Una monografia complessiva sull’opera di Pirandello, di taglio saggistico e di impostazione ermeneutica, posta al confine fra letteratura, filosofia e teologia, in una diacronia intimamente tesa al racconto, alla scrittura rigorosa ma costantemente attenta al lettore comune e appassionato.
Antonio Sichera
«Ecce Homo!». Nomi, cifre e figure di Pirandello
Casa Editrice Leo S. Olschki – 2005 – pp. 492
Collana Polinnia Vol. 12
Prezzo di copertina, Euro 50,00
Una monografia complessiva sull’opera di Pirandello, di taglio saggistico e di impostazione ermeneutica, posta al confine fra letteratura, filosofia e teologia, in una diacronia intimamente tesa al racconto, alla scrittura rigorosa ma costantemente attenta al lettore comune e appassionato. Un libro che mira a dire una parola libera e nuova su Pirandello, discepolo della grande tradizione occidentale ma soprattutto autore di un’opera immensa, centrata e come ‘generata’ dall’icona del Cristo sofferente, tipica della tradizione popolare siciliana.
Recensione di Ivan Pupo
da LIBRAweb
Ideale continuazione dell’indagine svolta da Artioli sulla presenza dell’immaginario cristiano nell’opera di Pirandello, l’imponente libro di Antonio Sichera ne eredita almeno in parte l’osservatorio e gli obiettivi, oltre che gli strumenti ermeneutici più ricorrenti (gli studi di numerologia e di onomastica, evidenziati già nel sottotitolo), ma si conquista una sua specificità in quanto sistematica rassegna di tutte le occorrenze dell’icona cristologica per eccellenza, quella del Cristo sofferente della passio, nel macrotesto dello scrittore agrigentino.
Nel primo capitolo Sichera si sofferma sulle poesie, sui saggi e sulle novelle giovanili. In Arte e coscienza d’oggi la memoria del Crocifisso si salda ad un’immagine shakespeariana, quella di re Lear privato del regno e con un copricapo di erbe spinose al posto della corona, urlante, sullo sfondo di una natura tempestosa, la sua disperazione di re scoronato. Per il critico quest’ultima figura (di bachtiniana memoria) e quella dell’Ecce Homo, alternandosi e spesso sovrapponendosi, ripresentandosi con cadenze ossessive, ubbidiscono nella scrittura pirandelliana alla stessa funzione, quella di rappresentare la condizione dolorosa dell’uomo moderno, spossessato dell’Eden e ‘caduto’ in un mondo dominato dall’angoscia e dal disincanto. Suggestioni letterarie che diramano da Pascal (il «roi dépossédé» dei Pensieri) e da Dostoevskij (il Marmelàdov di Delitto e castigo), oltre che dall’iconografia della religiosità popolare siciliana (si pensi alle processioni nella Sagra e in Questa sera si recita a soggetto), collaborano a radicare le due icone nella fantasia dell’agrigentino, a giustificarne la proliferazione in tutta l’opera. Ma si può stare dentro la modernità, senza sapere di essere dei re spodestati o dei Cristi in croce, con l’illusione di vivere un’esperienza di vera regalità, da imperatori inutilmente «impegnati nella costruzione di una sorta di surrogato dell’Eden». Sichera ricostruisce le «storie di caduta dal falso impero del moderno» in alcune novelle, in La ricca e in La levata del sole, dove i nomi dei protagonisti, rispettivamente Giulia e Augusto, veicolano l’appartenenza alla (falsa) stirpe imperiale.
Nel capitolo dedicato all’Esclusa l’interesse numerologico si impone fin da subito, intrecciandosi allo scavo nell’onomastica. Il pater familias dei Pentagora, cognome storpiato in una pagina del romanzo in «Pentàgono», si pone sotto il «segno di quel ‘cinque’ che nell’aritmologia pirandelliana è cifra insistente connessa alla sfera economica». Contando i personaggi che di volta in volta occupano la scena, distinguendo nel palazzo dei Pentagora tra piani abitati e piani sfitti, studiando il ritmo delle sequenze narrative, Sichera conclude che il romanzo può considerarsi la «storia di un approdo impossibile alla quiete del quattro» (alla perfezione della tetrade pitagorica), la storia di una «tensione alla stabilità edenica […] mai davvero realizzabile in seno alla modernità emergente». Per corroborare l’assunto Sichera pone l’accento sul fallito tentativo di Anna Veronica, modellata sull’evangelica donna della vera icon, di reintegrare Marta nel cosmo edenico e materno delle «pie donne» di casa Ajala. La protagonista del romanzo si lascia infatti attrarre nell’orbita degli «uomini novi» (per dirla con un’espressione tratta da Mal giocondo), prima inseguendo a Palermo, sulla scia paterna, il miraggio di una «modernità edenica» (surrogato dell’armonia antica), poi, all’indomani del cedimento adulterino, sposando (anche se solo in modo parziale) la strategia autoassolutoria di Gregorio Alvignani.
Nel Turno le figure di imperatori inattuali e perciò destinati al fallimento sono Marcantonio Ravì, animato dall’«ambiziosissimo progetto di controllo e di strumentalizzazione della morte» e Ciro Coppa, colui che nel suo delirio di onnipotenza vorrebbe «bloccare […] l’avanzata di thànatos». Anche in questo caso «l’onomastica interviene a sostegno dell’interpretazione » dello studioso. Nel caso di Ciro il recupero della romanità imperiale si salda alla valorizzazione di puntuali corrispondenze tra il romanzo pirandelliano da un lato e le storie del re persiano nella Bibbia e nella Ciropedia di Senofonte dall’altro. Nell’epilogo del Turno la tradizione edenica si impone, secondo Sichera, sul progetto moderno degli aspiranti imperatori: alla veglia funebre di Ciro un rinsavito Marcantonio accetta l’imprevedibile che è nella vita, nel momento stesso in cui Pepé Alletto matura la scelta di farsi padre adottivo sotto l’egida della memoria di Filomena, «colei che testimonia con purezza nel romanzo la presenza dell’Eden ».
Al centro del capitolo dedicato al Fu Mattia Pascal, uno dei più stimolanti del libro, Sichera richiama l’attenzione sul fitto dialogo intertestuale della scrittura pirandelliana con Pascal e Montaigne, per lo più sotterraneo ma con «improvvisi riferimenti puntuali», non necessariamente mediato da Leopardi. La ricerca condotta sulla presenza di Blaise nel romanzo del 1904 approda a risultati indubbiamente innovativi. Oltre che nel cognome del protagonista e nel dialogo tra don Eligio e Mattia incentrato sul tema della «distrazione provvidenziale», l’eredità pascaliana è infatti rintracciata in altri aspetti del romanzo apparentemente marginali: nel soprannome affibbiato all’unica memoria vivente del padre di Mattia, Giaracannà, come dire «la delicatezza della ‘giara’» e insieme «la fragilità della ‘canna’»; nella scena in cui zia Scolastica si rivolge a Mattia con un offensivo «Muso di cane!», collegabile, se letta in profondità, alla «lunga polemica antigesuitica di Blaise, culminata nelle Provinciali». Da questo duplice esempio si può ricavare l’orientamento metodologico di fondo nello studio della suddetta eredità: l’attenzione ai dati della biografia di Pascal, non meno che alla sua opera. Ecco che allora le pagine dedicate al casino di Montecarlo da un lato chiamano in causa, sia pure per antifrasi, la ‘scommessa’ dei Pensieri, dall’altro gli studi di Pascal sulla roulette, i suoi rapporti con un circolo libertino dedito al gioco d’azzardo. Proprio al libertinismo seicentesco, alla sua etica stoica improntata alla padronanza di sé, attinge l’uomo nuovo nato dalle spoglie di Mattia, non a caso battezzato con il nome di Adriano, l’imperatore sotto il cui regno visse lo stoico Epitteto. Il progetto di vita da ‘apatico’ del moderno imperator conosce la sua prima incrinatura nell’incontro con Tito Lenzi, imperatore deluso cui sta ormai stretta la vita ‘filosofica’ (quella, da lentus, in cui si vive fuori da ogni contaminatio mondana), entra in aperta crisi a casa Paleari, a contatto con la donna-vita, naufraga definitivamente sul bastione del Ponte Margherita, laddove il risorto (in pectore) Mattia appoggia il «cappello-corona», riconoscendo la detronizzazione di Adriano. Interferendo con il tentativo di attuazione del progetto imperiale, l’identificazione del protagonista con l’imago Christi funziona da cartina di tornasole dell’inevitabile fallimento di quel progetto: sul corpo di Adriano, per ben due volte, durante la «notte degli imbrogli» e al caffè Aragno, si imprimono i segni dell’Ecce Homo.
Avvalendosi anche dei risultati di una concordanza elettronica applicata a campi semantici strategicamente selezionati (il corpo, le emozioni, le relazioni, i valori), Sichera distingue al l’interno dei Vecchi e i giovani i personaggi di chiara matrice edenica, che vivono nel segno della ‘continuità’ (con il regno borbonico o con l’avventura garibaldina, impresa fondativa del moderno) e della ‘regalità’ – Ippolito, Mauro – quelli che vivono la condizione ‘fratturata’ di «caduti dal mito paradisiaco» – Caterina e la sua stirpe – infine i campioni della modernità esperti nella finzione, tra i quali spicca Flaminio. Particolarmente interessanti le pagine dedicate a Corrado Selmi (ancora un uomo dal nome imperiale). Nell’atto con cui il deputato siciliano ‘si foggia’ in cima al Gianicolo una bella morte opera, secondo Sichera, un «impetuspoietico» che ne fa un «prototipo della figura dell’artista nel cosmo pirandelliano», oltre che un fratello spirituale del nicciano Zaratustra in quanto cultore della «volontà di potenza come arte» (tutto l’epilogo dell’esistenza di Corrado è efficacemente letto nella chiave intertestuale dello Zaratustra e della Gaia scienza).
Nel capitolo dedicato a Suo marito che inaugura la seconda parte del libro, Sichera riprende da Artioli il tema gnostico della doppia creazione (oltre che il riferimento all’opera di Giustino, Padre apologista del ii secolo), appropriandosene in modo personale: non c’è solo nel romanzo la ktìsis ‘buona’ di Silvia e quella ‘contraffatta’ di Giustino, ma anche la compresenza delle due facce contrastanti, redentiva e demoniaca, della creazione estetica. Il coinvolgimento nello stile della ‘finzione’, nella «vuota mondanità dei moderni letterati» (emblematicamente rappresentata dal Castello di Costantino, «spazio finto perfettamente adatto ai falsi imperatori della modernità») e la rinuncia ai valori della fede tradizionale e della carne, in particolare al ruolo di mater carnalis, costituiscono gli inevitabili risvolti traumatici delle scelte compiute da Silvia: l’uscita dall’Eden (materno) del tempo di Taranto, lo spostamento del suo equilibrio in favore degli «uomini novi», l’accettazione della sua vocazione artistica ovvero il rifugio in una sorta di secondo Eden.
Al centro delle pagine dedicate al teatro è posta la distinzione tra le pièces della «linea gloriosa» in cui si esalta il potere redentivo dell’arte – Così è (se vi pare), Questa sera si recita a soggetto, L’innesto, La favola del figlio cambiato – e quelle della «linea contestativa» in cui questo stesso potere si rivela caduco, fondato com’è sull’oblio della carne e della vita – Diana e la Tuda, Vestire gli ignudi, Come tu mi vuoi, La vita che ti diedi. A far da cerniera tra le due linee è Enrico IV, la tragedia in cui un «progetto di redenzione estetica» – quello di cui il grande Mascherato si avvale per riparare al trauma dello spodestamento – rischia di fallire per la «nostalgia del corpo di carne».
Negli ultimi due capitoli del libro Sichera prende in considerazione un’«altra via di confronto […] con l’amarezza della caduta», la via relationis percorsa da Serafino Gubbio e da alcuni suoi fratelli spirituali, la signora Leuca, Carmelo Sabato, don Angelino nell’ambito della novellistica, Angelo Baldovino e Lucio Spina nella sfera della scrittura teatrale. Immettendo nelle condizioni concrete dell’esistenza, disponendo alla condivisione della sofferenza altrui, all’ascolto delle esigenze del corpo, la via relationis impone ai suoi adepti di ‘impolverarsi’ nella vita, in polemica con l’astratto e asettico rimedio estetico (e filosofico) all’angoscia della caduta. Il finale dei Quaderni non è da intendersi allora alla stregua di uno «sdegnoso […] abbandono della scena mondana», ma come un’«esperienza cristologica, e paradossalmente salvifica, di fraternità vissuta e indicibile». Anche nei Giganti questa via si fa spazio, incuneandosi tra il sogno di Cotrone e l’ossessione di Ilse, due modi ‘estetici’ di riparazione dello spodestamento che in modo diverso sacrificano le ragioni del corpo: è Cromo a tentarne per primo l’esplorazione, richiamando i diritti della carne e la necessità del denaro, ma sono poi Ilse e il Conte ad inoltrarvisi con decisione in una scena del testo in cui riconquistano, di là da ogni fanatismo, la misura umana dell’incontro, l’intesa dei cuori e dei corpi.
Ci siamo limitati a sottolineare soltanto alcuni dei punti per noi più interessanti di questo suggestivo attraversamento del corpus pirandelliano alla ricerca delle sue radici figurative, del suo profondo nucleo generatore. Ammirevole per le competenze bibliche e patristiche di cui si nutre, rigoroso nell’argomentazione, compatto nel paziente inseguimento delle costanti te matiche, davvero stimolante nell’offerta di una messe molto ricca di spunti critici originali, il libro ha peraltro il merito di dialogare con diversi interpreti della critica pirandelliana, non solo con l’operazione ‘esoterica’ di Artioli. Potrebbe destare qualche perplessità l’affollarsi dei re spodestati e degli Ecce Homo, ovvero la logica sottesa alla proiezione delle icone fondanti. Una logica forse troppo inclusiva. Tanto per limitarci ad un solo esempio, ad una delle ultime creature di carta evocate. Basta la semplice calvizie a fare di Cromo l’«unico fra i caduti» della Scalogna «che sia visibilmente ‘scoronato’»? Basta lo schiaffo di Ilse al caratterista della compagnia perché resti impresso sulla sua guancia il sigillo dell’Ecce Homo?
Ivan Pupo
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