Giorgio Strehler: Appunti di regia per “I giganti della Montagna” Ediz. 1947-1966-1994

I giganti vincono sempre I giganti perdono sempre. C’è un tema profondo, ricorrente nella grande cultura greca-europea il tema dei Giganti mitici che vogliono impadronirsi del potere celeste, universale. E vengono sconfitti, quando sembrano avere vinto.

 Indice Tematiche

Giorgio Strehler
Giorgio Strehler (1921-1997). Immagine dal Web.

Giorgio Strehler
Appunti di regia per “I giganti della Montagna”
Ediz. 1947-1966-1994

INDICE
Appunti di regia prima edizione – 1947
Appunti di regia seconda edizione – 1966
Appunti di regia terza edizione – 1994
Lettera ad Andrea Jonasson protagonista nell’edizione del 1994, sul ruolo di Ilse

da Archivio del Piccolo Teatro di Milano

I giganti della montagna – 1947-48

Appunti di regia 1947

Appunti sulla prima edizione dello spettacolo
regia: Giorgio Strehler
scene: Gianni Ratto
costumi: Ebe Colciaghi
musiche: Fiorenzo Carpi
maschere: Marta Latis

Il mito dei Giganti

        Potrà sembrare strano ma occorre forse, per entrare con facilità in questo mito, che è il mito dell’arte ma è anche una concreta storia umana, in cui realtà e trasposizione cosmica si fondono quasi sempre con una felicità ineguagliabile, una disposizione candida, una ingenuità di sentire che si incanti dei lampi finti, delle luci, delle apparizioni, come possono incantarsi dei bambini: bambini che sanno già troppo, certo, ma sempre pronti ad un gioco di poesia.
E di questa, nei Giganti della montagna, ce nè molta. Mai ha tanto saputo distendersi, rompere ad un certo punto una disperata dialettica per raggiungere una serena misura di canto. Proprio in questa poesia, il dramma di Ilse e dei Comici arrivati una notte improvvisamente in una misteriosa villa ove vivono dei candidi illusi, ubriachi di infinito, fuori della vita, e costretti dalla loro stessa frenesia ad abbandonarla per recitare in mezzo ai “Giganti” che uccideranno Ilse inevitabilmente, acquista il suo sapore eterno.
Ed ecco così che il rinunciare da parte dei Comici alla villa diventa tragedia esplicita del cessare dall’infinito nell’attimo stesso di ogni creazione.
La fatalità che è nella natura stessa dell’arte non mai contenta di sé ma abbisognevole del coro intento di una collettività armonica che laccetti, spinge Ilse a non accettare il mondo degli Scalognati e di Cotrone. Al di qua ci sono i Giganti ma solo ad essi è possibile rivolgersi e tentare una parola di comprensione, perché solo essi anche se non lo capiscono, potranno capire un giorno e tramutare la pazzia di Ilse in concreta pacificazione. Questa è la desolata, la più desolata conclusione forse che Pirandello ci abbia lasciato, ma a cui pure freme l’ansia di ritrovare una “Società” composta, in cui si ritrova un altissimo messaggio che è di disperazione e di fede, al tempo stesso, nell’uomo. Un messaggio di perdono e di pietà. Pietà per tutti. Per chi non sa far capire, per chi non capisce, per chi uccide e per chi viene ucciso.
Altro Pirandello non poteva dirci e forse è suprema grazia che la sua ultima parola si sia arresa nella lucida pace, agghiacciata come un cristallo, dei Giganti della montagna. A noi di accettarlo o, come Giganti, respingerlo. A noi di ritrovare una meraviglia incantata in quella fantastica camera dei fantocci, dove tutto il mondo del teatro si condensa misteriosamente, dove i sogni parlano e danzano. A noi capire che nella sgangherata carretta che trasporta Ilse morta, nel viaggio lento dei Comici, in questo corteo funebre per la Poesia uccisa, lungo la platea viaggia sì tutta la nostra storia di teatranti in pena, con tutti i nostri errori, con le nostre frenesie, ma viaggia forse, anche tutta la miseria di questo nostro povero mondo alla deriva.

I giganti della montagna – 1966-67

giorgio strehler
Valentina Cortese – I Giganti della Montagna, 1966

Appunti di regia 1966

Appunti sulla seconda edizione dello spettacolo
regia: Giorgio Strehler
scene: Ezio Frigerio
costumi: Ezio Frigerio, Enrico Job
musiche: Fiorenzo Carpi
maschere: Carlo Schiavon, Luisa Spinatelli

        Un inizio, un sipario di ferro, chiuso, ermetico. Un sipario senza fantasia: forza, struttura, materia spietata (tenebra e pietra).
Si alza adagio, mentre un filo di musica esce da sotto, scivola fuori, a filo delle larghe tavole di legno del palco, scoprendo una scena tenue di verde spento, che sale tra l’erba argentea, rasa dalla luce del crepuscolo, fino ad un magico volume, trasparente e misterioso al tempo stesso.
Appare chiaro, come sospeso nel vuoto, aria, sera; il dolce viola della sera di un’Italia fonda e tenera, inventata su temi e toni, appena accennati, di una pittura italica metafisica e reale insieme. Trema a un poco d’aria, palpita come una cosa viva, con brevi sussulti. Oppure sta, in un’immobilità assoluta. Un tono di colore, un muro o una casa inventata. Un lenzuolo popolare che diventa casa e teatro. La casa fantasma. La casa teatro. La casa sipario.

I Giganti: una recita davanti, dietro e intorno a un sipario. Il mistero, la levità del sipario. La semplicità di un lenzuolo teso e palpitante nell’aria della sera. I rifugi misteriosi, le protezioni dell’infanzia. I giochi di luce con la lampada accesa sotto le coperte. Le trasparenze, le ombre. Il teatro, il carnevale, il gioco del cigno con la mano, la lanterna magica nel silenzio di una stanza piena d’ombra. Il sipario che apre e chiude, vela e rivela.
Il sipario che diventa mucchio informe al suolo. Il gioco del sipario piegato, come le donne dopo che hanno stirato le lenzuola. “L’arsenale delle apparizioni”: il mistero del teatro nella sua completezza. Luogo in cui le cose si fanno da sé, dove tutto è possibile. Ricettacolo di tutti gli “strumenti” del teatro: attori, mimi, burattini, fantocci, marionette, bambole, trucco, illusione, scene, costumi, schermi, macchine, oggetti, cantinelle, artifici, giochi, soluzioni sonore e visive, che animano e danno vita, nelle sue diverse possibili “forme” (generi), allo spettacolo, alla rappresentazione: teatro di prosa, avanspettacolo o varietà, cinema, mimo, teatro musicato. “Un sottopalco”. Simbolo faticoso, oscuro e massiccio della teatralità, mostruoso, pesante meccanismo da cui tutto può nascere. Misterioso e crudele nella sua arida immensità.
Contrassegna la fredda materia da cui con fatica e rischio si cava il sangue dall’arte. “Teatro-macchina”.
Si contrappone alla levità aerea del “palcoscenico” vuoto. Il vuoto della partenza creativa, del dar vita alla poesia, dell’incarnare nell’interpretazione.
L’impenetrabile ermetico mistero del sipario chiuso che sprigiona, dischiudendosi, calore, tenerezza, fantasia, apparizioni: “il teatro poesia”. “Il sipario fondale” per La favola del figlio cambiato. Due lembi di un sipario di tela, cuciti insieme, con apertura simile ad una ferita, che un tempo fungeva da siparietto neutro. Colore grigio rosato, slavato da innumerevoli piogge e innumerevoli soli.
Povero e antico, con qualche sdrucitura ricucita con precisa arte, ma senza nascondere nulla, come gli strappi delle vele. Viene spiegato e sospeso ad una corda, con destrezza di acrobati, secondo un rituale automatico, ma non per questo meno pieno di inconscio amore. Tocca appena il suolo, si incurva lievemente al centro senza pieghe scomposte. E il ricalco piccolo e reale, gli stessi segni, del grande telone-villa della “scalogna”-sipario. Rarefazione quindi della scenografia lungo l’arco della commedia, nel senso di una progressiva purezza strutturale e pittorica, conseguente al progressivo scarnificarsi del linguaggio pirandelliano: dalle prime parole alle ultime “Ho paura, ho paura”, al significato gestico del “racconto finale” mimato, all’ultimo tragico silenzio.

I Giganti: forse l’unica vera grande commedia sul teatro.

        Una commedia che propone e ripropone la problematicità teatrale nelle sue varie possibili forme e riassume in fatto teatrale la vita stessa del teatro. Diario di teatralità. Diversi nuclei di teatro. Diversi piani di teatro. La “scalogna”, possibile schema di teatro, agnostico, fine a se stesso, avulso dalla realtà. Un teatro globale dove tutto avviene, inventato non per un pubblico, ma come puro gioco. (Viene in mente l’infantilismo del teatro, il “teatro-gioco” dei bambini; forse l’unico teatro serio; dimenticato e cancellato dall’abitudine, dalla pratica quotidiana del mestiere che appanna la fantasia, la capacità di inventare).
La “scalogna”, vista come teatro preesistente, in cui confluisce un bestiario strano di umanità rifiutata o allontanata dopo un rifiuto. Ciascuno per diversi motivi, per un diverso processo, secondo una gradazione, determinata dalle circostanze o dalla volontarietà. Non il mondo della follia o della morte (fantasmi), ma il regno della poesia (poesia-teatro), dell’innocenza, della purezza, che offre l’incanto positivo-negativo del “non impegno”.
Rinunciati, dunque, nella realizzazione, i valori plastici in favore di una disperata ma dolce rarefazione, ispirata ad una pittura metafisica, sulla scorta dei Carrà, dei Rosai, dei Sironi, al fine di far intuire il tessuto nazional-popolare, paesano e contadino e, al contempo, il mistero isolano ai limiti fra realtà e irrealtà… Conseguentemente gli “scalognati” dovrebbero risultare realistici, cioè “possibili” popolari, ma anche “eccezionali”, casi limite, invenzioni.

        Altro nucleo di teatro: “La compagnia dei comici”: che riassume e scompone i diversi aspetti della “teatralità”. Gli attori devono apparire realistici, identificabili, plausibili come classe, piccolo-borghese, inequivocabilmente riferibili ad una precisa categoria di mestiere. (Minima componente aristocratica per il conte). Di provenienze diverse: isolane, mitteleuropee, con leggere cadenze e inflessioni dialettali. Accusano i segni della deformazione professionale, ma non per questo debbono diventare maschere di attori, o evocare ruoli schematici. Tipi di teatro, uniti tutti dal decadimento e dalla pena, dal patetico che c’è sempre nel comico finito e allo stremo. I trucchi sfatti simboleggiano il mostruoso, il laido, l’osceno contro natura del teatro., ma al tempo stesso la sua terribilità, il suo misterioso, il gioco profondo del travestirsi in un altro, di essere altri, il dolore, la voluttà di non poter essere altro che altri.
Parlano il tipico linguaggio, un poco retorico, degli attori; il loro tono è penosamente e fintamente entusiasta. La squallida entrata d’inizio, suggerisce il rituale delle congratulazioni in “camerino” al termine dello spettacolo. Sorridono con occhi disperati, però ammiccano con gesti di piacere, baci sulla punta delle dita, mani che segnano l’aria, ostentano godimento artistico, abilità d’interlocutori. Moderata curiosità che confina con l’indifferenza. Egoismo appena mascherato da un rituale antico.
L’incontro tra i due gruppi deve apparire incommensurabile. I comici portano un peso di tensione, di disperazione, di lotta quotidiana, che urta contro il distacco, la pulizia, la tenerezza degli “scalognati”. “Il gioco di rifrazione nel teatro” di Pirandello è e deve risultare chiaro poeticamente. Non solo dialetticamente.

        La commedia si apre con un fatto teatrale: gli “scalognati”… “fanno” “i fantasmi”, quindi “teatro”, primitivo, elementare, “per i comici”. Poi i comici, “artisti della scena”, appaiono, uno dopo l’altro, sospesi su un altro palcoscenico, più alto del reale, che esalta la loro teatralità, e recitano teatro per gli “scalognati”. Il “carretto” di Ilse diventa, per fantasia, un ulteriore piccolo “palcoscenico” per la recita di un testo poetico.
Il pubblico dalla platea guarda così gli “scalognati”, che diventano pubblico per i comici, i quali a loro volta guardano Ilse. Il rapporto si preciserà ancora come “triplicazione formale” nell’azione mimata del finale: teatralità per gli altri, poesia offerta al rifiuto, all’indifferenza, nella rifrazione comici-pubblico/società-Giganti.
E ancora la recita si spezza e si rappresenta il dramma privato dei comici fra di loro.
La storia di un poeta morto per amore, il viaggio di Ilse e il conte… La scena deve essere pirandelliana in modo quasi eccessivo: contorcimento di frasi e di corpi, concerto di rapidità e di pena.

Lacerazione di una verità esibita impudicamente a spettacolo tra e per una collettività-pubblico.

Ecco allora la “triplicazione sostanziale”.
“Uomini”, che essendo “attori”, si comportano da attori, recitano la parte di attori nella vita (figurazioni di Ilse donna-attrice-madre). Contrasto stridente col mondo essenziale della “scalogna”. “Attori” che, in quanto tali, recitano, interpretano “personaggi” (Favola del figlio cambiato).
Esseri che danno corpo ad altre situazioni teatrali. “Dilaniandosi” reciprocamente: “teatro-vita”. “Mascherandosi”. Infiammati dalla scoperta di un fantastico trovarobato, cedono all’incanto del travestimento, proiettando inconsciamente sui costumi indossati la propria agognata realtà, l’amore puro, la sottomissione drammatica non più riconoscibile. Non sanno di amare il teatro proprio perché lo amano ancora. Si spiega così la funzione demistificatrice della “mascherata” come poetica proiezione di sé. “Teatro-carnevale”. E ancora “sognandosi” nei panni dei personaggi interpretati; vittime della sonnambula febbre teatrale che li danna e li condiziona. Duplicazione fisica dell’attore che resta “attaccato” alla “parte” contro la propria volontà.

Proiezione teatrale della coscienza. “Teatro onirico”.

        Nei due diversi mondi teatrali, proposti dalla commedia: la “scalogna” e la compagnia della Contessa, si riflette l’eterna tematica poesia-teatro, il rapporto dialettico “testo-rappresentazione”. Da un lato l’ideale pensato, il puro spirito scaturito dalla fantasia del poeta (Fantocci, Cotrone), “teatro puro” (letto), dall’altro la rappresentazione, come fase essenziale, determinante dell’opera teatrale (il teatro è tale in quanto lo si fa), come ragione, scelta di un “genere”; lo spettacolo, dunque, che implica la responsabilità dell’interprete, necessariamente condizionato dalle incertezze, dai rischi, dagli errori di valutazione e d’interpretazione (sia in eccesso che in difetto), e che resta comunque legato ad una realtà concreta di mezzi, di cose, di uomini, di pubblico. “Teatro rappresentato”. (Compagnia Ilse)
Ma oltre che offrire dialetticamente incarnata l’opposta ideologia sul teatro, Pirandello schematizza, nei personaggi di Ilse, Cromo, Cotrone, i “diversi modi” di “fare il teatro”, di essere in palcoscenico. “Ilse”: raffigura la missione, il martirio. Una lezione di purezza. Sganciata dalla contingenza, è votata ai valori dell’opera, che offre anche contro il pubblico (ma che pur sempre esiste), continuamente su di un palcoscenico, dal quale scenderà solo con la morte. “Teatro missione”. “Cromo”: potrebbe indicare tra le molte componenti l”onorato” mestiere trascinato quotidianamente.
La lezione del professionismo umile, faticoso, ingrato, che prescinde da ogni giudizio critico, ma che comporta un amore profondo e inconsapevole. “Teatro mestiere”. “Cotrone”: riassunto di tutte le possibili matrici del teatro. Non ultima la lezione di fede nelle possibilità della poesia. L’invito a credere come bambini nel gioco, negli artifici dell’arte, senza chiedere ragioni, senza definire… “Teatro pura invenzione”.

        E forse riflette, al contempo, la faccia speculativa del Pirandello classico, nel brillare assoluto delle contrapposizioni forma-sostanza, apparenza-verità, magia-realtà. Pur avendo rifiutato la battaglia per vivere volontariamente nella “scalogna”, sembra appartenere virtualmente alla compagnia dei comici, segnando così il limite d’ incontro, il punto di sutura drammatica tra i due mondi. Il finale non scritto dei Giganti offre forse la possibilità di far divenire un’opera, per tanti versi datata e ineluttabilmente legata a certe cadenze di stile tipiche ad un certo momento storico letterario italiano, qualcosa che ancora può appartenerci.
La serie di interrogativi, non risolti nei termini estremi, nemmeno dopo il trascorrere di tanta storia, proietta il senso di tutta l’avventura direttamente nel nostro stesso esistere contemporaneo. Non è infatti che il mondo dei Giganti stia alle nostre spalle. I Giganti sono ancora tra noi, dentro di noi, davanti a noi, in un perenne agguato fatto di mille tentazioni e prevaricazioni, agguati del sistema, dei comuni retaggi della vita quotidiana; talché la storia della fantasia, poesia-teatro dei poveri comici, teneramente, ciecamente e, diciamolo pure, astoricamente legati all’arte, come unica salvezza, è storia aperta.
E’ errata la risoluzione fantastica-anarchica di rifiuto degli “scalognati”, è insufficiente e per altri versi errata la lotta impari e quasi maniacale di Ilse e dei Comici, che testardamente, col sacrificio di sé consumato nella poesia, tentano di riformare il mondo; è errato e mostruoso, anche nell’incosciente innocenza della brutalità, il non capire, l’evadere, lo sprofondare nell’istinto, dei Giganti (schiavi ottusi ed anonimi di altri ancor più irraggiungibili Giganti), che soffoca e rinnega l’atto poetico. Come comunicare al pubblico contemporaneo, al di là delle parole non scritte, nel silenzio, la reciprocità delle sconfitte, i differenti gradi e stati dei diversi modi di essere?

“I Giganti vincono sempre. I Giganti perdono sempre”.

        Potrebbe essere la formula che inchioda il nucleo ideologico della commedia e che suggerisce la coerente soluzione al dramma incompiuto. Ilse rinuncia all’assoluto, al non essere, per combattere la sua battaglia in mezzo agli uomini, tra i Giganti. E i Giganti la uccideranno.
Non è un rifiuto cosciente, responsabile, positivo, ma la gelida indifferenza, l’assenteismo che ucciderà con Ilse la poesia. Lo schema teatrale Ilse-teatro/Giganti-pubblico rispecchia il rapporto poesia-società.
I Giganti siamo noi, in agguato nella vita di ogni giorno, ogni qual volta ci rifiutiamo alla poesia e, con la poesia, all’uomo.
Ecco il senso e la ragione della scelta di un testo che acquista nuova luce dal “contesto” storico nel quale ci muoviamo: una società che si lascia sempre più condizionare dalle proprie stesse strutture, una società che diviene ogni giorno più insensibile e refrattaria al richiamo dell’arte, e sembra quasi volersi rendere incapace di far poesia, di capire poesia, di amare la poesia.

Note inedite
Si alza il sipario di ferro del teatro. Materia spietata e rivela lentamente, mentre la musica viola fuori dal sipario appena si alza, da sotto, a filo delle tavole larghe di legno del palco, una scena tenue di verde spento che sale tra lerba argentea, rasa dalla luce del crepuscolo fino ad un magico volume, trasparente e misterioso al tempo stesso nella sua impenetrabilità di sipario chiuso.
A sinistra tra un lungo palo trattenuto da corde come le tende dei circhi. Una sedia di paglia gialla, Nel fondo il nero viola della notte che scende.
Un’Italia misteriosa e fonda e tenera al tempo stesso, inventata su temi e toni appena accennati di una pittura metafisica e reale al tempo stesso. Trasparenza di lanterna magica, paradisi dell’infanzia lontana, nel volume della casa. Una figura di donna vestita di nero, antica, seduta, con le mani sotto il mento, i gomiti sulle ginocchia, fissa il vuoto nella platea.
Più alto a destra una forma distesa nell’erba, supina, mani dietro la testa, guarda in alto. E una forma infantile, silenziosa ed immobile, più che una forma un volume. Forse un bambino.

Alto silenzio. Improvviso tramestio teatrale, piedi e fruscio di vestiti, un battito di mani ripetuto, qualche fischio tenue che avvicina, voce che chiama. Breve movimento delle due figure. La donna lentamente gira la testa verso la quinta. Appare inclinata sul busto, come l’apparizione di giocattolo. La testa del bambino, estatica e indefinibile.
Entra di corsa quasi a filo della ribalta, una corsa lieve ed affranta, una figura pallida, quasi evanescente, biondo, di capelli radi, viso pallido con grandi occhi sensitivi, indossa l’idea di un frac, con una piccola sciarpa violacea, pirandelliana, come quella del figliastro dei “Sei personaggi”, intorno al collo, un tono lontano ed ironico nella sua povertà che echeggia quello del personaggio borghese del teatro pirandelliano, degli amanti, degli attori giovani. Milordino: Gente a noi, gente a noi! Subito lampi, scrosci e la lingua verde, la lingua verde sul tetto!
Di colpo la scena si anima di suoni e movimento, tutti ancora in punta di piedi in una progressione tenera ed affannata.
La donna vestita di nero, raccoglie il suo scialle e corre verso l’alto gridando con un verso di gallinella smarrita, il bambino corre verso il basso incontro a Milordino che scruta con la mani in tasca, pallido, giù giù nel fondo della platea.
Non è un bambino, ma un nanetto, che indossa uno strano impreciso abito, forse festivo, da marinaio con scarpe da contadino, una maglia povera e grigia, un berretto sdrucito da uomo grande. I due seguono con lo sguardo un immaginario viaggio di gente che scorre nel fondo della platea, fino a sparire alla destra e continuare il viaggio prima in quinta, poi sul fondo della scena.
Da dietro la casa-sipario appaiono grandi ombre, lievi, che si muovono, si allontanano e si avvicinano. Avvicinandosi alla porta segnata sul sipario, si precisano in figure umane, nel fondo perdono i contorni reali.
Voci e richiami dall’interno del sipario con i personaggi sulla scena. Appaiono e spariscono rapidi dal taglio del sipario al centro, e dai lati altre figure: una donna enorme e tenera, con qualche lustrino antico sul vestito che ricorda qualcosa dei circhi e dei varietà di un tempo, un ombrellino di carta colorata, chiuso che poi si apre di celeste e d’acqua, sbiadito dal sole, manico d’avorio consumato.
Un vecchio lungo, magro, con grandi occhi azzurri, larghe mani tormentate che parla con una voce grave, solenne, da campana. Infine quella di un “mago” di paese; con l’occhio sognante e malizioso, vestito come un contadino e al tempo stesso, un prestigiatore di spettacoli d’arte varia per piccoli paesi.
Porta con sé la solitudine del creatore di fuochi artificiali dei paesi del sud. Gli mancano alcune dita e non può più fare incantesimi da varietà.
Biondo ingrigito, capelli a ciocche incolte, occhi azzurri, chiari. Qualcuno mentre parla e si affanna, spaurito porta fuori, trascinandola da un lato una vecchia macchina di teatro per fare il vento; un altro trascina lungo il palco in alto, correndo, una lunga catena che risuona sul legno, un altro scuote un bandone in uno scroscio di tuono. Ed escono strane scatole di latta, che mandano luce sulla facciata della casa, in ingenui colori rosso e verde e blu, illuminano, tenuti tra le mani, il corpo della donna enorme che cammina sul filo della ribalta con l’ombrellino a bilanciare come le equilibriste dei circhi, in un esercizio difficile.
Un lenzuolo fa da fantasma. Fiamme di carta velina agitate da fiati d’aria, alla sommità della casa ormai ondeggiante, nel movimento dei personaggi, si colorano, spariscono e si alzano.

Poi tutto si acqueta, nella sera più fonda.

Restano abbandonati gli oggetti di teatro sul palcoscenico in alto. Le lampade a terra davanti alla casa sipario, ora di nuovo immobile.
Sono tutti un poco “truccati e vestiti” come per una rappresentazione immaginaria: cappelli un poco più rigidi, cerone, occhi segnati appena, gesti, posizioni… parole e silenzi.
Per primo appare il caratterista Cromo. Appare, si ferma un attimo, poi scorge il gruppo degli scalognati, raccolto intorno al palo-circo, assume un atteggiamento di magnanima cordialità, come i comici usano quando si recano a trovare i colleghi, dopo uno spettacolo.
Si avvicina a Doccia e gli stringe calorosamente una mano, dopo aver deposto a terra le sue valige.
Sembra veramente entusiasta e sorride fino a destra e sinistra con piccoli cenni del capo d’approvazione. Cromo ä un imponente caratterista. Capelli grigi, con un ricordo di nero, pettinati all’indietro, a piccolissime onde che gli ricadono ai due lati della faccia come due ali grigiastre, spelacchiate. Adopera un pettinino fitto fitto che tiene nel taschino della giacca.
Grosso naso, perentorio, leggermente strabico, con gli occhi azzurri dietro le lenti spesse. Quando per necessità darte se le leva, il suo sguardo diventa vacuo, lontano ed egli assume allora unaria “severa, di uomo che sa e che ha un carattere. Sbatte le palpebre come uno strano uccello notturno accecato dalla luce.
Veste un abito stinto di aplagas grigio topo chiaro o di un indefinibile melanzana. Cravatta a farfalla, larga e con lelastico a pois. Scarpe doubleface, bicolori, marronenero o nere bianche, traforate.
Porta due valigie: una rettangolare grande e un necessaire in coppia. I due pezzi sono antidiluviani, vecchissimi, legati da uno spago, pieni di etichette stinte, ma multicolori, tricromie sul giallo e rosso e verde.
Attestano i suoi viaggi e soste attraverso tutta la penisola per innumerevoli anni. La Torre degli Asinelli per Bologna, le palme per Tripoli, il Rialto per Venezia, la Lanterna per Genova, la Mole Antonelliana per Torino, il Duomo per Milano, l’Arena per Verona e aranci per Palermo. Non sa di amare ancora il Teatro, perché lo ama ancora. Nonostante tutto. E ama Ilse e in Ilse il teatro e nel teatro Ilse. E lo odia per questo.
E il classico attore dalle inutili, stupide ribellioni che ricadono sempre nel nulla di una solitudine senza luce. Intanto lassù appare Battaglia: è una zitella grossa, coi capelli bianchi, le sopracciglia ancora nere con gambe lunghe da trampoliere. Indossa un impermeabile biancastro, con cintura, calzoni alla zuava, con calze chiare e scarpe forse di tela che gli danno una andatura ondeggiante. Porta un basco blu in testa.
Porta una piccola valigia necessaire di coccodrillo nero, vecchia e sformata, ma con un ricordo di antiche fortune. Parla con una voce talvolta querula, con toni infantili e vezzosi, come una bambina punita e in cerca di affetto o qualche altra volta con scoppi improvvisi di allegria e con risate tutte ritmate sulla i, come un nitrito lungo.
Ha talvolta dei toni dimessi, quasi a se stesso, con un senso di inutilità nella voce, come se non valesse la pena e sta lç rannicchiato, sulla valigia che lo obbliga ad una strana posizione accucciata da scimmietta. Una scimmietta triste, dagli occhi supplichevoli e dal viso avvizzito sotto le grosse sopracciglia. Forse ricorda un vago accento veneto, molle e cantilenante. Sospira ogni tanto con sospiri lunghi, fondi e guarda in alto con qualche gesto di: è andata così, cosa vuoi farci.
E maldicente, butta battute brevi nei discorsi degli altri, ma senza vera malizia, per non isolarsi, per non sentirsi escluso. E ha incanti segreti, dolori segreti, smarrimenti segreti, trasalimenti veri che nessuno gli riconosce che nemmeno lui riconosce a se stesso.
Fa il suggeritore e recita parti da uomo e da donna. I suoi travestimenti femminili come vicina e come sgualdrina sono laidi. Nell’una parte sembra una vecchia con uno scialle intorno al capo e al viso tenuto stretto con una mano ed il viso che appare contornato dal nero, è quello di un’impudica donnona, con la bocca amara e gli occhi involontariamente maliziosi.
Nell’altra è un’oscena caricatura di una sgualdrina da cabaret, con lustrini e calze di seta opache, sui tacchi a punta di scarpine di vernice, parrucca nera di crespo e trucco dalle labbra rosse vermiglio, occhioni blu, cerchiati e fondi e mossuzze penose di femmina che danza abbracciata ad un marinaio.
Quando piangerà il trucco sarà sfatto sul suo viso e ne apparirà tutto il mostruoso, il laido, l’osceno contro natura del teatro, ma al tempo stesso la sua terribilità, il suo misterioso, il gioco profondo del travestirsi in un altro, di essere altri, il dolore e la vergogna e la voluttà di non poter essere altro che altri.
Terzo è il Conte: magro e alto, biondo, con i capelli pettinati all’indietro, occhi azzurri, una leggera peluria sul mento. Mani delicate.
Indossa un abito di tela biancastra che ha conosciuto tempi migliori. L’abito è di ottimo taglio, ma ora come slavato, ricade sulle spalle, tristemente e sulle scarpe. Camicia bianca pulita e sdrucita, con rammendi sul collo. Cravatta nera sottile, sottile. Forse le basette un poco più lunghe del normale. Un panama per qualche attimo in testa gli dà un tono da attor giovane del cinema muto, qualcosa tra Rodolfo Valentino e Nils Aster, poi se lo leva subito e lo mette arrotolato nella tasca sformata della giacca. Ha l’abitudine a farlo. parla con voce modulata e piana, a bassa voce in mezzo alla troupe che grida come ossessiva, stridula e contorta, quasi un sussurro con le consonanti strette in mezzo ai denti.
Muove le mani con rapidità senza eccedere però nel gesticolare insulare. Ha un anello patrizio al dito mignolo. Scarpe nere, impolverate. Anche l’abito, la sacca sportiva ampia che porta, è coperta di polvere bianca. Con colpi lievi egli la fa uscire dalle maniche, dai pantaloni in volute candide. Cè un che di penoso e patetico nel suo continuo ripulirsi, assettarsi, togliersi di dosso quella traccia di mille strade maestre e di campagna che segnano ormai la sua vita decaduta. Spesso stringe tra le mani un fazzoletto appallottolato col quale si asciuga un immaginario sudore sul labbro superiore e sulle tempie. Si stringe spesso le mani una nell’altra.
Dietro di lui sta Diamante, la seconda donna: alta, magra, ossuta. Di lei si dice o si diceva che aveva una bella figura. Il viso cavallino, la fronte alta, sensitiva, sopracciglia folte, naso marcato. Un insieme di durezza e di fonda dolcezza che non sa apparire. Gli occhi sono grandi e femminili. Il resto stranamente ed equivocamente virile. Ha una bella voce, amara e polemica per nascondere dolore e tenerezza.
Indossa un tailleur chiaro, con la gonna piuttosto lunga. In testa un feltro a cloche che si stacca dal colore del vestito, calze fitte, scarpe sportive col tacco consumato, scarpe da caloche, tipo inglese, al collo sotto la giacca del tailleur un tocco femminile, un poco da zitella, fichu, o sciarpetta di velo color tenero con un cammeo o spilla (non camicia e cravatta). Guanti di pelle scuri, con bottone automatico. Naturalmente ha una camicetta sotto la giacca che qualche volta si sbottona e abbottona con un gesto nervoso. Mette le mani sui fianchi sotto la giacca spesso. porta una valigia scura, piuttosto grande che la sbilancia, per il peso. Ha gesti nervosi, ma con una certa grazia. Traspare da tutto il suo essere un disperato amore per il Conte, che non confessa di provare nemmeno a se stessa.
Sono questi i comici che scendono verso il gruppo degli scalognati a sinistra. Il loro tono è penosamente e fintamente entusiasta.
Fanno congratulazioni, sorridono con occhi disperati però ammiccano con gesti di piacere, baci sulla punta delle dita, mani che segnano nell’aria godimento artistico, abilità dell’interlocutore. Ma in fondo si guardano attorno con sbigottimento e paura e per gli scalognati moderata curiosità che confina con l’indifferenza. Egoismo appena mascherato da un rituale antico. L’incontro tra i due gruppi deve apparire come quasi incommensurabile.
Gli uni cercano di capire gli altri (i comici non capiscono assolutamente nulla degli scalognati, pensano solo al dormire, al mangiare, al teatro dove recitare. I comici devono portare un peso di tensione, di disperazione, di lotta quotidiana che urta contro il distacco tenero degli scalognati.
Poi si sentono le voci dell’altro gruppo dei comici col carretto. I comici entrati per primi corrono verso lalto a destra e guardano verso il basso con le spalle voltate al pubblico. Gli scalognati restano a sinistra. I due gruppi si contrappongono ancora.
Appare il carretto con Spizzi, Lumachi e Sacerdote e nel carretto la forma distesa di Ilse, un leggero mucchio di velo violaceo, su cui spicca il rosso dei capelli. Spizzi è l’attor giovane. Tipo italico, nero di capelli, occhi ardenti, bocca segnata e carnosa, con un che di beffardo senza volerlo, denti forti, piuttosto animaleschi, segno lieve della barba sotto la pelle chiara, pettinato all’indietro con capelli in fondo romantici. Indossa un abito “sportivo” a due pezzi.

I giganti della montagna – 1993-94

Andrea Jonasson - I giganti della montagna, 1993
Andrea Jonasson – I giganti della montagna, 1993

Appunti di regia 1994

Appunti sulla terza edizione dello spettacolo
regia: Giorgio Strehler
scene: Ezio Frigerio
costumi: Luisa Spinatelli
musiche: Fiorenzo Carpi
maschere: Luisa Spinatelli

Note sparse sulla terza edizione dello spettacolo I giganti della montagna

        I giganti vincono sempre I giganti perdono sempre. C’è un tema profondo, ricorrente nella grande cultura greca-europea il tema dei Giganti mitici che vogliono impadronirsi del potere celeste, universale. E vengono sconfitti, quando sembrano avere vinto.
Questo tema dei Giganti è profondamente radicato nel cuore europeo. Pirandello nella sua ultima opera incompiuta lo esemplifica con il Teatro e la Poesia, lo innesta in una problematica che prende l’aspetto della Rappresentazione.
Due mondi: gli Scalognati, fuori della realtà perché si credono altri di quelli che sono e perché la “società normale” non li vuole. I Comici, fuori della realtà perché “attori” e perché la realtà del pubblico non vuole accettare il loro messaggio, l’opera poetica che recitano. I due mondi si incontrano in una villa metafisica, un luogo non luogo, dove realtà e sogno si confondono. Ma ad Ilse, l’Attrice che brucia di teatro, non basta. Il Teatro e la sua Poesia devono essere dati al Mondo della Realtà. Non restare sogno. E fuori dal Sogno ormai la Realtà è quella dei Giganti e dei loro servitori, gente che si è ottusa, che ha dimenticato il cuore, la bellezza. Gente che lavora per costruire cosa, scavare, consumare. Ilse con il suo tragico e meraviglioso errore, obbliga la sua Compagnia, il Teatro, a recitare proprio là, davanti a Giganti invisibili e presenti. Crotone, il Mago del Sogno, avverte però che “là”, egli non può salvare Ilse. Ed Ilse viene uccisa dal pubblico dei piccoli Giganti (i grandi forse sono altrove, forse non sanno nemmeno più che il teatro esiste) che sentono la Poesia come una provocazione. I Comici se ne vanno con Ilse morta affranti ma anche liberati.
Nell’epoca dei Giganti è “umano” adeguarsi, non dare più messaggi, restare dei pagliacci che fanno ridere e niente altro. Il corteo funebre nella platea non può non segnare che una sconfitta ed un’accusa. Il Piccolo Teatro rappresenta nellanno 1994 per la terza volta una nuova edizione dei Giganti della montagna di Pirandello.

La prima ha avuto luogo nel 1947: come un presentimento.
La seconda nel 1966: come un timore che nonostante tanta “rivoluzione” giovanile intorno, il cammino della società degli uomini verso l’abbandono di alti ideali e valori, fosse accelerato e quasi ineluttabile.
La terza, questa: come una tragica contestazione che i Giganti hanno vinto e che ci hanno, consapevoli o inconsapevoli, travolti, che non siamo più gli stessi, che stiamo precipitando.

Noi siamo, oggi, diventati anche noi, figli e servi dei Giganti misteriosi che guidano la nostra vita in un crepuscolo dell’anima sempre più universale. La metafora del Teatro e della Poesia è diventata qualcosa di più. Davanti al pubblico di oggi, noi attori, come quelli della Favola davanti al pubblico dei Giganti, dobbiamo soltanto sparire e lasciare un vuoto e un alto silenzio.

Forse è proprio da questo ultimo sacrificio, dal brivido degli spettatori, lasciati soli in un teatro semi buio dalle povere luci vacillanti che può nascere un sussulto, una domanda, un breve ma profondo ripensamento sul nostro destino umano. Non si tratta di “rifare” per chissà quale inesistente comodità, uno spettacolo di un lontano passato. Ma di riaffermare, ancora più tragicamente di sempre con uno spettacolo di oggi, il grande smarrimento che ci circonda. Una sola speranza: i Giganti hanno vinto sempre. E sempre hanno perso, nel mito e nella storia. L’uomo non si è ancora definitivamente perduto. I giganti della montagna rappresentano nel “mio” teatro un antico amore. Il copione, dalle pagine leggere e gualcite, dove ritrovo segni misteriosi, indicazioni di cui non rintraccio più il senso, il frego rosso dei sipari indicato dal suggeritore, porta il numero 5 sulla copertina. Il che mi ricorda che è stato, nel 1947, il quinto spettacolo del Piccolo Teatro.

Tra quel numero e oggi: una vita, una storia intera di teatro.

Ritornare a questo testo, quasi alla fine di una parabola, mentre si addensano dentro e fuori di me, nuovi temi, nuove urgenze, lampeggiamenti di perplessità, e anche ineluttabili chiarezze, può sembrare soltanto un’attitudine della memoria, un gesto affettuoso verso se stessi, verso una disperata coerenza in un mondo che si sfalda, si contraddice, si rinnega ad ogni attimo. Ma non lo è.

O, almeno, lo è solo in parte, da un punto di vista più segreto ed affettivo.

Altre volte, dopo di allora, mi sono trovato a confrontarmi con attori anche stranieri, con il tema dei giganti. E ogni volta sono stato mosso dal tentativo di entrare più profondamente dentro quest’opera misteriosa, come sono misteriose tutte le opere ultime dei Grandi Vecchi, lasciate come un riassunto – che è al tempo stesso un’apertura per il domani – dai drammaturghi – poeti al limite della loro vita.

E’ straordinaria la carica “magica” che le tempeste dei drammaturghi poeti, portano dentro, nel tempo. Una specie d’irradiazione, di cui non si sa spiegare la natura, pervade certe pagine dell’ultimo teatro dei grandi drammaturghi alle soglie della morte o della follia: succede a I giganti della montagna, rimasti addirittura incompiuti eppure perfettamente compiuti nella loro parabola.

Un testo nel quale l’ultima parola scritta è una battuta d’angoscia gridata dai comici: “ho paura”, al precipitare dei giganti in marcia al di là delle precarie mura della Villa della Scalogna. Nel ricreare, oggi, questo testo ho tentato per prima cosa, di lasciare ai Giganti il suo limite di mistero da non violare: un barlume, un lampo abbacinato, un suono teso. Ma non un incubo mitteleuropeo, come forse verrebbe fatto di pensare e come, del resto, io stesso ho lasciato talvolta che avvenisse. Semmai un lucido sogno metafisico, tutto nostro, italico, con il suo fondo di favola popolare, di credenze antiche, che diventa anche, talvolta, favola, mito. Qui si tratta del mito ultimo, quello della poesia, meglio ancora dell’arte, in assoluto.

E per Pirandello è il teatro che incarna la poesia, il mistero dell’arte, meglio che ogni altra “forma”. Da qui l’avventura dei Comici e degli Scalognati.

Ma chi sono gli Scalognati se non l’incarnazione di un altro modo di fare teatro, più puro: perché se stessi?

Un nano che vuole credersi bambino, una vecchina che vuole credersi morta, una donna cannone che vuole credersi leggera come una ballerina sul filo, un mago che vuole credersi mago, un vecchio mendicante che a forza di tendere la mano, di essere respinto, si ritrova insieme agli altri, ai margini della vita.

E i comici che recitano per gli altri più che per se stessi, a forza di recitare una favola che nessun pubblico vuole accettare, trascinati da Ilse, “attrice” assoluta, anch’essi finiscono per essere “dimessi” dalla realtà, per trovarsi “fuori” della vita, ai piedi dell’immaginaria o reale – come si vuole – Villa della Scalogna, dove vivono Cotrone ed i suoi Scalognati. Due mondi che entrano in contatto in un’aura sospesa dove ogni cosa è possibile.

Siamo nell’assoluto, tutto qui si pacifica, tutto si accetta, tutto è creduto, tutto è valido e vero.

Qui i comici potranno recitare la loro favola ed essere capiti. Addirittura nasceranno dal nulla, diretta invenzione del poeta, i personaggi mancanti e ormai non più recitati dalla piccola compagnia, dai resti, dice un comico, di quella che fu una gran compagnia.

E’ a questo punto che avviene il gesto definitivo di Ilse. Forse nella drammaturgia della “rappresentazione” o del “teatro nel teatro” di Pirandello, il dramma più “teatrale” di tutti è I giganti della montagna. Mito dell’arte che si rappresenta simbolicamente nel “teatro”, nel testo di teatro-poesia, negli attori che lo “rappresentano”, nel pubblico che non laccetta o l’accetta con tentennamenti. Mito dell’arte che si rappresenta simbolicamente nella fantasia degli Scalognati. Fantasia che si realizza nella volontà o capacità tenacissima di “inventarsi” una situazione teatrale quasi solo per sé. Gli altri non devono “divertirsi”, capire o altro, basterebbe che “accettassero la fantasia-follia”.

Teatro degli Scalognati perché questi ultimi non devono abdicare alla vita e vivere il loro teatro pensato, inventato, anche in mezzo agli altri.

Gli Scalognati tra di loro si accettano, accettano il teatro di ciascuno (il nano che dice di essere bambino, la vecchina che dice di essere morta sono degli esempi precisi).Arrivano gli attori. Ilse incomincia a recitare la Favola del figlio cambiato davanti agli Scalognati, come in un delirio. Gli attori aiutano la recita di Ilse che s’interrompe subito.

E subito questi attori, come su di un palcoscenico, davanti agli Scalognati, gridano la loro passione (il loro teatro privato, la loro vita privata, gli amori, le pene, i rimorsi, persino le loro storie private), recitano impudicamente il loro dramma (come in un certo senso potevano farlo i Sei personaggi di fronte agli attori ignari). Ostentano, insomma, il proprio dramma davanti ad altri. Non è anche questo fare “teatro”?

Poi gli Scalognati recitano il loro “teatro” per gli attori: la vecchina racconta la sua morte, Duccio, in parte la sua storia, Cotrone quasi tutta la sua, il nano Quaqueo balla sui tasti dell’organo come un gatto. Poi i comici riappaiono vestiti “da teatro”;, con costumi teatrali che hanno indossato quasi senza saperlo, cioè non con la “coscienza” degli attori professionisti.

E quasi s’incantano e si meravigliano di averlo fatto, di questo mascheramento di teatro. In un secondo momento l’arsenale delle apparizioni è un teatro in formazione, dove si accumulano le “apparizioni” di teatro in genere, in particolare i fantocci della Favola del figlio cambiato.

Qui entrano, come in un sogno, Ilse e il Conte e rappresentano involontariamente e inconsciamente una parete del loro dramma di reciproca incomprensione, con implicazioni sentimentali e persino sessuali, davanti ai fantocci immobili. Dopo di loro entrano, come in trance, Diamante e Cromo, trasformati in due personaggi diversi della Favola del figlio cambiato dai due diversi costumi che indossano.

Entra Battaglia, vestito da donna, da sgualdrinella. I Fantocci e i sogni dei comici si mescolano in una rappresentazione teatrale parafrasando il ballo del caffè della Favola. Spizzi, in sogno, s’impicca davanti ai sogni dei compagni e ai fantocci. E come una specie di prova generale della Favola del figlio cambiato e, dove i personaggi mancanti della rappresentazione nascono dal nulla.

Questa prova generale ha il suo doppio nell’epilogo senza parole nel quale i comici recitano davanti ai Giganti e Ilse viene uccisa, sul quale s’innesta un’altra rappresentazione, nella quale i comici “recitano” il dramma del loro dolore e il funerale di Ilse. Il finale di I giganti della montagna, è un vero e proprio prisma di situazioni teatrali, uno spasimo di teatralità.

Un “tutto teatro”, un tutto recita teatrale. Gli uni per gli altri.

Come farlo sentire al pubblico contemporaneo? Come, al di là delle parole che non esistono, “comunicare” in silenzio la reciprocità delle sconfitte?

I comici dovrebbero far vedere oltre la tenerezza degli oggetti, del trucco, l’amore delle cose, la pena dei costumi vecchi, del mascherarsi ogni sera, del portare avanti, penosamente, una “missione” senza quasi saperne il perché. Ma anche la testardaggine imposta o subita, quel tanto di egotismo di sentirsi i fulcri del mondo. Per Ilse la capacità di riformare il mondo con il suo dire poesia, ecc.

I giganti non si vedono, ma condizionano i servi che assistono alla rappresentazione, ma che non capiscono e che, a loro volta, fisicamente non si vedono, perché, per Pirandello, stanno “al di là del tendone”?

Gli Scalognati: che sono impotenti e non muovono un dito, non possono “farlo” nella vita?

Ma senza caricare di troppi significati l’azione muta finale, che è la peggior cosa.

Lettera ad Andrea Jonasson

Lettera all’attrice, protagonista dei Giganti della montagna nell’edizione del 1994, sul ruolo di Ilse da lei interpretato

Povera mia piccola, sempre piccola nel bene e nel peggio!
Che grande battaglia hai vinto contro te stessa. E come sei cresciuta, giorno per giorno! Ora puoi essere tranquilla. Basta che tu non abbia troppa paura. Per il resto il tuo teatro – dentro – ti guiderà.
Semplice, dolente, piena di tremore e coraggiosa. Qua e là, certo, un poco ingiusta e tesa e disperata.
Ilse1 non è “perfetta”. È una povera cosa umana che però crede nella grande luce e brucia. Tutto qui.
E “soffri”! Come, ridendo, ci diciamo sempre. Quella “dubita” e non sa. Questa “soffre” e ha la missione. Il teatro, sai, alla fine è una cosa semplice, primitiva, ingenua.
Grazie per tutto il tuo bene. Non ti ho aiutato abbastanza. Ma solo tu hai un lume per sapere quanto è stato ed è per me, duro.
Un bacio lungo
Giorgio

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