Ho tante cose da dirvi… – Audio lettura 5
Legge Valter Zanardi.
«Ho tante cose da dirvi…»
Legge Valter Zanardi
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La lettera, in un bel foglietto volgarissimo, di suprema eleganza provinciale, color di rosa e filettato d’oro, finiva così:
… se parlo d’ansia, tu puoi ben dire: ma sei vecchio, sei, povero il mio Giorgio! Ed è vero, sono vecchio, sì; ma dêi pensare, Momolina, che fin da ragazzo io t’ho amata, e quanto! Dicevi d’amarmi anche tu, allora! Venne la bufera – proprio la bufera – e mi ti portò via. Quanti mai anni sono passati? Vent’otto… Ma come si fa che son rimasto sempre lo stesso? Dico meglio: il mio cuore! Non dovresti perciò farmi aspettare più a lungo la risposta. Sai? Io verrò a te domani. Hai avuto circa un mese per riflettere. Mi devi dire domani o sì o no. Ma dev’essere sì, Momolina! Non far crollare il bel castello che ho edificato in questo mese, il bel castello dove tu sarai regina e tutte le mie speranze ancora giovani ti serviranno come ancelle amorose…
La signora Moma s’accorse che quest’ultima frase, così poetica, era stata aggiunta, appiccicata dopo scritta la lettera. Il signor Giorgio, o non aveva voluto sprecare il bel foglietto color di rosa, filettato d’oro; o non aveva voluto sobbarcarsi alla fatica di rifar di nuovo, chi sa con quanto stento, in bella copia la lettera, con tutti quegli svolazzi in fine d’ogni parola; e, con molta industria allora, aveva costretto la poetica frase, sovvenutagli tardi, forse nel rileggere la lettera prima di chiuderla nella busta, a capir tutta, di minutissimo carattere, nel poco spazio che avanzava nel rigo dopo il tu sarai regina. L’appiccicatura, saltando agli occhi evidente, rendeva più che mai goffe quelle speranze ancora giovani che dovevano servirla come ancelle amorose. E, ottenne questo bell’effetto: che la signora Moma, sbuffando, buttò via la lettera, senza leggerne le ultime righe.
– Oh Dio, viene domani? Ma come non capisce, cretino, che non voglio saperne?
E, ancora col cappello in capo, pestò un piede e alzò la mano guantata a un vivacissimo gesto di fastidio e di stizza.
Con quel cappello in capo la signora Moma stava, si può dire, da un anno e quattro mesi. Non se lo levava che per qualche mezz’oretta, per qualche oretta al giorno; se lo ripiantava di furia in capo, e via di nuovo, fuori di casa.
La cacciava via così, sempre in giro di qua e di là, una smania, non sapeva di che, una smania che le si esasperava in corpo sopratutto alla vista dei mobili della casa e specialmente alla vista del magnifico salone di ricevimento, con quelle ricche tende e quelle portiere di damasco, quei quadri antichi e moderni alle pareti e quel gran pianoforte a coda del marito e quei leggìi che parevano di chiesa, innanzi ai quali sedevano con gli strumenti ad arco i colleghi del marito e anche Alda, la sua bella figliuola, adesso lontana lontana, anche lei col suo violino.
Da un anno e quattro mesi era vedova la signora Moma: dell’illustre maestro Aldo Sorave. La lettera ricevuta quella mattina nella quale quel signor Giorgio la chiamava Momolina, le aveva per poco ridestato il ricordo del suo paesello nativo, di quel ferrigno borgo montano, tutto cinto di faggi, di querci e di castagni, ove un giorno il giovane maestro Sorave, sbattuto da chi sa quale tempesta, era venuto a rifugiarsi, genio incompreso, con un libretto da musicare, La bufera.
Ella era veramente Momolina, allora. Sedici anni, rosea e fresca, bellina, grassottella e placida placida. Ma s’era innamorata anche lei del giovane maestro Sorave. Se n’era innamorata forse perché tutte le ragazze del paese se n’erano innamorate. Non aveva mai però compreso bene perché egli fra tante avesse scelto lei, proprio lei, che certo gli s’era mostrata meno accesa di tutte le altre; tanto che innanzi a lui non aveva saputo se non arrossire e balbettare; e, forzata a dirgli qualche cosa, gli aveva dichiarato candidamente di non capir nulla, lei, né di musica, né di poesia, né d’alcun’altra arte.
Ebbene, appunto perciò, forse, il maestro Aldo Sorave se l’era sposata. Pur non di meno ella credeva, era sicurissima d’aver condiviso per vent’otto anni la vita del marito, dapprima tempestosa, zingaresca, in viaggi affannosi da un paese all’altro, con la lingua fuori come una povera cagnetta dietro l’ansia smaniosa di lui che voleva a ogni costo raggiungere la meta; poi – nata la figliuola – un’altra vita, non mai placida veramente, ma certo meno irrequieta, quella che seguiva ai ritorni di lui dopo i trionfi o d’un giro di concerti o d’una stagione musicale diretta in questa o in quella città; finché, conquistata solidamente con la fama l’agiatezza, egli non s’era stabilito a Roma. Qua la figliuola era cresciuta, bionda e bellissima, in mezzo all’inebriante fulgore d’arte di cui era circondato il marito. Ma un bel giorno, chi sa come, chi sa perché, rovesciando tutti i disegni ambiziosi del padre, s’era invaghita d’un giornalista, brutto e quasi vecchio; aveva voluto sposarlo, e se n’era andata in America, a Buenos Aires, dove al marito era stata offerta la direzione d’un grande giornale italiano. Tre mesi appena dopo quelle nozze, il padre, che aveva negato fino all’ultimo il consenso e non aveva voluto rivedere la figliuola neanche prima della partenza per l’America, era morto di crepacuore.
Un gran dolore, sì, oh un gran dolore per la signora Moma l’allontanamento di quell’unica figliuola; e la più grande delle sciagure era stata poi per lei la morte del marito. Ma – ecco – che proprio proprio, con quell’allontanamento e con questa morte, fosse tutto finito, come se ella non fosse rimasta lì, come se non fosse rimasta la casa, tal quale, per l’agiatezza in cui la aveva lasciata il marito, la signora Moma non riusciva ancora a capacitarsi.
Certo, la vita d’un tempo, quella fervida vita, così bruscamente interrotta, le feste d’arte, le conversazioni, la corte delle splendide signore attorno al vecchio maestro illustre, piccoletto e capelluto, dagli occhi selvaggi sotto le folte ciglia spioventi come appariva dal ritratto a olio appeso alla parete del salone; la corte degli elegantissimi giovanotti attorno alla figliuola; non era più possibile ormai: questo, sì, la signora Moma lo comprendeva bene. Ma una vita quale ormai poteva essere nelle mutate condizioni, le tante e tante amiche, i tanti e tanti amici d’allora potevano bene ricondurla lì, nella casa rimasta tal quale, in quel magnifico salone, attorno a lei che v’era restata sola e vi s’aggirava come sperduta.
E col cappello in capo, dalla mattina alla sera, angosciata, esasperata, la signora Moma correva in cerca degli antichi frequentatori della casa, dall’uno all’altro, senza requie.
Dapprima era stata accolta con una certa cordialità; molti la avevano commiserata per la doppia sventura; qualcuno le aveva anche promesso che sarebbe venuto a trovarla. Ma che! Non era mai più venuto nessuno. E a poco a poco la signora Moma era divenuta quasi aggressiva.
– Birbante! birbante! Avevate promesso che sareste venuto.
– Signora mia, creda, non ho potuto.
– Verrete oggi? Fatemi il piacere, venite! Ho tante cose da dirvi… Dalle quattro alle sei. Ci conto.
– Oggi no, mi dispiace, signora, non potrei. Spero domani.
– No! Domani certo. V’aspetto, badate! Dalle quattro alle sei. Ho tante cose da dirvi…
E dalle quattro alle sei la signora Moma stava ad aspettare in casa la visita. Credeva veramente d’aver tante cose da dire, e ripeteva a tutti, dopo gl’inviti sempre più pressanti, quella frase.
Passavano le quattro, passavano le cinque, passavano le sei, l’impazienza, la smania, l’angoscia, l’esasperazione della signora Moma crescevano; sbuffava, balzando in piedi; andava su e giù per il salone; s’affacciava ora a questa ora a quella finestra a guardare se l’aspettato venisse; e, pur certa ormai che non sarebbe più venuto, scoccate le sei, si costringeva, divorata dalla rabbia, ad aspettare ancora dieci minuti, un quarto d’ora, e ancora un altro quarto, e finanche un’ora! Alla fine, si ripiantava il cappello in capo, e via di nuovo per le strade, furiosa, imprecando al mal’educato.
Non s’accorgeva nemmeno che ora amici e conoscenti, per non farsi aggredire avvistandola da lontano, scantonavano, si nascondevano e, quand’erano acchiappati, le porgevano la mano voltando la faccia, e scappavano via, senza darle il tempo di finir la solita frase:
– Domani, eh? V’aspetto domani. Dalle quattro alle sei. Ho tante cose da dirvi…
Ricordava, la poveretta, d’essersi mostrata sempre affabile e cordiale, con le amiche, con gli amici, ammiratrici del marito, corteggiatori della figliuola. Amiche, amici, le sedevano accanto, allora, durante le riunioni, le rivolgevano anche la parola, la salutavano con aria complimentosa e deferente, entrando nel salone e uscendone. Inchini, complimenti, sorrisi… Ella udiva paziente tutta quella musica, tutte quelle dispute d’arte; qualche volta le era avvenuto di rispondere con un cenno del capo o con un sorriso a qualcuno che nel calore della discussione le aveva rivolto lo sguardo… No, no, proprio no, non riusciva a capacitarsi ancora perché, allontanatasi la figliuola, morto il marito, tutti l’avessero abbandonata così, come se ella avesse commesso qualche indegnità; tutti avessero così disertato la bella casa dove quei preziosi oggetti d’arte erano rimasti attorno a lei come sospesi in una immobilità silenziosa e quasi solenne.
Erano suoi, tutti e assolutamente suoi, ora, quei mobili e la casa; ella era la signora e la padrona di tutto; eppure… eppure da una smania orribile si sentiva presa, guardando, o, piuttosto, sentendosi guardata come un’estranea, lì, da tutti quegli oggetti che non le dicevano nulla, che non le sapevano dir nulla, perché avevano tutti un ricordo vivo ancora, o del marito o della figliuola; e per lei, nessuno.
Se alzava gli occhi a guardare, per esempio, un quadro del salone, sapeva ch’era antico, come no? sapeva ch’era di pregio; ma che cosa rappresentasse quel quadro, perché fosse bello, veramente non avrebbe saputo dire neanche a se stessa; e se guardava il pianoforte… eh, in verità non poteva altro che guardarlo… non s’arrischiava nemmeno a scoprirne la tastiera, perché il marito, prima di morire, le aveva espressamente raccomandato che non lo lasciasse più toccare a nessuno. Quanto a toccarlo lei, neppur ci pensava, perché lei, la musica… – sì, c’era vissuta sempre in mezzo – ma neanche le note, il do dal re aveva imparato mai a distinguere.
Non le viveva, ecco, non poteva più viverle attorno, quella casa. Per riprendere a vivere bisognava assolutamente che un po’ dell’antica vita, quella degli altri, quella della figliuola e del marito, tornasse a muoversi in essa.
Altra vita, lì, una sua vita, non era possibile; perché in realtà lei, la signora Moma (ditelo piano, per carità, se non volete esser troppo crudeli, voi che adesso la chiamate «una terribile seccatrice»), la signora Moma, lì, nella sua casa, non aveva mai avuto una vita sua e quasi non c’era mai stata.
Questo ella, naturalmente, non poteva intenderlo: lo avvertiva solo come una smania che le si esacerbava sempre più e la cacciava fuori senza requie, incaponita a richiamare, a ricondurre attorno a sé quella vita, nell’angoscia smaniosa di sentirsela mancare e sfuggire, senza saper perché.
Il giorno appresso – s’intende – accolse a modo d’un cane quel povero signor Giorgio Fantini, suo compaesanello innamorato di vent’otto anni fa, che pure con la sua profferta di nozze intendeva di richiamare e di ricondurre lei piuttosto a quell’unica vita ch’ella veramente avrebbe potuto vivere, là nel ferrigno borgo montano tra i boschi di faggi, di querci e di castagni; modesta vita tranquilla, dai giorni semplici, uguali, dove non avveniva mai nulla ch’ella non potesse capire, dove in ogni cosa nota avrebbe potuto sentire e toccare la realtà sicura della propria esistenza.
E non era poi tanto vecchio quel signor Giorgio Fantini; ed era anche un bell’uomo, molto più bello certamente di quel piccoletto e capelluto maestro-bufera Aldo Sorave; ed era anche ricco, padrone di molte terre e di molte case, e non privo d’una certa coltura antica e sana, se poteva leggere nel loro testo latino e senz’ajuto di traduzione le Georgiche di Virgilio.
Già non si fece neppur trovare in casa la signora Moma. Quando, dopo circa due ore, rincasò tutta accaldata e sbuffante, più che mai invelenita dalla stizza contro tutti quegli ingrati e mal’educati che la sfuggivano e le mancavano di parola, lo investì malamente, là nel salone, senza neppur levarsi il cappello, sollevando soltanto la veletta per fargli scorgere bene, negli occhi, la sua collera e il fermo proposito di respingere quella proposta che le pareva quasi un insulto, anzi una tracotanza.
– Ma chi v’ha detto di venire, caro Fantini? Io non ve l’ho detto! Non v’ho neppure risposto! Ma sì, scusate: vi pare sul serio che sia una cosa possibile? Ma basta che vi guardiate un po’ attorno, caro Fantini! Vedete? Questa è la mia casa… Credete proprio possibile ch’io, alla mia età, rinunzi ormai a ciò che per tanti anni ha formato la mia vita? Via, via… Un po’ di riflessione… Avreste dovuto riflettere un po’ prima, veramente… Basta; non ne parliamo più. Qua la mano, caro Fantini, senza rancore, e restiamo buoni amici.
Non ebbe il coraggio d’insistere il signor Giorgio Fantini; guardò in giro quel solenne salone dov’ella diceva d’aver la sua vita, e poco dopo uscì con lei che per un momento, a causa di lui, aveva dovuto interrompere la sua quotidiana inesorabile ricerca.
E la vide per via, nella tristezza brumosa della sera decembrina, fermarsi tre o quattro volte in mezzo a una fiumana di gente ad aggredire questo e quello; e s’accorse che quei signori aggrediti le porgevano la mano voltando la faccia; e ogni volta con una strana voce rabbiosa di pianto le udì ripetere quella sua solita frase:
– Ma avevate promesso di farvi vedere! Venite! venite! Dalle quattro alle sei. Ho tante cose da dirvi…
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