Elegie Renane non comprese nella raccolta del 1895


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Elegie Renane non comprese nella raccolta del 1895

Elegie Renane non comprese nella raccolta del 1895

Poi che venir su queste, d’umane sembianze vestita,
brume ti piacque, bella oltra le belle, o Dea,

(rifulsero si come a un romper di sole improvviso,
le nevi a l’animosa luce che t’orna il volto)

porgimi, pace mia, la candida mano e impalmati questo,
che non s’aggiorna, gravato aer fuggiamo.

Vogli il cammin dolente, che l’anima grave conduce
ove non è salute, chiuder per sempre, o Dea.

Squallido pian di lotte si stende a me dietro il passato:
da lungi a la memoria fiore non ride in lui.

Nebbie ho dinanzi, e cieco tra esse pur fosco m’aggiro,
fêsso il cor dentro da inartigliati affetti.

Scorgimi al ver tu ora per destro ed agevol sentiero,
e scuoti l’ombra in torno de la mia triste vita.

Attorci in lunga treccia i fini odorati capelli,.
e un dolce nodo fammene al collo, o Dea.

Il tuo respir respiri, sorrida i tuoi schietti sorrisi,
parli le tue parole, tutto in Te accolto, o Dea.

E volti sempre dove luce nitido il sole d’amore,
quanto è la vita, tempo da gioir sia per noi.

Pubblicata in Vita Nuova, periodico settimanale di letteratura, d’arte e di filosofia, anno II, n. 8, Firenze, 23 febbraio 1890, col titolo: Elegie boreali, XXIV.

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Venisti, e di luce rifulse improvvisa la stanza
ov’io, straniero, solo tra libri vivo.

Ero su l’ode nona d’Orazio, e la fiamma di tizzi
crescendo, il savio avviso seguiane – a Taliarco.

Tu sole sei, tu luce sei, tu aria, tu vita,
ove tu sei la vera patria è quella.

Urli di fuori il vento, precipiti un mare dal cielo:
Tu meco sei, pace sincera mia.

Sognai sempre, sdegnando le voglie piú vane, gli affetti
d’un’ora vili, gli odî tenaci e l’ire,

ne l’onda d’amore, il sano de l’essere oblio
vare, e pago, finir la vita in lei.

Questa e la seguente elegia furono pubblicate in Psiche, «rivista quindicinale illustrata d’arte e letteratura», anno VI, n. 21, Palermo 16 settembre 1890, col titolo: Elegie boreali, IX e XIV.

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Bizzarro in vero questo dei nostri convegni ridotto,
Giovanni Sambo: la cupola d’un duomo.

I santi che il vostro sottil pazïente lavoro
di quella, che a voi toglie, anima eterna accresce,

ascoltan benigni noi lieti de l’arte evocanti,
propizio il nostro sole, gl’imperituri lustri.

Sono le sacre mura dei templi cristiani a parlare,
Sambo, adusate simili in tutto ai nostri:

In lor rinacque umana nostr’arte, e d’Italia è ben vanto;
in loro a Dio si disse: «Sei Dio perché sei uomo».

E il cupo sepper volto del dio Buonarroti e gli sdegni,
seppero i sorrisi del Sanzio e gli amori.

Lontani, a voi tra breve, dai lidi del Reno sonanti,
ne avremo, io dico, dolce memoria un giorno.

Ricorderemo (gli anni m’avran forse in petto domato
questo inquíeto spirito di ventura)

io da la mia Sicilia, bel fior fra tre mari sbocciato,
Voi da Venezia, Venere adriatica.

V. la nota precedente. Giovanni Sambo era un mosaicista veneto, che lavorava in quel tempo nella cattedrale di Bonn.

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Lancia a scabre roccie la fune su ‘l monte fatale,
giovin gagliardo, e fermo l’occhio a la vetta, sali.

Ampi e liberi a te chiede cieli il superbo desio;
fuor de le tristi mura, l’anima luce chiede.

Torbido a piè del monte, con murmure sordo increscioso,
cola de l’ima vita l’irrefrenabil fiume.

Pigra sovr’esso e densa si stende la nebbia, e il gravato
aer di vani mostri popola e di paure.

In alto o prode, in alto! val meglio ne l’alto perire,
che giú, nel torbo fiume, tra le nebbie, affogare.

Sveglia al tuo capo intorno sonni d’aquile e gridi animosi;
ascolta dei sublimi venti la piena voce.

Ciò che nel sen chiudesti, là in basso, nessuno mai seppe;
or qui, coi cieli azzurri, spazia felice e ride.

Ride a la bionda luce, che palpita e freme diffusa;
ride a la pace e guarda fidente l’avvenire.

Oda or la grigia terra da l’alto i tuoi nunzî sonare:
contra il nascente sole tu solo, o prode, stai.

Pubblicato in Cronaca d’Arte, Milano, 1° marzo 1891, col titolo: Elegia boreale.

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Meco ti lagni e piangi che ancora tua madre all’amore,
stolida, pensi e l’aspre gote si tinga e il crine.

Vedova ahimè per tempo la povera donna rimase:
or l’amor nostro l’uzzolo attizza in lei.

Arido il sen, ma dentro chi sa non sia desto davvero
di dolce voglia, giovine il cor tuttora?

Lasciala al caro inganno, o arcigna custode a le spalle
l’avremo sempre: liberi un’ora sola

piú non saremmo. Fallo si giudica spesso negli altri
quello che piú non sembra lecito a noi di fare.

Pubblicata nell’Ariel, Roma, anno I, N. 4, 8 gennaio 1898 («Elegie renane II»), quindi nella Nuova Antologia, 1° dicembre 1934, col titolo redazionale: Fuoco d’inverno.

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Quando piú del solito aspra suonami questa
lingua, su le mie stesse labbra, nonché d’altrui;

quando piú del solito ispidi sembrami attorno
gotici templi e case, uomini e cose; via

via fuor de le mura men fuggo a l’aperta campagna,
dove, lontano e solo, fingermi in patria posso.

Zolle pur qua, fili d’erba, alberi, pace
come nei campi miei; vedo scherzar con l’erbe

l’aura, svolar farfalle, odo uccelli cantare;
e in patria mi sento. Una di tutti sei,

Terra che gli uomini accogli, tra loro fratelli e nemici,
e né di patrie tu né di confini sai.

Inedita. Trovata tra le carte dell’autore, dattilografata e contrassegnata col numero romano X.

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Del forestier che ancora il sol della patria ha negli occhi

e oppresso qui dalla natura ingrata

vive solingo al fuoco, udendo attraverso la gola
fumida del camino gemer continuo il vento,

tenera e premurosa, tu cura ti prendi fraterna:
l’ore con lui dividi, tacite sieno o gaje.

Cuci, mentr’egli scrive. Dai candidi lini e dal foglio
levansi e si sorridon gli occhi di tratto in tratto.

Giú per la scala di legno, furtiva a lui scendi la notte.
Tremi e nel pronto amplesso soffochi la paura.

Ei nell’attesa il bujo paventa, che attorno, anelando,
ispido di rimorso, gelido e reo lo senta.

Teco la vita viene, a cui non sa chiuder le braccia,
egli, per quanto questo pungolo interno senta.

Come potrebbe dirti: «Ritorna al tuo gelido letto»,
se tu la gioja delle fiorenti membra

vieni a portargli e scendi a lui che t’aspetta, volente?
se quest’amor per te piú d’ogni cosa vale?

Non ei promessa alcuna t’ha fatta. E pur pensa: «Domani,
se quest’amore spezzo, che avverrà mai di lei?»

Già ti vede perduta, e interroga i cogniti luoghi,
quale, per te diserta, funebre aspetto avranno.

Pubblicata nell’Ariel, Roma, anno I, N. 4, 8 gennaio 1898 («Elegie renane I»). È riprodotto qui il testo ritrovato tra le carte dell’autore, dattilografato e contrassegnato col numero romano XI.

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Mentre del sol le parlo d’Italia, i cari occhi socchiude

Languida, e su le membra par che il ristor ne senta.

Vede attraverso le mie colorite parole i tre mari,
vede città ridenti, vede campagne e piagge.

Godo cosí, sospesa, smarrita lontano, su l’ali
della mia visïone l’anima sua guidare.

Poi d’un tratto (son io pure Italia per lei)
qua con un grido e un bacio, trepida la richiamo [8].

Pubblicata nell’Ariel, Roma, anno I, N. 4, 8 gennaio 1898 («Elegie renane III»). È riprodotto qui il testo ritrovato tra le carte dell’autore, dattilografato e contrassegnato col numero romano XII.


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