Il fu Mattia Pascal, alla base dell’aggettivo pirandelliano in vita e letteratura

Di Vieri Peroncini

Pirandello introduce la cultura italiana del Novecento in una dimensione europea che dai tempi del Manzoni le era mancata: rappresentando quella parte in ombra dello spirito, quel ‘rovescio del visibile’, i residui rimossi ‘appiattati sotto la coscienza’, quei démoni della psiche che in Europa Freud aveva liberato e che, negli stessi anni, Italo Svevo – dopo una lunga parabola – accoglieva nella Coscienza di Zeno.

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The late Mattia Pascal
Ivan Mozzhukhin in Feu Mathias Pascal diretto da Marcel L’Herbier (1926). immagine dal Web.

Il fu Mattia Pascal, alla base dell’aggettivo pirandelliano in vita e letteratura

da ArtSpecialDay

Pirandelliano è uno dei due aggettivi che, mutuati dalla letteratura nel linguaggio comune, sono certamente i più abusati – il secondo è kafkiano, senza dubbio – usati a sproposito per abbellire una frase senza comprenderne la reale portata e significato: magari perfino senza aver letto Il Fu Mattia Pascal, che fu il primo grande successo di Luigi Pirandello e che costituisce la chiave di volta della sua poetica e tematica, e quindi di tutte le cose pirandelliane. Parafrasando un po’ a braccio Italo Calvino, un classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire: la definizione calza quanto mai a pennello per Il Fu Mattia Pascal, che ad ogni rilettura si offre ad una nuova scoperta: ad esempio il lungo monologo (solo in apparenza in forma dialogica) del Capitolo X, Acquasantiera e portacenere, dove Pirandello mette in scena, è il caso di dirlo, una vera e propria piéce teatrale, e si erge ad una sorprendente modernità evocando i monologhi più intensi della storia del cinema, come quello di Al Pacino in Americani. Insomma, un vero e proprio nucleo tematico incastonato nella narrazione con tempi recitativi, che dà a posteriori al romanzo una veste quasi filmica.

Del resto, la narrazione di Pirandello è fortemente visiva, e la storia si presta alle immagini: infatti Il Fu Mattia Pascal, dopo la prima pubblicazione a puntate nel 1940, ha avuto tre riduzioni per il grande schermo (1926, 1937 e l’ultima, del  1985, con un’accoppiata Monicelli – Mastroianni, dal titolo Le due vite di Mattia Pascal) ed è stato portato anche sul palcoscenico: non è difficile da rappresentare, in fondo, la storia di questo Mattia Pascal che “muore tre volte”, ma la questo è rappresentarla bene, come pure la domanda fondamentale è: è mai vissuto veramente, Mattia Pascal? Deprivata degli orpelli descrittivi, la storia di Mattia Pascal, figlio di famiglia abbiente e caduta in disgrazia, che per una serie di vicissitudini si trova imprigionato in un matrimonio infelice e un lavoro inutile, è quella di un’occasione: quella di realizzare un desiderio che sfiora la mente di quasi tutti, senza che quasi nessuno abbia il coraggio di realizzarlo, ossia sparire, far perdere le proprie tracce e ricominciare da zero, come una persona del tutto nuova. allontanatosi da casa per alcuni giorni senza dar conto di sé, Pascal si trova dapprima in possesso di un’inaspettata piccola fortuna vinta al gioco, e successivamente dato per morto suicida a causa del ritrovamento di un cadavere scambiato per lui. Sparire così diventa facile: ma senza denaro a sufficienza per vivere senza problemi pratici, e senza un’identità reale che gli consenta di agire nel mondo, la seconda vita di Mattia Pascal come Adriano Meis non è agevole né attraente come sarebbe potuta sembrare.

Così, tra il grottesco ed il caricaturale, diviso tra personalità e maschera, e perfino tra realtà e pazzia, Mattia Pascal diviene un patriarca, il capostipite di quella schiera di personaggi, questi sì, pirandelliani: divisi tra anelito per il libero arbitrio e sottomissione alla durissima realtà, che prima o poi fronteggiano l’impossibilità dell’evasione reale (come chi si rifugia a Puerto Escondido…).  Anche la struttura narrativa concorre alla definizione di una costante dicotomia e lacerazione: narratore interno e onnisciente e analessi contribuiscono a dare un senso di ineluttabilità che si consolida pagina dopo pagina: e se in Kafka l’angoscia è determinata dal rapporto con un’astratta Autorità, qui è la Natura Umana a rendere l’esistenza una sorta di trappola.

Le digressioni tematiche, poi, sono di assoluto interesse: affidate in due occasioni fondamentali ad un personaggio all’apparenza secondario, Anselmo Paleari, che disquisisce in chiave filosofica dapprima sul legame tra democrazia ed infelicità, e poi sulla Lanterninosofia, “disciplina” che spiega come l’infelicità dell’esistenza alla coscienza di sé, al fatto di sentirsi vivere: al vedersi, insomma, come alla luce di un lanternino, appunto: E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene

Il fu Mattia Pascal si conclude con un’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia che, a sua volta, ha il sapore di una dichiarazione programmatica – pirandelliana, naturalmente Perché la vita, per tutte le sfacciate assurdità, piccole e grandi, di cui beatamente è piena, ha l’inestimabile privilegio di poter fare a meno di quella stupidissima verosimiglianza, a cui l’arte crede suo dovere obbedire. Le assurdità della vita non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere. All’opposto di quelle dell’arte che, per parer vere, hanno bisogno d’esser verosimili.

Dal che se ne deduce che, se desiderate usare l’aggettivo “pirandelliano” al presente momento sociopolitico, siete assolutamente autorizzati.

Vieri Peroncini

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