrino e le «ombre» dell’aldilà).

Anche sul piano strutturale, è possibile rilevare una tenue cura numerologica, da poema: i quindici capitoli del flash-back narrativo sono distribuiti fra i cinque del primo Mattia, i dieci del sedicente Adriano Meis, e l’ultimo finale de «il fu» Mattia Pascal, del secondo Mattia (che combinato colle due Premesse in cui parla appunto il secondo Mattia, forma una terna). Del resto, la “cornice” che ingloba nell’hic et nunc la narrazione dell’avventura passata imposta, accanto alla dialettica fra res gestae e historia, tra fabula e narrazione, tra presente e passato, anche una dialettica fra “storia” vissuta e riflessione sul “senso” di quella storia. Di questo discute il personaggio-narratore nelle due premesse, di questo finisce per discutere il protagonista nell’ultimo capitolo, quando con don Eligio Pellegrinotto s’interroga sul “sugo della storia”, senza trovare frutto alcuno della sua fatica letteraria.

EDIPO, PINOCCHIO E ALTRO

Tornando al punto, il tema della ricerca d’identità come ricerca del padre assente ci preme sul terreno dell’inchiesta teoretica, piuttosto che su quello della tipologia psicanalitica del personaggio.

Quest’ultima è stata fatta oggetto di indagini accurate. Per dirla col Luperini, «la condizione iniziale di Mattia sembra di assenza di una legge interiore e, per questo, di apparente disponibilità. Sul piano psicologico, il suo comportamento pare sempre determinato da un’esigenza di trasgressione che non giunge mai allo scontro aperto con l’autorità, alla rivalità aperta e dunque al conflitto edipico col padre e con le sue figure sostitutive, ma di fatto ogni volta ripiega nell’accettazione dell’autorità trasgredita ma mai delegittimata. Piuttosto che di disponibilità, bisognerebbe parlare, con un termine psicanalitico, di “coazione a ripetere” (di una tendenza cioè, in questo caso, a ripetere meccanicamente l’atto della trasgressione impotente, senza la capacità di controllarlo)». Discenderebbe da qui l’impulso a inserirsi nei rapporti di coppia del Malagna, figura sostitutiva del padre, per sottrargli moglie e amante, e – aggiungiamo – a sedurre Adriana, la figlia del paterno Paleari che lo ospita.

L’accostamento del nostro eroe alla figura archetipica di Edipo va incontro, però, a un’obiezione: Edipo deve uccidere un re sovrano, in termini psicanalitici un re che dispone del potere e tiene nel suo talamo la madre regale. Il padre di Mattia si leva di mezzo da sé, quando il problema del figlio sembra più quello di avere un modello da imitare che non un ostacolo da emulare e superare; e Mattia non finisce, in fondo, per imitare quella guida labile e troppo presto dileguata, più che nel gioco o nell’avventura, proprio nel gesto di morire, sia pur figuratamente, per ben due volte?

La chiave psicanalitica resta comunque suggestiva, anche se meritevole di ulteriore indagine: Malagna è il sostituto, il rivale del padre, “vendicato” dal seduttore Mattia. E l’attrazione per Adriana non è forse esercitata da una figura che, nel complesso immaginario del protagonista, si presenta come figlia-madre, come ingenua e virginale «mammina»? D’altra parte c’è un momento in cui Mattia è travolto dal dolore al punto da rasentare il suicidio vero: quando perde a un tempo la figlia superstite e la madre, cioè quando si sente deprivato, di colpo, come padre e come figlio. L’istituzione matrimoniale sembra aver tolto ogni interesse, per l’imbruttita Romilda, al Don Giovanni borghese: egli non è ancora maturo per il ruolo di marito-padre responsabile e virile, e quando, almeno psichicamente, gli sembra di esserlo – nei confronti di Adriana Paleari – l’impossibilità “sociale” di assumere quel ruolo sta per indurlo a buttarsi nel fiume. (Un ruolo competitivo, di matrice dongiovannesca, riattiva alla fine in Mattia lo charme di Romilda, divenuta di nuovo attraente perché appartenente ad un altro, perché florida per la rinnovata maternità, perché rivalutata attraverso la dimensione memoriale-sentimentale, del ricordo-cuore, suggerita da un gesto minimo: quando Romilda, ormai risposata, gli offre il caffè senza zucchero, come soleva fare, Mattia guarda Pomino «odiosamente»). È semmai da osservare che l’ultima delle donne amate da Mattia ad apparire nel romanzo è Oliva, col bimbo di cinque anni concepito col protagonista, bello e fiorente come lei. Mattia non ha pensato neppure per un attimo, né allora né adesso, di prendere con sé la sana figlia del fattore, vincolata com’è da un impegno matrimoniale: Mattia abdica a una piena paternità per non violare un tabù sociale.

Non si istituiva, poc’anzi, un nesso fra perenne adolescenza e assenza di leggi interiorizzate? Il Mattia Pascal potrebbe essere definito come un Bildungsroman imperfetto: come dice il protagonista nel capitolo V, egli è maturato per le batoste che la sorte gli ha inflitto; ma il processo si è arrestato e Mattia è rimasto un eterno quasi-uomo, strettamente imparentato con gli “inetti” della grande letteratura primonovecentesca. Ma per non far incagliare il discorso nei meandri della psiche, nei quali Pirandello si aggira con una consapevolezza e un accanimento analitico spinti al limite del cervellotico, conviene presentare la ricerca della paternità come ricerca di una identità che, kantianamente, abbia consistenza soprattutto etica; Mattia, insomma, patisce l’assenza di un padre legislatore morale, piuttosto che il peso di un padre edipico, gli manca un padre indicatore di verità, più che detentore di potere. Giacomo Debenedetti parlava di un quid profondo: per lui, infatti, Mattia «non ha fini propri, e non li ha perché ignora il quid profondo, originale, originario di se stesso, quella che potremmo definire la specifica vocazione della propria energia vitale». L’estraneità a Oliva sembra l’ovvio corollario di questa mancata vocazione vitalistica.

KANT E LA LANTERNA INTERIORE

Il rapporto fra legge interiore e “conoscenza del padre” è alla base della condizione drammatica di Mattia, e le conferisce un segno nostalgico opposto all’ebbrezza avveniristica che di lì a pochi anni alimenterà le rumorose banalità dei futuristi. Per Pirandello, la verità sta nel passato. Vero è che la costruzione di un io passato, nelle vesti di Adriano Meis, è destinata a crollare: ma le stesse azioni volte all’avvenire (la seduzione ingravidante di Romilda e di Oliva, produttrici di vite future oltre che di sviluppi narrativi) sono votate al fallimento. Oltre che privato dell’identità e della moglie, Mattia si troverà senza figli: avendo rinunciato a ogni pretesa legale sulla figlia di sua moglie e di Pomino, e non potendo esercitarla sul figlio di Oliva, biologicamente suo.

Il nucleo della crisi d’identità, comunque, affiora nelle incerte spiegazioni date al suo agire presente, non sorretto da una legge interiore, da un decalogo di ereditate certezze. Riflettendo sull’approccio amoroso a Romilda, Mattia snocciola una raffica di giustificazioni eterogenee e incoerenti. «Ciascuno di noi non è solo, ma contiene numerose persone», aveva scritto Alfred Binet, lo psicologo di cui Pirandello fu ricettivo lettore. Ma l’inconsistenza dell’io, o la frammentata pluralità delle persone nel personaggio di Mattia, ha una base essenzialmente etica.

Siamo cioè tornati alla necessità di leggere il romanzo anche come teorema conoscitivo. La «lanternosofia» del Paleari non è il solo enunciato “filosofico” del romanzo. L’ospite romano di Adriano Meis ha un suo “doppio” anticipato nel quasi-amico milanese, il cavalier Tito Lenzi, colto conversatore. Ricordate? Quell’ometto dalle gambe corte ha molti elementi in comune col protagonista, a partire dall’avversione per la retorica «con tanto di petto in fuori». Degli arguti e concettosi discorsi del Lenzi, Pirandello-Mattia dà un esempio, riportando il monologo su un tema cruciale: «La coscienza? Ma la coscienza non serve, caro signore! La coscienza, come guida, non può bastare. Basterebbe forse, ma se essa fosse castello e non piazza, per così dire; se noi cioè potessimo riuscire a concepirci isolatamente ed essa non fosse per sua natura aperta agli altri. Nella coscienza, secondo me, insomma, esiste una relazione essenziale… sicuro, essenziale, tra me che penso e gli altri esseri che io penso. E dunque non è un assoluto che basti a se stesso, mi spiego?».

Al monologo del filosofo dilettante milanese Tito Lenzi, fa eco quello del Paleari, l’aspirante teosofo romano. Potrebbe abbozzarsi una specie di geografia della mentalità di Milano e di Roma nell’immaginario pirandelliano: marcata la prima da una dominante prospettiva etico-sociale, tesa la seconda a propiziare riflessioni d’ordine teoretico e metafisico. Qualche lettore ha già còlto nell’opposizione Roma-Milano del Mattia Pascal un riflesso della situazione storica tardo-ottocentesca, che contrapponeva la lombarda metropoli del progresso all’aulico e decaduto Caput mundi, la città acquasantiera degradata a portacenere; la frase con cui l’autore sigilla quel paragrafo, «Roma è morte» – giusto il rovesciamento umanistico dell’enfasi garibaldina di «Roma o morte» -, raccoglie l’estrema eredità del motivo sette-ottocentesco di Roma città morta sfociato nell’amaro sonetto belliano Er battesimo der fijjo maschio: «Poveri scechi! E nnun ve sete accorti / ch’er libbro de battesimi in sto stato / se poteria chiamà llibbro de morti?».

Se la nebbia faceva da sfondo allo stato d’animo e alla confusione mentale del protagonista nel suo soggiorno a Milano, il buio cui è costretto dopo l’intervento all’occhio è la condizione materiale che lo rende forzatamente concentrato e attento alle stravaganti e sottili dissertazioni del Paleari; ma è nel contempo il colore sentimentale più adatto a una meditazione di tipo speculativo e para-mistico. Per giunta, il buio è anche la metafora portante della visione teosofica di Paleari: triste privilegio umano è il sentirsi vivere, e scambiare un sentimento soggettivo, il «lanternino» interno, per cosa esterna. Nelle varie età, sempre a giudizio dello spiritista, dòmina un certo colore di lanterna: la virtù pagana emanava luce rossa, quella cristiana luce viola, e quando passano le ventate che tutto spengono, resta solo il lumicino dei cimiteri. Ma se il mistero fosse solo in noi? Se la morte fosse solo l’estinzione del lanternino, che non spegne la vita ma la trasforma? Qui s’innesta la pars construens della «lanternosofia» del Paleari: noi viviamo con l’universo, anche se non lo vediamo, perché il lumicino è debole e deformante. Spento il debole lanternino dell’illusione, Anselmo accende la lanterna dello spiritismo.

Si tratta, come abbiamo detto, di un dialogo dei massimi sistemi, nella scia di una linea letteraria (evocata dal Macchia) che fa dell’umorismo un affilato strumento di conoscenza. L’autore lo dissimula con una tecnica di ironizzazione minimalistica, affidata ai tratti caricaturali dei due filosofi dilettanti: le buffe gambe corte del Lenzi potrebbero anche insinuare, evocando il noto proverbio, che il nostro ometto è un bugiardo, come verrà detto espressamente a proposito delle sue millantate avventure galanti; la prima apparizione del Paleari, goffamente inturbantato nell’intimità domestica, sembra il segno di un esotismo da pensionato. Inoltre, i segmenti narrativi che seguono le loro dissertazioni adempiono la medesima funzione di controcanto comico: le argute disquisizioni fitte di citazioni latine del Lenzi cedono alla curiosità pettegola e al chiacchiericcio vanitoso; gli slanci esoterici del Paleari sfociano in sedute casalinghe inficiate da piccoli o grandi imbrogli e costellate di episodi comici, fra manrovesci, palpeggi occulti e cagnette scambiate per spiriti.

Dialogo dei massimi sistemi

E tuttavia non vanno taciuti i risvolti “seri” di queste apparenti digressioni, che focalizzano invece le due linee essenziali della ricerca pirandelliana (nel romanzo e in altri testi): quella del Lenzi e quella del Paleari. I due personaggi sembrano oggettivare, attraverso il consueto meccanismo della reduplicazione di figure, della continua produzione di sosia, le due “anime mentali” di Mattia insite, come si è detto, nel suo cognome: l’una d’ordine prettamente etico e razionalista, giansenistica prima che kantiana (alla Blaise Pascal); l’altra di taglio misterico e speculativo (alla Théophile Pascal). Si badi che, mentre l’oscuro Teofilo è espressamente menzionato nella biblioteca occultistica di Anselmo Paleari, le tracce dell’influenza delle Pensées sono ben reperibili, oltre che nella Premessa seconda (filosofica) con le sue note riflessioni sulla marginalità dell’uomo nell’universo post-copernicano, anche nel capitolo VI (Tac tac tac…), dove le considerazioni sul calcolo delle probabilità, suggerite dalla roulette, si allacciano a un altro tema pascaliano, quello del divertissement; e ancora nel capitolo X (Acquasantiera e portacenere), con il cenno alla persistenza dell’istinto di conservazione nei vecchi, o le considerazioni sull’esistenza del nulla e del vuoto assoluto, a tacere della citazione esplicita di un pensiero pascaliano nel saggio sull’Umorismo ( «non c’è uomo che differisca più da un altro che da se stesso nella successione del tempo»), che rappresenta peraltro una variazione su quel tema già saggiata nel capitolo XV del romanzo: «Com’altro è il giorno, altro la notte, così forse una cosa siamo noi di giorno, altra di notte: miserabilissima cosa, ahimè, così di notte come di giorno».

Serie sono anche le riflessioni suscitate nel personaggio-narratore (che qui sembra sfumare nell’autore, fino a identificarsi con esso) dai due monologhi del Lenzi e del Paleari. Le dissertazioni del Lenzi, sembrano, invero, riscuotere la piena adesione del protagonista (il suo distacco sarà dettato solo dall’invadente curiosità dell’amico); nessuna obiezione egli muove alla proclamata mancanza di autonomia della coscienza individuale, ancorata a valori assoluti, e ben distinta dall’ethos convenzionale dettato dalla società. Quando il cavalier Tito liquida come vuota eloquenza la sentenza di Cicerone («Mea mihi conscientia pluris est quam hominum sermo»), Mattia non aggiunge nulla se non un cenno d’ammirazione per l’erudizione latina dell’interlocutore. Ed è forse proprio aderendo a un relativismo fondato sullo scardinamento di un’etica intersoggettiva che Mattia-Pirandello si gioca, come vedremo, la sua interiore identità, la possibilità di far consistere un “io”.

Il dibattito verbale, e ancor più quello mentale, col Paleari è invece molto più sfaccettato. Mattia, muovendo obiezioni a sé per la sua semi-vita nelle vesti di Adriano, ricorre al teosofo Leadbeater, autore centrale nella biblioteca del suo ospite, e si paragona ai morti che quel teosofo immagina chiusi in un guscio. I concetti del Paleari gli tornano alla mente anche a distanza di tempo: l’uomo, una bestia capace tuttavia di scrivere la Divina Commedia, potrà trasformarsi in un semplice verme? Mentre sembra condividere il ragionamento del Paleari teso a conciliare lo spiritismo con la scienza e con la religione, ne riconosce con lucido distacco l’irrazionale fideismo: Mattia sa che il teosofo, nella sua fede cieca, non ha in realtà bisogno di conferme sperimentali. Cade in questo punto, significativamente, l’unica nota d’autore del romanzo, attribuita a don Eligio Pellegrinotto, che richiama la nozione paolina e dantesca di fede come «sustanzia di cose da sperare e argomento e pruova di non appariscienti». Tuttavia, nel riferire la teoria «lanternosofica», il narratore, attraverso la pratica dell’indiretto libero e del discorso riferito in prima persona, sembra ridurre fortemente le distanze fra personaggio e autore: le riflessioni sulla fede hanno un sapore squisitamente pirandelliano, e si presentano come una delle prime e disincantate diagnosi in cui l’Occidente è visto come civiltà post-cristiana e secolarizzata senza rimedio. Ricordate? Ormai in chiesa – a suo dire – vanno solo dei poveri vecchi «cui mentì la vita»; vi si rinchiudono per sottrarsi alla «bestemmia» rumorosa del mondo, e si consolano dicendo «Dio mi vede», mentre sono invece loro a vederlo. Non siamo lontani dalla situazione rappresentata nella novella Il vecchio Dio, scritta tre anni prima: con la differenza che lì la rievocazione nostalgica del bel tempo antico e la prefigurazione di un Dio ritiratosi in campagna scaturivano dalle parole dello stesso Padreterno, apparso in sogno. Nella novella, il dilemma fra l’ esistenza di un mondo metafisico e la sua negazione come frutto di pura illusione era insito nell’ambiguità della condizione onirica. Ciò che nel racconto si risolveva sul piano lirico e fantastico, nel romanzo si concreta invece in polarità razionalmente contrapposte.

Non ambigua sembra essere, sulla scorta delle varie anche se caute dichiarazioni di Pirandello, la sua idea che ogni prospettiva di certezza è un’illusione più o meno provvisoria (si veda in tal senso anche la già ricordata Avvertenza su gli scrupoli della fantasia: «purtroppo, ogni realtà d’oggi è destinata a scoprircisi illusione domani, ma purtroppo illusione necessaria, se purtroppo fuori di essa non c’è per noi altra realtà»), anche se è eccessivo parlare, come qualcuno ha fatto, di un nichilismo assoluto. Ma se il pessimismo agnostico (piuttosto che dichiaratamente ateo) di Pirandello può essere ipotizzato per l’insieme dei suoi scritti e del suo profilo intellettuale, l’atteggiamento dell’io narrante nel Mattia Pascal (e della porzione di Pirandello che questo reca con sé) si presta a qualche ulteriore rilievo.

LA RELIGIONE DI MATTIA

Mattia-Pirandello non ignora del tutto il problema religioso e tiene in qualche modo vivo il dilemma fra una visione sacra e una profana dell’esistere. Già nella descrizione della biblioteca Boccamazza, collocata in un luogo fortemente simbolico come una chiesetta sconsacrata, l’autore sottolinea la commistione di testi dedicati all’ars amandi e di opere edificanti (dalle pagine polverose scappa fuori qualche ragnetto, presagio forse di quello metafisico uscito dalla narice di un morto e svanito sul filo che sembra perdersi all’infinito verso l’alto, nella novella Dal naso al cielo). Più tardi, nel reinventarsi come Adriano Meis, Mattia colloca nel suo immaginario albero genealogico le stesse due varianti, quella devota e quella libertina: la prima è incarnata dal nonno, probo studioso di antichità cristiane, la seconda dal padre, scapestrato giramondo: e in una pagina della prima edizione, poi eliminata, un vecchio compaesano raccontava a Mattia un aneddoto poco edificante sulla vita di suo padre, definito «manesco, prepotente, beone, anche… ladro, là». (Una simile opposizione è latente nei rapporti fra il decrepito marchese D’Auletta, nostalgico dei Borboni e clericale incallito, e il torbido suo segretario Papiano, che protesta di dover far tacere per necessità i propri sentimenti liberal-patriottici). Il nome stesso del Meis, come già ricordato, proviene dalla contaminazione fra il cognome di un cristologo gesuita e quello di un campione del positivismo. Ancora: la delicata religiosità di Adriana esercita uno charme non secondario su Adriano; ed è pensando alla devota fanciulla e alla gaffe dell’acquasantiera scambiata per portacenere che il protagonista si scopre a ricordare la sua passata religiosità: «…fin da ragazzo, io non avevo più atteso a pratiche religiose, né ero più entrato in alcuna chiesa per pregare, andato via Pinzone che mi vi conduceva insieme con Berto, per ordine della mamma. Non avevo mai sentito alcun bisogno di domandare a me stesso se avessi veramente una fede. E Mattia Pascal era morto di mala morte, senza conforti religiosi». Queste righe potrebbero facilmente indurre a liquidare come agnostica la posizione di Mattia-Pirandello, che ridurrebbe la religiosità a pratiche esterne e a obbedienza conformistica, relegandola nell’infanzia: solo allora, infatti, Mattia andava qualche volta in chiesa, condotto da Pinzone (figura riscontrabile nella biografia di Pirandello), per obbedire a una madre abitudinaria. Ma ecco che un’amabile e devota «mammina» gli fa trarre dall’oblio quel ricordo, inducendolo a interrogarsi sulle cause del suo allontanamento dalla fede in un denso soliloquio, concluso con questo pensiero: «Improvvisamente, mi vidi in una condizione assai speciosa. Per tutti quelli che mi conoscevano io mi ero tolto – bene o male – il pensiero più fastidioso e più affliggente che si possa avere, vivendo: quello della morte». La caduta dell’interesse per la religione viene associata alla rimozione del pensiero della morte; si direbbe, anzi, che la stessa fede venga interpretata in chiave penitenziale, mortificatrice, barocco-medievaleggiante e in qualche modo “meridionale”. Una connotazione luttuosa viene conferita alla virtù cristiana, quando le si attribuisce, nel discorso sull’evoluzione delle lanterne ideali, una luce viola, opposta alla luce rossa dell’antica virtus pagana.

Ora, anziché sottoscrivere e confermare le già note dimissioni di Pirandello da una religione rivelata e convenzionale, conviene sottolineare che il vero strappo avviene nei confronti di quella moralità universale-personale, collocata nella coscienza e non nelle mobili convenzioni delle società storiche, che ci siamo permessi di chiamare giansenista: quando Mattia sottoscrive il ragionamento relativistico del Lenzi, si gioca l’anima, perde l’àncora fondativa dell’io. E per mostrare che i suoi polmoni non sono più avvezzi all’aria di Port-Royal, potremmo notare che uno dei tratti più caratteristici e allarmanti del protagonista è l’assenza del sentimento di colpa (l’autore sottolinea l’irresponsabilità del personaggio fallito, prendendone le distanze). In quest’uomo che è stato giovane scioperato, traditore di un amico, seduttore di una vergine, adultero a spese di un conoscente, mendace verso i familiari, vile talvolta con i prepotenti, pronto a illudere e a deludere un’innocente, ebbene:  questo personaggio conosce «cupa tetraggine», «dolore feroce», noia e rabbia «smaniose» (parole di Pirandello), ma non conosce mai il rimorso. Prova, sì, un impulso a confessare, ma è un impulso descrittivo e non prescrittivo: egli vuole rivelare la verità per liberarsi d’una maschera fastidiosa, non d’un peso morale. Può ricredersi, talvolta; la perplessità è una corda che vibra spesso nel suo animo: ma il suo pentimento è solo d’ordine pratico, mai etico. Egli pende semmai (se ci è lecito proseguire nella forzatura dei termini avviata con l’aggettivo giansenista) verso un giustificazionismo di stampo gesuitico: nel capitolo XVI, quando, dopo il furto, Adriana lo esorta a denunciare il Papiano, Mattia le chiede il silenzio, con la scusa di tutelare l’onorabilità della casa. E finisce per convincere se stesso che il ladro, in fondo, si è preso l’importo della dote che gli spettava, visto che Adriano-Mattia gli aveva sottratto la preda designata, la povera Adriana. Certo, questa indulgenza verso il compromesso dovrebbe produrre il disprezzo di sé; in Mattia produce invece il disprezzo della sua ombra; straziandola sotto le ruote dei carri, egli scarica il suo disgusto su Adriano Meis; il suo doppio funge da capro espiatorio per un’anima che non pratica l’esame di coscienza e non giunge al rigoroso giudizio autocritico. All’incapacità di consistere eticamente, corrisponde pari pari l’impotenza di essere come persona; se la possibilità di riunire le molte facce dell’io (o le molte e contrarie pulsioni che vi si agitano) non sta nell’io ma nella società, il bene e il male appartengono solo al codice penale, e l’identità è un problema anagrafico.

Nonostante tale inconsistenza morale, Mattia mostra a tratti un’apertura speculativa verso il mistero. Una “voce” inspiegabile irrompe più volte nella sua vicenda. Egli coglie, senza giustificarli razionalmente, capricci del caso o moti dell’inconscio che vengono decifrati come messaggi di superiori e misteriose potenze. Mattia entra nel casinò dopo aver adocchiato un trattatello sul calcolo delle probabilità come guida alla roulette; le sue giocate le compie in uno stato di «febbre», anzi di «ebbrezza estrosa», di docile obbedienza a una guida misteriosa: «agivo quasi automaticamente, per improvvise, incoscienti ispirazioni: puntavo, ogni volta dopo gli altri, all’ultimo, là! e subito acquistavo la coscienza, la certezza che avrei vinto; e vincevo». Il crescendo della «lucida ebbrezza» e delle vincite vertiginose viene coronato dal gesto finale, quando egli punta tutto ciò che ha vinto sul medesimo numero, da cui riceverà una ricchezza immane: «la mano mi andò su lo stesso numero di prima, il 35; fui per ritirarla, ma no, lì, lì di nuovo, come se qualcuno me l’avesse comandato». Anche sul treno per Torino, Mattia ha l’impressione che il nome su cui ricalcherà la sua nuova identità sia stato gridato apposta per lui. E non mancano altre percezioni, o sospetti, della presenza di angeli dissimulati in particolari secondari, come quando un ubriaco gli dice «allegro!», scuotendolo nella sua disperazione.

UN CIELO DI CARTA

Ma la vera rottura di una visione puramente meccanicistica e immanentistica del mondo coincide con lo strappo del cielo di carta nel teatrino delle marionette, di cui parla la pagina più celebre del romanzo:

« – La tragedia d’Oreste in un teatrino di marionette! – venne ad annunziarmi il signor Anselmo Paleari. – Marionette automatiche, di nuova invenzione. Stasera, alle ore otto e mezzo, in via dei Prefetti, numero cinquantaquattro. Sarebbe da andarci, signor Meis.
– La tragedia d’Oreste?
– Già! D’après Sophocle, dice il manifestino. Sarà l’Elettra. Ora senta un po’ che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.
– Non saprei, – risposi, stringendomi ne le spalle.
– Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo.
– E perché?
– Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta».

È davvero una pagina densa e felice, che compendia in poche righe un potenziale saggio critico sul teatro antico e moderno. È pur vero che, a ogni colpo d’ala verso il sublime, Pirandello reagisce appiccicandovi sùbito un correttivo da stil comico; nella fattispecie la dimessa e prosaica uscita di scena del Paleari dopo il monologo solenne: «E se ne andò, ciabattando». Ed è vero che Pirandello-Mattia si affretta a paragonare i pensieri del prode Anselmo a «valanghe» precipitate «dalle vette nuvolose delle sue astrazioni»: «La ragione, il nesso, l’opportunità di essi rimanevano lassù, tra le nuvole, dimodoché difficilmente a chi lo ascoltava riusciva di capirci qualche cosa». Ciò non impedisce che il personaggio-narratore faccia un’ammissione importante: «L’immagine della marionetta d’Oreste sconcertata dal buco nel cielo mi rimase tuttavia un pezzo nella mente».

Gli resta in mente la tragedia: oggettivata sulla scena (sia pure una scena congetturata e non vista), essa spingerà Mattia a instaurare un paragone fra sé e le marionette, ad avvertire un moto d’invidia per le marionette. Non ci pare casuale che la tragedia prescelta sia l’Elettra di Sofocle e che venga riconosciuto nell’Amleto il suo corrispettivo shakespeariano. Al centro dell’intreccio tragico vi è, ancora una volta, il rapporto fra padre e figlio: Oreste deve vendicare la morte di Agamennone, come Amleto quella del re di Danimarca. La certezza del codice antico (la legge degli uomini e quella degli dei impongono, concordi, la vendetta) dà alla mano di Oreste una fermezza negata a chi, come il perplesso Amleto, sente modernamente confondersi diverse leggi nella sua mente. Moderno eroe, o antieroe, Mattia reca in sé tutta la perplessità di Amleto, ma svincolata dalla furia etica del principe danese: egli, che ha affidato al cielo cartaceo della convenzione sociale i parametri del dovere e dell’onore, potrebbe seguirli svogliatamente, o sottrarsene. Egli non ha, come Amleto, la certezza di portare dentro di sé il sangue di un re imperioso; egli non può dialogare con un fantasma che addita, ed esige, il gesto giusto ancorché crudele. Di Amleto, però, Mattia mantiene la tensione noetica: si trova disorientato, pensando che il cielo di carta possa squarciarsi e rivelare un altro cielo. In questa pagina si stabilisce, almeno per un attimo, la precisa connessione fra legge degli dei e legge del cuore, fra teologia e morale, che era stata negata nella disquisizione del cavalier Lenzi, condivisa da Mattia. L’esistenza di un “oltre”, il solo sospetto di un Cielo superiore fa tremare la mano di Oreste e di Amleto, e la mente di Mattia. Un Padre con la maiuscola potrebbe imporre altre norme che quelle della vendetta: potrebbe chiedere di perdonare l’uccisione di un padre terrestre.

Sono le marionette a portare alla massima chiarezza il dilemma e il dramma di Mattia. Come stupirsi della centralità di questa figura nelle cultura moderna – osserva Alessandro Spina – dopo le pagine folgoranti di Kleist? Il fascino delle marionette scaturisce dai loro movimenti armoniosi, resi possibili dal fatto che possiedono un centro di gravità. Ora, nelle marionette di Pirandello sentiamo vibrare fili antichi e moderni: ci si ricorda del teatro dei pupi, dove i paladini sanno di battersi per un paterno re, campione della vera fede; rivivono i tratti clowneschi e tragici di compare Turiddu, anch’egli senza padre, anch’egli senza più identità, estraniato com’è dal codice tribale del villaggio senza esser approdato a un altro sistema di valori; e, potremmo aggiungere, anch’egli beffato nei valori (il personaggio verghiano ha un destino opposto a quello auspicato dal suo nome, diminutivo di Salvatore, così come il «matto» Mattia, preda del caso, ribalta l’auspicio ìnsito nell’etimo del suo nome, “dono di Dio”; l’onomastica dei due scrittori siciliani rivela una sorta di comune e pessimistico rovesciamento profano del sacro). Ma per le marionette, la mente corre anche alla magia infantile e fantastica di Pinocchio, o dei giocattoli danzanti dello Schiaccianoci di Ciaikovskij, non meno che ai loro antitetici e meccanici robot senz’anima. O non saranno veicoli simbolici “aperti”, come i manichini della più tarda pittura metafisica? Le implicanze metafisiche di questo teatro dei pupi a cielo chiuso e/o aperto si ricavano dal testo stesso di Pirandello. I burattini appartengono a un mondo infantile e fantasioso, in cui ogni miracolo è possibile e dove gli dei inviano chiari messaggi, e sono ad un tempo moderni automi, che obbediscono ciecamente e tranquillamente ai comandi dei loro ingranaggi. Pirandello-Mattia mostra invidia per entrambe le condizioni, sottratte al dramma del libero arbitrio, che per altri poteva essere vanto e gloria dell’umana condizione, e per Pirandello è solo «perplessità angosciosa»:

«A un certo punto: “Beate le marionette”, sospirai, “su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla! E possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener se stesse in considerazione e in pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato”».

Mattia vagheggia un cielo in miniatura, che gli risparmi vertigini e capogiri; ma si sente esposto a un cielo sfondato verso l’infinito. È, a pensarci bene, il cielo di Blaose Pascal, dove la presenza di un Padre s’ipotizza per una scommessa piuttosto che per un calcolo (anche lui aveva nutrito la febbre del gioco), e sotto il quale la fragilità umana si vena di grandezza, nell’immagine del roseau pensant. Nell’Avvertenza apologetica, stesa ripensando il romanzo diciassette anni dopo, Pirandello avrebbe riconosciuto proprio nel raziocinio la qualità che distingue il pur misero uomo dall’animale (scimmia, asino o pavone). Si trattava, beninteso, di un raziocinio che ruota su se stesso senza uscire dalla gabbia dell’illusione, che sembra destinato a perdere la “scommessa”, il pari giocato dall’autore delle Pensées. Quel libro, Pascal l’aveva concepito per un ideale lettore “libertino”, cioè per convincere gli atei, ponendosi sul loro piano, con tolleranza, senza preclusioni. Rovesciato di segno, ma parimenti tollerante e aperto all’ipotesi di un cielo squarciato verso un oltre buio, il romanzo di Mattia Pascal sembra, a distanza di secoli, la risposta di un “libertino” che non si rassegna, però, ad essere marionetta sotto un cielo di carta.[1]

Pietro Gibellini

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