Il bottone della palandrana – Audio lettura

Legge Gaetano Marino
«L’incuria, la rilassatezza altrui lo offendevano; se protratte, lo esacerbavano, ma, a poco a poco, per quietarsi, per salvare quella sua sistemazione dell’universo, si metteva a escogitar scuse e attenuanti a quell’incuria, a quella rilassatezza.»

Prima pubblicazione: Corriere della Sera, 15 gennaio 1913, poi in Le due maschere, Quattrini Firenze 1914.

Il bottone della palandrana audiolibro

Il bottone della palandrana

Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino
Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)

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              Non gridarono; non fecero chiasso. A bassa voce, anzi senza voce, l’uno di fronte all’altro, prima l’uno e poi l’altro, si sputarono in faccia l’accusa:

             –    Spia!

             –    Ladro !

             E seguitarono così – spia! ladro! – come se non volessero più finire, allungando ogni volta il collo, come fanno i galli a pinzare, e pigiando a mano a mano sempre più, l’uno su l’i di spia, l’altro su Va di ladro.

             Gli alberetti, affacciati di qua e di là dai muri di cinta che incassavano quella viuzza stretta e sassosa tra i campi, pareva stessero a godersi la scena.

             Perché quelli di qua sapevano da qual parte del muro Meo Zezza s’era poc’anzi collato; quelli di là, dove don Filiberto Fiorinnanzi si teneva prima nascosto.

             E di qua e di là, passeri, cince e beccafichi, quasi n’avessero avuto il segnale dagli alberetti in vedetta, accompagnavano con un coro di sfrenata ilarità quell’aspra rissa sottovoce, a petto a petto, ferma ancora su quelle due parole, che invece di levarsi su, acute, si stiracchiavano pigiate sempre più dallo sprezzo:

             –    Spiiia!

             –    Laaadro !

             –    Spiiiia!

             –    Laaaadro!

             E alla fine, quando entrambi sentirono di essersi raschiata la gola e credettero d’aver ciascuno impresso su la grinta dell’altro, indelebilmente, il marchio d’infamia contenuto in quella parola tante volte e con tanta veemenza ripetuta, si voltarono le spalle, e Meo Zezza prese di qua e don Filiberto Fiorinnanzi di là, frementi, ansimanti, schizzando faville dagli occhi, stirandosi il collo in su, il panciotto in giù, e ripetendo, fra il tremolio delle labbra aride, quello: – Spia… spia… spia… – è questo: – Ladro… ladro., ladro…

             Ultimi guizzi della fiammata.

             Ma l’ira e lo sdegno si riaccesero in don Filiberto Fiorinnanzi, appena varcata la soglia di casa.

             Spia, lui?

             Si sentiva tutto insozzato da quella parola; e si levò, sbuffando, la palandrana.

             Spia, un galantuomo, perché s’accorge di un ladro, che da tant’anni ruba a man salva?

             E, con le mani che ancora gli ballavano, si mise a spazzolar la palandrana, prima di riporla nell’armadio.

             Ma a chi e quando aveva lui denunziato i furti continuati di quel ladro? Non aveva mai aperto bocca con nessuno, mai! Si era solamente contentato, fino a poco tempo fa, di fissarlo: ecco, sì, di guatare Meo Zezza in un certo modo speciale, quando costui, sempre tutto fremente di calda bestialità festosa, gli s’appressava e, con un lustro sguajato negli occhi e nei denti, accennava con le manacce paffute e pelose di toccarlo qua e là.

             Rigido, interito, egli aveva schivato quei toccamenti, e con una grave opaca durezza di sguardo nei grossi occhi sempre un po’ ingialliti dalle continue bili che si pigliava, gli aveva chiaramente significato, che s’era accorto e sapeva.

             – Ladro… ladro… – andava ancora ripetendo aggirandosi per la stanza, in maniche di camicia, e tastando qua e là con dita ignare e malferme questo e quell’oggetto.

             Alla fine sedette stanco morto, appié del letto, e si mise a guardare la candela, come se gli paresse strano che essa quietamente ardesse sul comodino da notte e lo invitasse, come ogni sera, ad andare a letto.

             Non si ricordava d’averla accesa.

             Finì di spogliarsi; si cacciò sotto le coperte; ma per quella notte non poté chiudere occhio.

             Da molti anni, dopo molte e intricatissime meditazioni, credeva d’essere riuscito a darsi una spiegazione sufficiente di tutte le cose; a sistemarsi insomma il mondo per suo conto; e pian piano s’era messo a camminarci dentro, non molto sicuro, no, anzi con l’animo sempre un po’ sospeso e pericolante, nell’aspettativa d’una qualche improvvisa violenza, che glielo buttasse all’aria tutt’a un tratto, sgarbatamente.

             S’era da un pezzo costituito esempio a tutti di compostezza e di misura, nel trattar gli affari, nelle discussioni che si facevano al circolo o nei caffè, in tutti gli atti, nel modo anche di vestire e di camminare. E Dio sa quanto doveva costargli tenere anche d’estate rigorosamente abbottonata quella sua palandrana vecchiotta, sì, ma piena di gravità e di decoro, e regger su ritto quel suo testone inteschiato e venoso sul lungo collo esilissimo per sostenere la rigida austerità del portamento.

             Voleva che il suo sguardo, il suo mostrarsi a ogni bisogno fossero tacito ammonimento o muta riprensione; specchio, sostegno, intoppo, consiglio. È vero che, sempre, per paura che lo specchio fosse appannato dai fiati brutali della plebe, o che il sostegno fosse scalzato con qualche spintone che lo mandasse a schizzar lontano, soleva tenersi alquanto discosto; ma pur sempre restava con tutto il corpo a far atto di volersi appressare e parare e moderare, secondo i casi.

             Soffriva indicibilmente nelle dita vedendo qualcuno andar per via con la giacca sbottonata o col giro della cravatta fuori del colletto; avrebbe pagato lui, di sua borsa, un operajo per dare una mano di vernice allo zoccolo dello sporto nella bottega di faccia al caffè, rifatto nuovo e lasciato lì di legno grezzo; e ogni sera se ne tornava oppresso e sbuffante dalla passeggiata fino in fondo al viale all’uscita del paese, dopo aver constatato, che ancora (dopo tanti mesi) dal Municipio non era venuto l’ordine di rimettere un vetro rotto all’ultimo lampione di quel viale. Come se tutt’intorno l’universo s’imperniasse in quel lampione rotto, don Filiberto Fiorinnanzi non aveva più pace.

             L’incuria, la rilassatezza altrui lo offendevano; se protratte, lo esacerbavano, ma, a poco a poco, per quietarsi, per salvare quella sua sistemazione dell’universo, si metteva a escogitar scuse e attenuanti a quell’incuria, a quella rilassatezza. E ci riusciva alla fine; ma con questo: che la sistemazione, a mano a mano, accogliendo quelle scuse e quelle attenuanti, perdeva di rigidità, s’ammolliva, pencolava di qua e di là; e don Filiberto si vedeva da un altro canto costretto a darsi pena per tenerla su, a furia di rincalzi, ora da una parte, ora dall’altra.

             Santo Dio, era giunto finanche ad ammettere che si potesse rubare! Sì, ma con una certa discrezione, almeno; per modo che il ladro salisse a poco a poco nella stima e nel rispetto della gente onesta e desse tempo a considerare che dopo tutto forse non è tanto ladro il ladro, quanto imbecille chi si lascia rubare.

             Il caso di Meo Zezza era veramente grave. In pochissimo tempo costui era saltato su, coi denari orbati, a pretendere, a imporre una considerazione che gli doveva assolutamente esser negata; a trattare confidenzialmente, a tu per tu, con chi per nascita, per età, per educazione doveva essergli e restargli superiore. E poi qua non si poteva in nessun modo ammettere che fosse imbecille il padrone a cui Meo Zezza rubava. Si sapeva anzi a Forni, che il marchese Di Giorgi-Decarpi amministrava i suoi vastissimi beni così esemplarmente, che ogni anno gli alunni delle scuole commerciali erano condotti dai loro professori a studiare il congegno di quell’amministrazione come un modello del genere.

             Circa trent’anni fa, il padre del Marchese aveva rischiato tutti i suoi capitali nella grande impresa del prosciugamento delle paludi dell’Irbio, ed era morto prima di veder l’esito felice dell’impresa. Il figliuolo, giovanissimo, ora si godeva in città la rendita d’una delle più estese e ubertose tenute del mezzogiorno d’Italia. Non era mai venuto neppure una volta a visitarla, è vero; ma il merito dell’amministrazione era suo. La tenuta era divisa in settori; ogni settore, con a capo un ministro, comprendeva dieci poderi. Uno dei ministri era Meo Zezza.

             Come mai una così specchiata amministrazione non si rendeva conto dei furti continuati e così esorbitanti di quel Cagliostro? Saltavano agli occhi di tutti; e lui stesso lo Zezza, lui stesso, con la sua espansiva spontaneità di bestia impudente, quasi non ne faceva più mistero.

             Levatosi la mattina appresso, con negli orecchi ancora il fischio di quella parola: spia, don Filiberto Fiorinnanzi fece animo risoluto. Serrò i denti; serrò le pugna. Doveva aver fine, perdio, una così enorme sconcezza, una siffatta oltracotanza.

             Spia? Ebbene, sì, spia. Raccoglieva la sfida. Avrebbe steso una formale denunzia di tutti i furti perpetrati da colui in tanti anni.

             Ci lavorò una decina di giorni. Quando alla fine ne venne a capo, si chiuse più rigidamente che mai nell’austera palandrana, e senza punto nascondersi, con la denunzia sotto il braccio, prese posto nella vettura che conduceva alla stazione ferroviaria, e partì per la città.

             Appena giunto, si recò difilato all’amministrazione del marchese Di Giorgi-Decarpi.

             Subito, entrando, si sentì compreso di tanta riverenza e ammirazione, che non solo non si ebbe a male delle molte difficoltà che gli furono opposte per esser ricevuto dal signor Marchese, ma anzi se ne compiacque assai e le approvò tutte e vi si sottomise con infiniti inchini e sorrisi di beatitudine.

             Era il regno dell’ordine, quello! L’interno d’un orologio. Tutto lucido e preciso. Uscieri in livrea; scale di marmo, corridoj da potercisi specchiate, con magnifiche guide, illuminati a luce elettrica, riscaldati a termosifone; e per tutto tabelle: Sezione i, Sezione il, Sezione in, e a ogni uscio l’indicazione dell’ufficio. L’illustrissimo signor Marchese non concedeva udienza se non nei giorni fissati e nelle ore fissate: il mercoledì e il sabato, dalle 10 alle 11: e, per essere ammessi a quelle udienze, bisognava farne domanda due giorni avanti, riempiendo un modulo a stampa sul primo tavolino della seconda stanza della segreteria particolare, al primo piano, Sezione i, secondo corridojo a destra. Per chi avesse fretta e non potesse aspettare quei giorni fissati, c’era l’ufficio delle comunicazioni urgenti, nello stesso piano, alla stessa Sezione, primo corridojo a sinistra, uscio terzo.

             – No no, ah no no… – disse don Filiberto.

             Le comunicazioni, ch’egli aveva da fare, non erano tanto urgenti quanto gravi, e voleva farle al Marchese direttamente.

             –    Viene apposta da Forni? – gli domandò il capo-usciere.

             –    Sissignore, da Forni, apposta.

             –    Ma oggi è giovedì.

             –    Non fa nulla. Se questa è la regola, aspetterò fino a sabato, alle dieci. Il capo-usciere si rivolse allora a un ragazzotto anch’esso in livrea.

             –    Va’ su a prendere un modulo!

             Ma don Filiberto Fiorinnanzi non volle assolutamente permetterlo.

             – No no, scusi, che c’entra? Vado io, vado io.

             E risalì a riempire il modulo a stampa sul primo tavolino della seconda stanza della segreteria particolare, al primo piano, Sezione i, secondo corridojo a destra.

             Si preparò in quei due giorni all’udienza, raccogliendo come a un supremo cimento tutte le sue facoltà mentali. Un esordio, breve, perché certo il Marchese non poteva aver tempo d’ascoltare parole che non si riferissero a fatti; ma egli doveva pure, innanzi tutto, dichiarare l’animo e le ragioni che lo movevano a quella denunzia; poi, punto per punto, avrebbe esposto i fatti. Era felice di mettere a servizio l’opera sua, disinteressatamente, contro quel ladro che con tanta pervicacia s’accaniva a imbrogliare un ordine di cose così maravigliosamente costituito.

             La mattina del sabato, dieci minuti prima dell’ora fissata, si trovò nell’anticamera della segreteria particolare. Era il primo iscritto e, appena scoccate le dieci, fu introdotto alla presenza del Marchese.

             Era costui un omettino a cui la raffinata eleganza dell’abito non riusciva a togliere, anzi accresceva una certa ispida acerbità campagnuola. La spalliera del seggiolone su cui stava seduto innanzi alla scrivania gli superava d’un palmo la testa. Inchinò appena il capo in risposta al profondo ossequio del visitatore; con la mano gli fe’ cenno di sedere; poi poggiò un gomito sul bracciuolo e abbassò la fronte sulla palma, nascondendovi un occhio.

             L’altro occhio, armato da una rigida caramella cerchiata di tartaruga, don Filiberto Fiorinnanzi se lo vide piantare in faccia con una fissità così dura e ostile e persistente, che sentì gelarsi il sangue nelle vene e imbrogliarsi in bocca le parole del breve esordio con tanto studio preparato.

             Quell’occhio diffidava; quell’occhio non credeva al disinteresse; quell’occhio severissimamente lo ammoniva a non dir cosa che non avesse prova e fondamento nei fatti, e con inflessibile acume scrutava attraverso ogni parola che gli usciva con tremore dalle labbra.

             Se non che, a un certo punto, il Marchese si tolse la mano dalla fronte, e scoprì l’altro occhio: un languido, melenso occhio svogliato, un occhio che, per così dire, sbadigliava e che si rivolgeva al visitatore, come a chieder pietà.

             Don Filiberto Fiorinnanzi si sentì a un tratto crollare in fondo allo stomaco tutte le viscere sospese.

             Quell’occhio, quell’occhio che gli aveva incusso tanto terrore, era… era dunque finto? di vetro? Ah Dio, sì, di vetro. E dunque il Marchese, tenendo coperto quello vero, non solo non lo aveva finora così terribilmente fissato e scrutato e minacciato, ma neppure s’era curato di veder chi fosse entrato a parlargli; e forse non aveva neanche ascoltato nulla di quanto egli con tanta trepidazione gli aveva detto.

             –    Vengo… signor Marchese… vengo ai fatti… – balbettò tutto smorto e smarrito.

             –    Ecco, sì, mi faccia questa grazia, – miagolò il Marchese.

             E posando il pugno, ora, sulla scrivania, vi appoggiò la fronte. Non si rimosse più da quella positura. Don Filiberto Fiorinnanzi poteva supporre che dormisse. Alla fine, alzò la fronte dal pugno; disse:

             – Permette?

             E stese la mano a ricevere il foglio della denunzia. Lo scorse sbadatamente; poi si cacciò una mano in tasca, ne trasse un mazzetto di chiavi, aprì un cassetto dello stipo accanto alla scrivania, ne prese una carta, la pose accanto al foglio, e su questo con un lapis turchino si mise a far brevi segni di richiamo, a mano a mano che leggeva in quella. Quand’ebbe terminato, senza dir nulla, porse a don Filiberto Fiorinnanzi il suo foglio segnato e quella carta tratta dallo stipo.

             Don Filiberto, perplesso, imbalordito, guardò l’uno e l’altra, poi il Marchese, poi di nuovo il suo foglio e quella carta, e s’accorse che in questa erano già esposti, quasi con lo stesso ordine, tutti i furti dello Zezza, ch’egli era venuto a denunziare.

             –    Ah dunque… – disse, appena poté rinvenire dallo sbalordimento, – ah, dunque a Vostra Signoria… a Vostra Signoria Illustrissima… erano già noti…

             –    Come vede, – lo interruppe freddamente il Marchese. – E anzi, se ella guarda più attentamente nella mia carta, vedrà che ci son noverati molti altri furti che non si trovano nella sua denunzia.

             –    Già… già… vedo… vedo… – riconobbe più che mai smarrito nello stupore, don Filiberto. – Ma dunque…

             Il piccolo Marchese tornò ad appoggiare il gomito sul bracciuolo e a nascondersi con la mano l’occhio sano, stanco e svogliato.

             – Caro signore, – sospirò, – e che vuole che me n’importi?

             La terribile fissità dell’occhio di vetro, armato della caramella cerchiata di tartaruga, fece un contrasto orribile con la stanchezza di questo sospiro.

             –    Sono cose, – seguitò, – che esorbitano dalla mia amministrazione.

             –    Esorbitano?

             –    Già. Noi qua dobbiamo guardare e guardiamo Zezza ministro. Come tale, lo abbiamo trovato sempre ineccepibile. Zezza uomo non ci riguarda, caro signore. Dirò di più: è per noi anzi un vantaggio, che egli sia così ladro, o piuttosto così desideroso di arricchirsi. Mi spiego. Agli altri ministri che si tengono paghi, più o meno, al loro stipendio soltanto, non preme affatto che i poderi rendano qualche cosa di più di quello che potrebbero rendere. Preme invece allo Zezza, perché, oltre che a noi, essi debbono rendere anche a lui. E il risultato è questo: che nessuno dei settori ci rende tanto quanto quello di cui Zezza è ministro.

             –    Ma dunque… – fece ancora una volta, come in un singhiozzo, don Filiberto.

             –    Oh, dunque, – ripigliò alzandosi per licenziarlo il Marchese, – io la ringrazio tanto, a ogni modo, caro signore, dell’incomodo che Ella ha voluto prendersi; quantunque… oh Dio, sì… forse avrebbe potuto immaginarsi che a una amministrazione come la mia questi fatti non potevano restare ignoti. Questi e altri, com’Ella ha potuto vedere. Ma a ogni modo, io la ringrazio e me le professo gratissimo. Si stia bene, caro signore.
Don Filiberto Fiorinnanzi uscì stordito, stonato, insensato addirittura, dalla sede dell’amministrazione.

             – E dunque…

             La conclusione l’aveva in mano.

             Un bottone della palandrana. Sentendo parlare a quel modo il Marchese, se l’era tante volte rigirato sul petto, quel bottone, che esso alla fine gli s’era staccato e gli era rimasto tra le dita.

             Ma, ormai, a che gli serviva più? Poteva bene andar per via con la palandrana sbottonata, e anche svoltata, con le maniche alla rovescia, e anche col cappello assettato sotto sopra sul capo.

             L’universo, ormai, per don Filiberto Fiorinnanzi era tutto quanto e per sempre scombussolato.

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