Dalla narrativa al teatro: la nascita del personaggio

Di Arcangelo Leone De Castris

Una insopprimibile dimensione scenica e teatrale caratterizza la novella di Pirandello e s’accentua progressivamente a partire dalle prime, da quelle che pure apparentemente si legano al momento più «narrativo» e veristico della storia dello scrittore.

Indice Tematiche

Pirandello Dalla narrativa al teatro: la nascita del personaggio

Dalla narrativa al teatro: la nascita del personaggio

da Storia di Pirandello cap- III.

CONTENUTI

Dimensione scenica e tendenza dialogica nelle novelle.
Il mito del personaggio senza autore.
La narrativa come antefatto e preistoria del personaggio.
Conferme antintellettualistiche nei saggi sul teatro.
La poetica di Si gira : compassione e oggettività drammatica

È stato più volte osservato che la precedente produzione narrativa è il deposito e il luogo di formazione della «materia» teatrale di Pirandello: e si può davvero affermare che non c’è tema, o situazione o trovata, che non abbia avuto una sua iniziale sperimentazione in quel vastissimo campo di osservazione psicologica e di casistica umana che è la novellistica di Pirandello. Ma forse la ideale ed effettiva funzionalità del «momento» narrativo nei confronti dell’esperienza teatrale si può cogliere in un rapporto anche più organico e attivo di quanto non sia la materiale continuità dei temi e delle situazioni [1].

[1]  Uno stimolante invito a una ricerca di questo genere formulava B. Tecchi, nell’articolo Pirandello, dalle forme narrative al teatro (1937), ora in Officina segreta, Caltanissetta, 1957.

Una insopprimibile dimensione scenica e teatrale caratterizza la novella di Pirandello e s’accentua progressivamente a partire dalle prime, da quelle che pure apparentemente si legano al momento più «narrativo» e veristico della storia dello scrittore.

Si prenda Prima notte, ad esempio, quella stupenda pittura di creature solitarie nella cornice del cimitero siciliano, figurata in un lento succedersi di elementi preparatori, di esitazioni e di ansie di aspettative deluse e di rassegnazione: una situazione di incomunicabilità e di miseria in cui confluiscono, come al culmine dei loro significati, tante storie interiori, non dette, non raccontate, ma evocate ed espresse dalla sommessa protesta d’un gesto o dallo sbiancarsi improvviso di un volto.

L’assenza di intreccio, di una storia che per articolazioni successive si enuclei da un primum ideale fino a sboccare in un esito reale, è il carattere che risalta per primo: i fatti non esistono nel racconto, sono appunto antefatti, validi cioè – in una rapidissima evocazione – solo come premessa interna, arretrata fonte della situazione attuale, del momento della rappresentazione. Non i tempi reali della infelicità di Marastella (la perdita del padre, l’amore pel fidanzato, morto con lui nel naufragio) o di Lon Lisi (l’umile camposantiere che ha perduto la moglie adorata) o di Mamm’Antò (patimenti infiniti della miseria e della solitudine senza conforto) appaiono succedersi nella continuità del racconto, ma la scenica immobile «situazione» del momento attuale, l’esito rappresentativo, visivo, di una implicita storia.

     Già l’apertura è fuori d’un tempo narrativo, di successione, ed è invece una rappresentazione scenica:

quattro camice,

quattro lenzuola,

quattro sottane, quattro, insomma, di tutto. E quel corredo della figliuola, messo su, un filo oggi, un filo domani, con la pazienza d’un ragno, non si stancava di mostrarlo alle vicine.

Roba da poverelli, ma pulita.

     Ed anche gli inevitabili sostegni narrativi, i ponti di raccordo tra un quadro e l’altro, immancabilmente si atteggiano in proiezioni visive («Morto di mala morte, sett’anni addietro! Doganiere del porto, andava coi luntri [2], di notte, in perlustrazione.

[2]  luntri: barca speciale attrezzata per la pesca ai pescespada.

 Una notte di tempesta…»; «Si misero in via. Pareva un mortorio, anziché un corteo nuziale. E nel vederlo passare, la gente, affacciata alle porte, alle finestre, o fermandosi per via sospirava: – Povera sposa!»): naturalmente tesi, nella loro rapida brevità e quasi funzionalità didascalica, alla soluzione dialogica, al tempo del presente. E in questo appunto, nel dialogo vivo, delle parole e dei gesti, precipita – da una difficile dimensione di racconto – la evidenza centrale della situazione, e in esso si risolve espressivamente il dramma interno delle creature e si costruisce la loro verità di personaggi.

     È una qualità scenica che, ovviamente, trova nello stile, nell’impiego linguistico, la sua testimonianza più sicura e attendibile. Quella incapacità fondamentale di racconto come costruzione di storia, di uno sviluppo cioè necessario e continuo di eventi, quel precipitare degli antefatti nel quadro attuale della situazione, e la stessa tendenza al dialogo, alla immobile misura della rappresentazione e dell’azione diretta, tutta esaurita nella concreta visività e immediatezza del gesto e della parola, sono caratteri che proprio la sintassi compositiva rivela, il suo evolvere da un piano di successione e coordinazione temporale verso la definizione istantanea, la sua accentuazione e risoluzione al presente dei tempi funzionali della memoria narrativa e del passato storico. La sintassi di Pirandello è sempre, nelle novelle, una quantità verticale – per così dire – più che una orizzontale concatenazione di strutture; anzi una frattura di nessi costruttivi e subordinativi in favore della paratassi e della simultaneità: onde la quasi assoluta assenza di discorso indiretto, che, pur quando è tale in apparenza, svela subito l’urgente premere del tempo narrativo verso il suo naturale sbocco dialogico (due esempi a caso: «Zia Michelina si vide, si sentì sola. Sola e come sperduta. Ma dunque, se questo era il mondo, se in questo mondo, di fronte all’interesse, non si capiva più nulla, neppure il sentimento più santo, quello dell’amor materno, che credevano tutti? che la vera «interessata» fosse lei? che volesse rimaner padrona di tutto e tenere soggetto il nipote? Questo credevano? Interessata, lei? Ah, se veramente…»; «Il vecchio padre, a cui il dottor Mangoni ora si volta come intronato, fa con le mani gesti di grande ammirazione. Sul seno della figliuola? No. Su ciò che la figliuola sta leggendo di là fra tante lacrime. Le poesie del giovinetto»).

Così, uno sguardo sia pur fuggevole alle qualità descrittive dello stile pirandelliano rivela un fondamentale disinteresse, nonché per la riposata oggettività del linguaggio tradizionale, anche per la più animata descrittività ambientale del linguaggio veristico: in una rappresentazione dove non ci sia realtà continua di oggetti e storica concatenazione di eventi, la prosa non può evidentemente costruirsi in un processo di figurazione sintetica e di composizione ideale dei suoi contenuti. Questa analiticità e questo ritmo aperto della parola sono anzi proprio la denuncia della provvisorietà della rappresentazione novellistica pirandelliana. È una lingua che, quasi bisognosa dell’integrazione di altri strumenti espressivi, di una complementare espressività dei gesti, dei movimenti, della mimica e dei rapporti spaziali della ribalta, appare sempre rivolta a violentare i confini della definizione unidimensionale della parola scritta. E la rappresentazione risulta una inconsapevole creazione «teatrale» avviata e prefigurata con l’uso esasperato di un linguaggio solo, come un concerto complesso per ora eseguito con l’impiego parziale – ma acuito fino ai limiti dell’impossibile – di un unico strumento. È questo, se non andiamo errati, il significato e il valore di ciò che abbiamo chiamato espressionismo pirandelliano; di quella osservazione che, soprattutto nella prima stagione narrativa, si fa sforzo inesausto di scomposizione, deformazione violenta di ogni apparenza di realtà: una scultura integrale ma ottenuta paradossalmente attraverso la frantumazione delle sue forme, un processo di incisione nella illusoria vitalità della carne fino alla fissazione spettrale della maschera.

      Ma la traiettoria di questo processo, qui brevemente riferito agli elementi stilistici della prima rappresentazione pirandelliana, comprende evidentemente una totalità organica di significati (un nuovo modo di vedere il mondo, direttamente legato alle premesse polemiche della ideologia di Pirandello), nei quali è possibile rintracciare la destinazione teatrale di tutto il cammino artistico dello scrittore. Esso si svolge, come sappiamo, dalla rappresentazione (polemica, appunto, e deformante) della realtà esterna, colta nella crisi delle strutture e dei rapporti sociali, alla analisi dei riflessi di quella crisi nella coscienza dell’uomo. Il fallimento d’un mondo storico condiziona la destituzione definitiva del soggetto: e l’interiorità dell’uomo si rivela coinvolta nella distruzione dei suoi fattori oggettivi, nel naufragio delle sue «forme». La superficie liscia, la coesione apparente della «persona» romantica si sgretola, come il mondo esterno, in una frantumazione di gesti e di pensieri, di movimenti disorganici e gratuiti. L’uomo non ha una «sua» realtà da opporre alla crisi dei suoi rapporti, alla mistificazione del mondo sociale: la stessa legge di alienazione lo corrompe fin nell’intima ragione del suo esistere: ed egli resta sospeso in una dispersione di apparenze, nella relatività delle «parti» provvisorie e false, nelle quali è condannato a tradire la sua aspirazione unitaria e la sua sete di assoluto.

     Questo processo di corrosione della persona è appunto l’antefatto da cui nasce il personaggio del teatro pirandelliano. Egli è il simbolo di tale condizione di schianto, il testimone – il martire, dunque – di una deiezione storica e il portavoce di una protesta ideale: e la sua ragione drammatica è proprio nella volontà di trascendere la prigione del suo esistere, nella ricerca vana di una forma assoluta.

     Tale organicità di significati è il valore autentico, crediamo, di quel mito del «personaggio in cerca d’autore» che, oltre che stilizzarsi nella più alta tragedia di Pirandello, è il centro ideale e il nucleo tematico di tutto il suo teatro. Non a caso quel mito compare in due racconti del 1911 e del 1915, La tragedia d’un personaggio e Colloqui coi personaggi; in un momento in cui, dopo il bilancio ideologico dell’Umorismo, dalla decomposizione oggettiva della realtà e dal conseguente frantumarsi della coscienza si è andato isolando e definitivamente chiarendo il senso della condizione umana: sicché dall’esaurirsi della stagione narrativa pare spontaneamente enuclearsi la nuova misura rappresentativa del mondo pirandelliano, il personaggio come mediazione unitaria della molteplicità, della dispersione della propria preistoria.

     Nella Tragedia d’un personaggio, l’eroe è Fileno, creatura «sbagliata» di un romanzetto volgare, che non ha saputo placare l’ansia di essere tuttora viva in lui e bisognosa di un più alto creatore. La sua condizione è proprio quella della creatura deietta, composta di «casi», cioè scomposta nella sua fallimentare unità di persona, e anelante all’opera dell’autore che la fissi, la faccia essere, liberandola in una forma assoluta dal fluire relativo dell’esistere:

Ma dunque sul serio lei non comprende l’orrore della tragedia mia? Avere il privilegio inestimabile di esser nato personaggio, oggi come oggi, voglio dire oggi che la vita materiale è così irta di vili difficoltà che ostacolano, deformano, immiseriscono ogni esistenza; avere il privilegio di esser nato personaggio vivo, ordinato dunque, anche nella mia piccolezza, all’immoralità, e sissignore, esser caduto in quelle mani, esser condannato a perire iniquamente, a soffocare in quel mondo d’artificio, dove non posso né respirare né dare un passo, perché tutto è finito, falso, combinato, arzigogolato! [3].

[3] Tragedia d’un personaggio, in Novelle per un anno, p. 716.

      Dunque Fileno è alla mercé della vita umana dissociata, egli che pure è destinato all’eterno, cioè porta con sé, nella deiezione (nella «finitezza» kierkegaardiana) questo sentimento dell’eterno ch’è privilegio e condanna (angoscia). Tutto ciò che è di là da questa sua sofferenza del relativo, ogni salto impossibile lo affascina: la fissità della storia che lo liberi dal fluire del tempo [4]; la creazione dell’arte che lo sottragga all’angoscia dell’incompiutezza:

Nessuno può sapere meglio di lei, che noi siamo esseri vivi, più vivi di quelli che respirano e vestono panni; forse meno reali, ma più veri! Si nasce alla vita in tanti modi, caro signore; e lei sa bene che la natura si serve dello strumento della fantasia umana per proseguire la sua opera di creazione. E chi nasce mercé quest’attività creatrice che ha sede nello spirito dell’uomo, è ordinato da natura a una vita di gran lunga superiore a quella di chi nasce dal grembo mortale d’una donna. Chi nasce personaggio, chi ha la ventura di nascere personaggio vivo, può infischiarsi anche della morte. Non muore più! Morrà l’uomo, lo scrittore: strumento naturale della creazione; la creatura non muore più! E per vivere eterna, non ha mica bisogno di straordinarie doti o di compiere prodigi. Mi dica lei chi era Sancho Panza! Mi dica lei chi era don Abbondio! Eppure vivono eterni perché – vivi germi – ebbero la ventura di trovare una matrice feconda, un fantasia che lì seppe allevare e nutrire per l’eternità [5].

[4]  «Veramente, più che rimedio o ricetta, era un metodo, questo del dottor Fileno, che consisteva nel leggere da mane a sera libri di storia e nel veder nella storia anche il presente, cioè come già lontanissimo nel tempo… Con questo metodo s’era liberato d’ogni pena e d’ogni fastidio, e aveva trovato – senza bisogno di morire – la pace» (Ibid., p. 715).

 [5]  Ibid., p. 717. Com’è noto, queste parole torneranno identiche nei Sei personaggi.

     Nel primo dei Colloqui coi personaggi (1915), la condizione è ripresa, sebbene alla rovescia: perché qui il personaggio, rappresentato nella felicità di chi già prevede l’accettazione dell’autore (già idealmente rappresentato e fissato, cioè eternato), si pone come antagonista simbolico dell’uomo, ormai trascendenza che misura l’esistenza. Egli rivela quella sua ambizione di personaggio realizzato, cioè «di creatura chiusa nella sua realtà ideale, fuori delle transitorie contingenze del tempo», proprio nella assoluta indifferenza che ostenta per il «relativo» della vita umana, e nella pietà per tanto insignificante sconquasso:

     Poco dopo, con placida voce, quegli ricominciò a dire:

    – E che c’entro io, scusi, se il merlo canta? se le rose ridono nel giardinetto?… Noi non sappiamo di guerre, caro signore… Perché son tutte cose che passano, e se pur lasciano traccia, è come se non la lasciassero… Immagini che tutto questo scompiglio sia finito, compiuta la strage. Si farà la storia, domani, dei guadagni e delle perdite, delle vittorie e delle sconfitte. Speriamo che la giustizia trionfi… Ma se non dovesse trionfare? Trionferà di qui a un altro secolo… La storia ha larghi polmoni, e un arresto di respiro è cosa momentanea. Può anche darsi, del resto, che sembri un’altra, di qui a un altro secolo, la giustizia. Non c’è da fidarsi; e non è questo, creda, che importa. Ciò che realmente importa è qualche cosa d’infinitamente più piccolo e d’infinitamente più grande: un pianto, un riso, a cui lei, o se non lei qualche altro, avrà saputo dar vita fuori del tempo, cioè superando la realtà transitoria di questa sua passione d’oggi; un pianto, un riso, non importa se di questa o d’altra, poiché tutte le guerre su per giù son le stesse; e quel pianto sarà uno, quel riso sarà uno [6].

[6] Novelle per un anno, II, pp. 1128-30.

     Importa che qualcosa abbia «vita fuori dal tempo»: è questo l’anelito del personaggio, ed è qui la conferma della disperata condizione dell’uomo. Ma in quest’anelito è intuita la insopprimibile teatralità di quella condizione. Alla salvazione, infatti, del personaggio, non basta più il compianto dello scrittore, il condolere patetico o umoristico del novellista («Ma che cosa vuole ch’io le faccia? Mi son doluto già molto della sua sorte; ora basta.

     – Basta? Ah no, perdio!… La sua noncuranza, il suo disprezzo mi sarebbero, creda, assai meno crudeli, che codesta passiva commiserazione…»): occorre ormai la solidarietà attiva della creazione drammatica, che renda simboli autonomi, realtà vive fuori del tempo, quelle povere «ombre». Questo prender coscienza di una nuova istanza espressiva (è il 1915!) come di una necessità eh’è artistica e umana ad un tempo, sembra essere il senso delle parole commosse con cui si conclude questo colloquio di Pirandello coi suoi personaggi:

     Nell’ombra che veniva lenta e stanca dopo quei lunghissimi afosi pomeriggi estivi e m’invadeva a poco a poco la stanza, recando come una mestizia di frescura, un rammarico di lontane dolcezze perdute, io però da alcuni giorni non mi sentivo più solo. Qualcosa brulicava in quell’ombra, in un angolo della mia stanza. Ombre nell’ombra, che seguivano commiseranti la mia ansia, le mie smanie, i miei abbattimenti, i miei scatti, tutta la mia passione, da cui forse eran nate o cominciavano ora a nascere. Mi guardavano, mi spiavano. Mi avrebbero guardato tanto, che alla fine, per forza, mi sarei voltato verso di loro.

     Con chi potevo io veramente comunicare, se non con loro, in un momento come quello? E mi accostai a quell’angolo, e mi sforzai a discernerle a una a una, quelle ombre nate dalla mia passione, per mettermi a parlare pian piano con esse [7].

[7] Ibid., p. 1131.

     Il personaggio pirandelliano, dunque, è un’ombra nata dalla passione dello scrittore, desiderosa di vita autonoma, di una certezza alla quale approdare dall’inferno del caos umano, dall’inarrestabile divenire delle forme. Nella dimensione drammatica ambisce a riscattare la sua realtà disgregata, lo spettacolo oggettivo e intimo di deformazione che ha rappresentato nel primo tempo dell’arte pirandelliana.

     Non è un caso, per questo, che la concezione e la struttura medesima del teatro di Pirandello assegnino un posto preciso a quel «tempo» narrativo e ideale: condensino cioè proprio nella accurata didascalia iniziale quel processo di dissociazione dei connotati umani, cioè quella scomposizione delle «persone» che è l’antefatto del «personaggio» e dell’azione, l’incisione immutabile della sua maschera (si ricordi, per tutte, le didascalia iniziale dei Sei personaggi). La didascalia iniziale dei drammi di Pirandello attinge generalmente alle novelle, alla parte più propriamente descrittiva, già in esse didascalica, delle novelle.

Ma anche quando questo non succede materialmente, quella didascalia è sempre idealmente la struttura pirandellianamente narrativa, l’antefatto del dramma [8].

[8]  Se non in una visione organica del problema, tuttavia tale carattere della didascalia pirandelliana è stato notato da L. Ferrante, nel vol. Pirandello (Firenze, 1958).

Perché questo si renda possibile, il poeta ha bisogno di personaggi bell’e fatti, cioè di persone scomposte, che rechino nel volto, nelle vesti, nello sguardo, il segno del loro travaglio umano, del loro dramma sociale, cioè la devastazione della loro fittizia unità fenomenica, storica e borghese: maschere, appunto, persone irreali, fatte di ombra, di parti, precisamente la folla umana, grottescamente vociante, della prima novellistica pirandelliana. È un modo, questo, di sancire la generazione della vicenda dalla precostituita tensione dei personaggi, cioè di rispettare la loro verità, che in quella preistoria si era formata e chiarita, e la loro necessità di testimonianza autonoma: non già l’accettazione passiva di un qualsiasi personaggio e di una qualsiasi vicenda drammatica, ma la necessaria decisione di rappresentare il dramma unico e identico, quello e non altro, delle sue angosciate creature [9].

[9]  La critica pirandelliana si è fermata di solito alla lettera del mito del «personaggio senza autore»: credendolo o una delle tante trovate della fantasia pirandelliana, o una formula teatrale esclusiva dei Sei personaggi (ma, per tutte le interpretazioni tradizionali e per la loro unilateralità, cfr. il nostro saggio Ragione ideologica e proiezione drammatica del personaggio senza autore (nel «Convivium», 2, 1962). Quel mito invece, come abbiamo cercato di chiarire, ha un significato ideologico e organico che non si intende se non se ne cerchi la formazione nella storia di Pirandello. Circa la presunta «esistenza autonoma» del personaggio, è interessante notare che la sua prima e incerta formulazione è molto più antica di quanto la critica abbia creduto: risale addirittura a un articolo del 1899, L’azione parlata, nel quale sembra scaturire, come esigenza di poetica generale, dalla occasionale polemica contro l’intellettualismo e l’allegorismo dei personaggi dannunziani:

     «…l’arte è la vita e non un ragionamento; partire da un’idea astratta o suggerita da un fatto o da una considerazione più o meno filosofica, e poi dedurne, mediante il freddo ragionamento e lo studio, le immagini che le possano servire da simbolo, è la morte stessa dell’arte. Non il dramma fa le persone, ma queste il dramma. E prima d’ogni altro dunque bisogna avere le tersone: vive, libere, operanti. Con esse e in esse nascerà l’idea del dramma, il primo germe dove staran chiusi il destino e la forma; che in ogni germe già freme l’essere vivente, e nella ghianda c’è la quercia con tutti i suoi rami» (Saggi:…, p. 982).

Ed è una circostanza che testimonia e conferma la ideale funzionalità della narrativa nei confronti del teatro, il significato del suo tirocinio nella storia dell’arte pirandelliana.

     Di quella storia, il momento osservativo e polemico, quello macroscopicamente esemplato nelle prime novelle, rivela dunque, strutturalmente e idealmente, la sua «proiezione» drammatica: confluendo nella didascalia d’apertura, donde, presente e operante, condiziona l’autonomia del personaggio e la sua disponibilità teatrale. Ma abbiamo visto che alla formazione del personaggio, cioè al raggiungimento della necessaria e ambita unità drammatica, la poetica dello scrittore giunge non solo attraverso la scomposizione oggettiva della persona, ma anche attraverso l’analisi e la rappresentazione degli stati coscienziali in cui quella scomposizione si rifletteva. Il personaggio come mito poetico e unità ideologica, è creatura della fantasia e della riflessione, presuppone cioè una spiegazione della sua storia, una riduzione di essa in significato e simbolo. Si intende allora la destinazione e funzione teatrale anche della seconda stagione dell’arte pirandelliana, quella fortemente caratterizzata dalla tensione meditativa: che, nella storia del personaggio, rappresenta il tentativo, compiuto dallo scrittore, di cogliere la dimensione interiore della definitiva alienazione dell’uomo e di chiarirne i significati universali.

Da quella consapevolezza ormai chiara della condizione esistenziale, un grosso problema artistico si maturava: quello di risolvere in assoluta rappresentazione, in «dramma», la pur necessaria presenza della coscienza del dramma, quello di inventare una unità espressiva di passione e ragione, di situazione e condizione, di «caso» e simbolo.

     La testimonianza della presenza di questo problema e della sua necessaria proiezione teatrale, ci pare venga offerta da un’altra di quelle mai scrutate novelle di Pirandello, che abbiamo chiamato «didascaliche». Questa volta è la strana e inusitata struttura di Risposta (1912) a fornirci la documentazione di questo travaglio pirandelliano. La novella è divisa in tre parti, intitolate: 1) Persone, connotati e condizioni; 2) II luogo e il fatto; 3) Spiegazione. L’ideale narratore, invitato da un infelice amico a intenderne il caso (un tradimento d’amore), si predispone a farlo esponendogli preliminarmente il suo metodo: «Prima, riassumo in breve i fatti, poi ti espongo, con la franchezza che desideri, il mio parere». E, in effetti, la prima e la seconda parte contengono una accurata descrizione della situazione, dei personaggi, uno ad uno: proprio quello che, nel teatro, è il contenuto – persone e luoghi – della didascalia. Segue poi la spiegazione, cioè la maieutica dei significati, l’astrazione e l’isolamento della ideologia relativistica dalla scomposizione dei fatti e delle persone. È proprio, se non ci inganniamo, la ideale preistoria dell’evento drammatico, che di quel travaglio rappresenterà soltanto il risultato estremo, la condizione dell’uomo, al di là di ogni scomposizione e ricomposizione di connotati e di ogni commento chiarificatore.

     Non solo dunque nel suo momento osservativo e polemica, ma anche in quello «ragionativo» e di chiarificazione, la narrativa pirandelliana rivela la sua funzione e destinazione teatrale: e, all’inverso, il teatro assume una singolare funzione di definitiva risoluzione espressiva nei confronti della storia integrale dell’arte pirandelliana.

     Era questo, in concreto, il problema della poetica pirandelliana: un problema antico, nato con lo scrittore, se è vero che compare, e non altro è il suo significato, in quel lontano articolo del 1899, L’azione parlata, in cui per altri aspetti già riconoscemmo un importante incunabulo della futura poetica teatrale. Appunto là lo scrittore, sostenendo che «una favola d’indole narrativa, in generale, mal si lascia ridurre e adattare al congegno delle scene» (una legge che proprio dall’arte di Pirandello risulterà contraddetta. Ma in apparenza: che la sua «favola» non era «d’indole narrativa»! ), affermava con precisione questo fondamentale concetto:

     Ogni sostegno descrittivo o narrativo dovrebbe essere abolito sulla scena. Ricordate la bella fantastica romanza di Enrico Heine su Jaufré Rudel e Melisenda? «Nel castello di Blaye tutte le notti si sente un tremolio, uno scricchiolio, un sussurro; le figure degli arazzi cominciano a un tratto a muoversi. Il trovadore e la dama scuotono le addormentate membra di fantasmi, scendono dal muro e passeggiano su e giù per la sala». Ebbene, lo stesso prodigio operato dal raggio di luna nel vecchio castello disabitato, il poeta drammatico dovrebbe operare. E non l’avevan già operato i sommi tragici greci spirando, Eschilo sopra tutti, una possente anima lirica nelle grandiose figure del magnifico arazzo dell’epopea omerica? E le figure s’eran mosse parlando. Dalle pagine scritte del dramma i personaggi, per prodigio d’arte, dovrebbero uscire, staccarsi vivi, semoventi, come dall’arazzo antico il signor di Blais e la contessa di Tripoli.

     Ora questo prodigio può avvenire a un solo patto: che si trovi cioè la parola che sia l’azione stessa parlata, la parola viva che muova, l’espressione immediata, connaturata con l’azione, la frase unica, che non può esser che quella, propria a quel dato personaggio in quella data situazione: parole, espressioni, frasi che non s’inventano, ma che nascono, quando l’autore si sia veramente immedesimato con la sua creatura fino a sentirla com’essa si sente, a volerla com’essa si vuole [10].

[10]  Ibid., pp. 981-2.

     E, insistendo nella pretesa che «un lavoro drammatico dovrebbe risultar… composto… dai singoli personaggi, nel fuoco dell’azione», già preannunziava il senso di quella oggettività tutta particolare che sarà l’ambizione del suo teatro e il valore dell’arte sua:

     Ogni azione e ogni idea racchiusa in essa, perché appariscano in atto, vive e spiranti innanzi agli occhi nostri, han bisogno della libera individualità umana, in cui, per usare una frase hegeliana, si mostrino come pathos motore: bisogno insomma di caratteri. Ora il carattere sarà tanto più determinato e superiore, quanto meno sarà o si mostrerà asservito, soggetto alla intenzione e ai modi dell’artista, alle necessità dello sviluppo del fatto immaginato, quanto meno si mostrerà strumento passivo d’una data azione, e quanto più invece farà vedere in ogni suo atto tutto un proprio essere e, insieme, una concreta specialità. Poiché i varii e complessi elementi in un carattere debbono essere fusi in un determinato argomento, imperniati in una situazione, trovando l’espressione in una fisionomia essenziale che campeggi per tutto e spinga a determinate azioni [11].

[11]  Ibid., pp. 983-4.

     In effetti, nel teatro, Pirandello cercava la misura più alta del suo mondo espressivo. E la trovava davvero, non nell’esterno «espediente» del personaggio che, sostituendosi all’autore, ne declama le ragioni o ne impersona le funzioni e le intenzioni esplicative, ma nella qualità interna del personaggio, nella necessità per la quale l’insopprimibile sete di libertà che è la sua ragione più profonda coincide con la sua sete di conoscenza, con la sua inutile interrogazione. Nel personaggio pirandelliano la intollerabile prigione delle forme si drammatizza nella sofferenza della forma più intimamente inutile ma pure più costituzionale del suo caos interiore, la ragione; e tra le sue illusioni grottesche affiora la sua più risibile e penosa illusione, la logica vana. In questi momenti, che in gran parte coprono la cosiddetta superficie razionale, il cosiddetto «artificio» della drammaturgia di Pirandello, la ragione è passione e condanna dell’uomo, è grido dell’esistere che invoca l’essere: condizione e insieme tortura del personaggio, e, in definitiva, funzione della sua azione teatrale.

     La ragione è passione-condanna dell’uomo, anzi è la condizione prima della sua umanità [12].

[12] Cfr., a questo proposito, il bel saggio di E. Bentley, Pirandello’s Joy and Torment, nel vol. In Search of Theater, New York, 1954 (una delle letture più felici del teatro pirandelliano). La qualità umana e istituzionale del «ragionare» della creatura pirandelliana è ben intuita dal Bentley, anche se non ricondotta a una visione generale del problema e della storia di Pirandello: «He believed that the essentially human thing was not merely to live, as the beasts do, but also to see yourself living, to think. Thinking is a function of human life» (p. 289). Dello stesso critico si vedano le osservazioni pirandelliane sparse nel volume The Playwright as Thinker, New York, 1955.

Per il candore di Pirandello questa verità non poteva aver bisogno di spiegazioni «esterne». Per la critica, e per tanta parte del pubblico italiano, era una verità troppo vera e sconvolgente per ottenere la incondizionata fiducia dei consensi [13].

[13] Sulle reazioni iniziali del pubblico e della critica italiana, una precisazione opportuna è fornita da A. Fiocco, nel vol. Teatro italiano di ieri e di oggi, Bologna 1958. Il Fiocco ricorda anche come, tra tante incomprensioni, non mancassero a Pirandello adesioni significative: prima e più notevole fra tutte quella di P. Gobetti (vedine ora i giudizi in Opera critica, vol. II, Torino 1927.

Da questa incomprensione nascevano le stupite proteste di Pirandello, la sua così ingenua meraviglia nel sentirsi accusato di cerebralismo, la definizione per lui più offensiva e più lontana dal significato vero della sua arte [14].

[14] Valga tra tutte la ironica protesta che Pirandello elevava contro le solite accuse di «cerebralità», nella Prefazione ai Sei personaggi. Ma si ricordino anche le tante interviste e dichiarazioni pirandelliane sparse in riviste o nei noti «omaggi» pubblicati in occasione della morte dello scrittore. Ne riporta molti passi il Ferrante, nel vol. citato.

     A tal proposito, non è inopportuno ricordare alcuni passi significativi di un discorso, Teatro nuovo e teatro vecchio (1922), in cui Pirandello per la prima volta sistematicamente esprimeva tutto il complesso delle sue ragioni e anche dei suoi risentimenti, e manifestava una indubbia consapevolezza del significato rivoluzionario del suo teatro:

Storia vecchia. E non ne avrei fatto parola, se veramente un po’ da per tutto non si fosse arrivati a tal punto che, per entrare nel favore del pubblico, non giovi tanto avere un pajo d’occhi proprii, quanto esser forniti d’un pajo d’occhiali altrui, i quali faccian vedere uomini e vita d’una certa maniera e di un dato colore, cioè come vuole la moda o come il gusto corrente del pubblico comanda. E guaj a chi sdegni o ricusi comunque d’inforcarseli, a chi s’ostini a voler guardare uomini e vita a suo modo: il suo vedere, se semplice,sarà detto nudo; se sincero, volgare; se intimo e acuto, oscuro e paradossale; e la naturale espressione di questo mondo nuovo apparirà sempre piena di grandissimi difetti.

     Riparlerò di questi difetti. Il più grosso e il più notato, è stato sempre – in ogni tempo – quello dello «scriver male». È una pena riconoscerlo, ma tutte le visioni originali della vita sono sempre espresse male. Così almeno furono sempre giudicate al loro primo apparire, segnatamente da quella peste della società che è la così detta gente colta e perbene [15].

[15]  Saggi, p. 228

     Dall’accenno alla incomprensione, al conformismo della borghesia e al filisteismo della cultura ufficiale, il discorso passa a chiarire la qualità umana e poetica dei «problemi» che l’arte esprime:

     Ma i problemi rappresentati in una nuova opera d’arte, no. Restano e resteranno sempre così come sono stati fissati: problemi della vita. La loro irriducibilità consiste nella loro espressione, in quanto è rappresentazione. Pensate ad Amleto: essere o non essere. Togliete questo problema dalla bocca d’Amleto, svotatelo della passione di Amleto, concettualizzatelo nei suoi termini filosofici e, al lume della critica, ci potrete giocare per tutto il tempo che vi piacerà. Ma lasciatelo lì, su le labbra di Amleto, espressione viva, rappresentazione in atto del tormento di quella sua vita, e il problema dell’essere o non essere, non si risolverà mai, in eterno. E non solo per Amleto, per lui singolo spirito in un determinato momento della sua vita, ma per ogni spirito che contempla quella forma di vita e – questa è l’Arte – la vive. E quei problemi sono, in quella forma, e saranno sempre, per tutti, problemi della vita. Vivono dunque così per la forma, per l’espressione.

     Possono vivere così perché la loro espressione è raggiunta, compiuta.

     La forma perfetta li ha staccati interamenti, essi vivi, e concreti, cioè fluidi e indistinti, dal tempo e dallo spazio, e li ha fissati per sempre, li ha raccolti in sé, lei che è immarcescibile, quasi imbalsamati vizi.

    A tanta distanza di tempo, l’umanità, pur senza averli risolti, ci s’è placata. È riuscita a porsi in quello stato di contemplazione estetica per cui li dice belli, pur sentendoli problemi della vita.

     Col senso e col valore che essi hanno assunto, organati a quel modo, l’umanità può ora contemplarli senza nessuna angoscia. Sa, è ormai abituata a sapere che, in quella visione della vita, il mistero appare così. Perché non già il senso del mistero sgomenta gli uomini, sapendosi da tutti che il mistero è nella vita: sgomenta il modo nuovo, insolito di prospettarlo (pp. 235-6).

     Per Pirandello, in realtà, questo carattere antintellettualistico dei problemi umani che la poesia esprime, particolarmente nei creatori originali, non è soltanto il carattere del suo teatro, ma è la qualità istituzionale, il senso vero di ogni evento teatrale. A questo punto, com’è evidente, il suo pensiero rivela la inconfondibile ambizione estetica e universale che ogni poetica contiene, e la sua immediata proiezione in un conseguente canone di storiografia ideale. Non solo il teatro moderno – che sorge come reazione all’intellettualismo, espressione diretta e libera di reali sentimenti, contrasti, contraddizioni, come critica sociale e scomposizione dei caratteri ottocenteschi – ma tutto il teatro europeo nasce, per lui, come irruzione della vita popolare, dell’elemento antintellettualistico, negli schemi della logica medievale. È questa l’idea e son queste le parole che aprono quel rapido ma intelligentissimo excursus storico della letteratura italiana contenuto nella Introduzione alla Storia del teatro italiano curata da Silvio D’Amico (Milano, 1936). Il teatro europeo nasce in Italia con la sacra rappresentazione, e, successivamente, quando i generi teatrali tradizionali incorporano l’elemento romanzesco:

     Cercate un po’ di figurarvi che cosa dev’essere stato, questo senso del romanzesco, in un mondo che aveva perso la capacità di muoversi dai concetti intellettuali. La vita: la liberazione dal puro cervello, divenuto sottile, sempre più distintivo e arido e astratto a furia di logicizzare (p. 14).

     Col romanzesco, gli uomini scoprono l’avventura, il divenire. Nasce la novella boccaccesca e la inevitabile proiezione drammatica del suo contenuto «vitale»:

     Per dare l’impulso al teatro moderno, per divenire un lievito adatto a tanto movimento, doveva prima e definitivamente perdere i suoi frigidi caratteri di dimostrazione intellettualistica… e, acquistato l’incanto della vita reale e sensibile per merito di quel gran creatore ch’è -il Boccaccio…, trovare chi lo portasse di peso, dalla novella, ch’è come lo specchio d’una coscienza solitaria davanti a un’altra coscienza silenziosa, quella del lettore, al teatro, cioè in mezzo alla vita sociale, ligia per sua natura a tutte le convenzioni, comprese quelle letterarie. È naturale che un tale affrancamento accada prima nell’individuo isolato, in quelli di più aperta sensibilità, mentre ancora la collettività è stretta nelle sue regole antiche e, pur segretamente desiderandolo, teme il nuovo (p. 15).

     È importante, qui, la genesi del teatro dalla novellistica, la rivelazione e oggettivazione di una scoperta già individualmente operata dalla coscienza del genio solitario; e, soprattutto, l’indicazione di quel significato culturale, pionieristico, di illuminazione sociale e civile che il teatro viene ad assumere nei confronti del pubblico. Tale significato, prima che alla sua opera, Pirandello attribuisce a quel rivoluzionatore geniale che più volte egli ha assunto come termine ideale di riferimento: al Goldoni umile e mite, anch’egli inchiodato alla ricorrente accusa che la retorica e il buon senso conformistico elevano contro chi «scrive male», contro cioè chi urta e sconvolge gli schemi del filisteismo e del placido ozio borghese [16];

[16] «La gente colta adora chi le dà, in qualche modo impensato, proprio quel che le hanno insegnato ad aspettarsi, e in fondo non ama l’arte più di quanto l’amino i filistei… Ben per questo la coltura (così intesa) è assai più pericolosa del filisteismo: si dà l’aria di star dalla parte dell’artista; ha lo charme del suo gusto squisito, e può corrompere perché può parlare con un’autorità negata ai filistei… E perché Carlo Goldoni scrive male? Ma perché le sue espressioni, per determinare una nuova visione della vita, dovevano per forza stonare con quelle che erano negli orecchi di tutti, già composte, già studiate e perciò bell’e chiare, che con un po’ d’ingegno e di buona volontà, ognuno, santo Dio, poteva dargli un bellissimo garbo. E quello sgarbataccio d’un Goldoni…» (Introduzione alla Storia del teatro italiano a cura di S. D’Amico, Milano, 1936, p. 29).

quel Goldoni, la cui gloria non fu tanto quella, parziale, di ridare sembiante umano ai tipi della commedia dell’arte (lo avevano già fatto Shakespeare e Molière), quanto, pirandellianamente, quella di fondare, in un istintivo processo di scomposizione critica, la «vena» del teatro moderno:

Fu certo gloria del Goldoni scomporre la fissità delle maschere dal loro riso ormai artefatto e ridare ai muscoli di nuovo affrancati del viso umano il riso naturale d’una vita colta nel giuoco più vivace e, nello stesso tempo, più squisito… Ma la vita delle sue creazioni, affidate per sempre al primo linguaggio schietto e nativo che si parli nel teatro, non deriva dal fatto ch’egli abbia ridato forma, una forma umana, a quel movimento di maschere e di tipi della Commedia dell’arte… Il Goldoni ha superato il carattere, e trovato, con una felicità inarrivabile, con una leggerezza di tocco che sbalordisce, tutto il volubile, il fluido, il contraddittorio, il momentaneo della vita in atto, e aperto così, con un colpo di bacchetta magica, la vena del teatro contemporaneo dalla roccia in cui erano sbozzati …i «caratteri» del teatro seicentesco. [17].

[17] Ibidem, pp. 24-25. Sulla disgregazione dei caratteri comici tradizionali, non già in Goldoni, ma in Pirandello, si vedano le belle pagine pirandelliane di E. Levi, nel voi. Il comico di carattere da Teofrasto a Pirandello, Torino 1959.

     È quasi ovvio notare che Pirandello – anche senza volerlo – parla qui di se stesso e dell’arte sua: l’umanizzarsi novecentesco dei «caratteri» tradizionali, cioè il loro sgretolarsi e ricomporsi nel simbolo della condizione umana, è proprio il valore rivoluzionario del suo teatro.

    All’esperienza teatrale, come abbiamo visto, sembrano tendere le più profonde premesse ed energie della poetica e della ricerca espressiva di Pirandello. Ora, di tale «proiezione» drammatica, esiste un punto, un documento nel quale è possibile cogliere la tensione più esplicita e organica di tutti i motivi che abbiamo esaminati; e sono i Quaderni di Serafino Gubbio operatore, il romanzo del 1914-15, prima intitolato Si gira. È un’altra delle opere pirandelliane su cui la critica ha sorvolato [18], ritenendo forse superflua la utilizzazione di quell’ulteriore summa di motivi e temi tipicamente pirandelliani cui il romanzo sembra ridursi a una prima lettura.

[18] Non se ne dimenticano i due critici in certo modo più esaurienti di Pirandello, lo Janner e il Di Pietro, già ricordati. Ma il primo non sospetta neppure questa qualità di «poetica» che a noi sembra fondamentale; e il secondo allude solo en passant alla significazione teatrale della impassibilità di Gubbio.

     Narrativamente Si gira costituisce, a nostro avviso, l’esperimento più interessante e tecnicamente originale di Pirandello: quello in cui proprio l’assunzione del diario come strumento di oggettivazione rende possibile la identificazione del protagonista con lo scrittore e rende rappresentabili in una storia unitaria i contenuti dispersi e frantumati dell’esperienza. La continuità storica e la unità del racconto non sono dunque nelle vicende e nell’azione dei personaggi, bensì esclusivamente nel punto di vista della coscienza, nella struttura ragionativa e diaristica che di quelle vicende e di quelle azioni frammentarie proietta i simboli e i significati [19].

 [19] In questo è propriamente la differenza che separa, per questa parte, Si gira dal Fu Mattia Pascal, che pure, adottando la narrazione in prima persona, sembrerebbe fondarsi su una uguale tecnica compositiva. Quello era il romanzo in cui l’uomo, al di là della implicita partecipazione dello scrittore, era da questo condotto a sperimentare in proprio un cammino di disgregazione che dalla illusoria evasione sociale lo portava a scoprire la sua condanna di creatura esiliata. Questo è invece la rappresentazione di una vicenda oggettivamente discontinua, non d’un processo di rivelazione ma di una disgregazione già sperimentata e accettata.

La prospettiva di Serafino Gubbio coincide con la coscienza di Pirandello: una coscienza volta a ricostruire in altra unità e continuità rappresentativa ciò che psicologicamente e narrativamente non è più ricostruibile o rappresentabile.

     Per questo, laddove gli altri romanzi di Pirandello valgono, a parte ogni valutazione d’ordine estetico, come luoghi e documenti della ideologia, Si gira vale soprattutto come documento di poetica: come testimonianza singolarmente esplicita, in un contesto pur ricco di risonanza propriamente artistica, di quell’evento naturale ma pure travagliato che è il passaggio di Pirandello all’esperienza teatrale. I termini ideali, l’inizio e la fine, di questa storia interiore che è la struttura unitaria e la continuità medesima del romanzo, sono infatti da ricercarsi in un ambito – prima che di significati tecnici – di puro valore sentimentale, e autobiografico: là dove si disegna, in un progressivo accentuarsi di sfumature, un arco di partecipazione umana che procede dalla pietà relativa alla compassione assoluta, dal commento doloroso al «silenzio di cosa»: vogliamo dire, sorvolando i passaggi e anticipando le conclusioni dell’esame critico, da un sentimento umano a un sentimento «divino», dalla pietà «narrativa» alla alta e invisibile pietà del poeta tragico.

     Non altro è il valore del mito della impassibilità definitiva, che Serafino Gubbio persegue dalla prima all’ultima pagina del romanzo e che lo scrittore – con moderna intuizione – figura simbolicamente nella impassibilità disumana e meccanica della macchina da presa. Da essa prende le mosse e in essa si compie la breve storia e il destino umano del povero operatore: dapprima sconvolto dalla crudeltà meccanica e paradossale di quel simbolo della civiltà moderna, poi desideroso di rendersene degno onde approdare a una insensibilità umana che è l’unica forma adeguata alle risibili proporzioni della vita d’oggi, e infine consapevole che in quell’apparente «silenzio di cosa» si racchiude il significato più alto e umanamente profondo della sua compassione. Di fronte alla ormai scoperta e irreversibile condanna dell’uomo, questo romanzo è precisamente la radiografia della poetica pirandelliana, il suo evolvere da un atteggiamento di partecipazione attiva al dramma delle sue creature a un atteggiamento di pura rappresentazione.

Una crisi della pietà, dunque. Tale crisi è figurata, intanto, nei termini di una concreta situazione psicologica di cui appaiono esplicite le motivazioni e le circostanze storiche. Polemico e negativo è infatti l’iniziale significato del mito della «macchina», e in esso confluiscono quelle tensioni ironiche e satiriche che fanno di Pirandello la più matura coscienza, che la nostra letteratura moderna abbia espresso, della crisi del «sistema» e della corruzione della società contemporanea. Tutti i primi quaderni del gran diario contengono appunto, sotto le spoglie di una chapliniana figurazione, la vibrante denuncia del pauroso vuoto morale in cui rischia di precipitare la civiltà moderna, che nella mostruosa superfetazione del suo «leviatano», nella disumana e vorace massificazione della civiltà industriale, riduce a margini sempre più esigui – e alla fine inconsistenti – i valori etici e umani della sua storia:

     L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio e industre, s’è messo a fabbricar di ferro, d’acciajo le sue nuove divinità ed è diventato servo e schiavo di esse.

     Viva la macchina che meccanizza la vita!

     …La macchina è fatta, per agire, per muoversi, ha bisogno di ingojarsi la nostra anima, di divorar la nostra vita. E come volete che ce la ridiano, l’anima e la vita, in produzione centuplicata e continua, le macchine? Ecco qua: in pezzetti e bocconcini, tutti d’uno stampo, stupidi e precisi, da farne, a metterli su, uno su l’altro, una piramide che potrebbe arrivare alle stelle. Ma che stelle, no, signori! Non ci credete. Neppure all’altezza d’un palo telegrafico. Un soffio li abbatte e li rotola giù, e tal altro ingombro, non più dentro ma fuori, ce ne fa, che – Dio, vedete quante scatole, scatolette, scatolone, scatoline? – non sappiamo più dove mettere i piedi, come muovere un passo. Ecco le produzioni dell’anima nostra, le scatolette della nostra vita! [20].

 [20] Tutti i romanzi, p. 1112.

Ed è una polemica che prosegue lungo tutto il romanzo, e dà vita a scenette deliziose, dove l’amarezza della protesta si fa libero ritmo figurativo (povere comparse, interni caotici, dialoghi incomprensibili, e la tigre della «Cosmograph»: in mezzo a una finzione generale soltanto la sua morte sarà vera. E la scenetta della carrozzella, quella del violinista folle che suona alla tigre, finalmente felice); e raggiunge toni di indimenticabile suggestione appunto quando è vissuta e incarnata nei frammenti della sua vittima umana, in questi poveri uomini oppressi e sfigurati dal ritmo assurdo e frenetico della meccanizzazione, della sete di guadagno, della mondanità e del lusso, sconvolti e alienati da questa enorme centrifugazione che è la civiltà del film [21].

[21]  La polemica, si badi, non è contro il nuovo strumento di espressione, ma contro la civiltà che lo asservisce e lo deforma a suo comodo; e, come vedremo, più in particolare, contro l’aberrazione naturalistica che le prime poetiche del cinema ingenuamente riproponevano. Pirandello non nutrì mai preconcetti nei riguardi del film in sé. Se non bastassero a provarlo le molte riduzioni cinematografiche, autorizzate, di sue opere, e Sogno (ma forse no), che è una vera e propria sceneggiatura cinematografica, concepita secondo un preciso linguaggio filmico, lo proverebbe a sazietà, e con notevoli spunti d’interesse, l’articolo Se il film parlante abolirà il teatro (del 1929, ora in Saggi…). Qui lo scrittore imposta con rara acutezza il problema; e, negando che il teatro possa morire, afferma che il film morrà se non cesserà di «copiare» la letteratura. Esso ha in sé il suo linguaggio, il movimento delle immagini:

«Bisogna che la cinematografia si liberi dalla letteratura per trovare la sua vera espressione e allora compirà la sua vera rivoluzione. Lasci la narrazione al romanzo, e lasci il dramma al teatro… Si liberi dalla letteratura e s’immerga tutto nella musica… Io dico la musica che parla a tutti senza parole, la musica che s’esprime coi suoni e di cui essa, la cinematografia, potrà essere il linguaggio visivo. Ecco pura musica e pura visione» (pp. 1001-2).

L’uomo è la vittima inconsapevole della sua violenta disumanità: ridotto dal vertiginoso meccanismo che la sua stessa ambizione ha prodotto alla non-vita dei gesti inconseguenti, del progresso senza coscienza [22].

 [22] «Nessuno ha tempo o modo d’arrestarsi un momento a considerare, se quel che vede fare agli altri, quel che lui stesso fa, sia veramente ciò che soprattutto gli convenga, ciò che gli possa dare quella certezza vera, nella quale solamente potrebbe trovar riposo…» (Tutti i romanzi, p. 1109).

L’automatismo della sua vita morale rischia di coinvolgerlo in una – pur salutare e rigenerante – conflagrazione totale:

     Guardo per via le donne, come vestono, come camminano, i cappelli che portano in capo; gli uomini, le arie che hanno o che si danno; ne ascolto i discorsi, i propositi; e in certi momenti mi sembra così impossibile credere alla realtà di quanto vedo e sento, che non potendo d’altra parte credere che tutti facciano per ischerzo, mi domando se veramente tutto questo fragoroso e vertiginoso meccanismo della vita, che di giorno in giorno sempre più si complica e s’accelera, non abbia ridotto l’umanità in tale stato di follia, che presto proromperà frenetica a sconvolgere e a distruggere tutto. Sarebbe forse, in fin de’ conti, tanto di guadagnato. Non per altro, badiamo: per fare una volta tanto punto e daccapo [23].

[23] Ibid., p. 1110. Si ricordi l’analoga immagine di cosmica distruzione con cui si chiude La coscienza di Zeno. In realtà, per molti aspetti, la posizione di Pirandello è accostabile a quella di Svevo, l’altra grande coscienza italiana del Decadentismo.

Ma gli altri non sanno. Serafino Gubbio è la coscienza di questo progressivo vanificarsi dell’uomo, del suo inevitabile destino di autodistruzione [24].

[24]  «Un signore, venuto a curiosare, una volta mi domandò: – Scusi, non si è trovato ancor modo di far girare la manovella da sé?
     …Sorrisi e risposi: – Forse col tempo, signore. A dir vero, la qualità precipua che si richiede in uno che faccia la mia professione è l’impassibilità di fronte all’azione che si svolge davanti alla macchina. Un meccanismo, per questo riguardo, sarebbe senza dubbio più esatto e da preferire a un uomo. Ma la difficoltà più grave, per ora, è questa: trovare un meccanismo, che possa regolare il movimento secondo l’azione che si svolge davanti alla macchina. Giacché io, caro signore, non giro sempre allo stesso modo la manovella… Non dubito però, che col tempo… si arriverà a sopprimermi. La macchinetta… girerà da sé. Ma che cosa poi farà l’uomo quando tutte le macchinette gireranno da sé, questo, caro signore, resta ancora da vedere» (
ibid., pp. 1111-2).

E tuttavia vede negli altri il suo destino: mentre umanamente rilutta a quella fatale assimilazione che su di lui la macchina compie, pure lentamente affonda nel gorgo dell’impassibilità, dell’oggettività insensibile, quanto più la vita lo persuade della inutilità d’ogni pietà e d’ogni coscienza. Di fronte alla piccolezza, alla veramente relativa realtà degli uomini, alla loro incapacità di colmarsi dei sentimenti che per un momento sembrano animarli o distruggerli, di fronte alla delusione della vita d’oggi, scaduta balordamente in una condizione servile rispetto al tiranno meccanico da essa stessa creato, non resta che «disingannarsi» e «girare»: rappresentare la propria assenza. Chiudersi nel proprio silenzio appare, più che sfogo o vendetta, certo l’unico programma possibile: non rimane che adeguarsi all’assurdo meccanismo, a cui, per vivere, si è condannati:

     Che volete farci? Io sono qua. Servo la mia macchinetta, in quanto la giro perché possa mangiare. Ma l’anima, a me, non mi serve. Mi serve la mano; cioè serve alla macchina. L’anima in pasto, in pasto la vita, dovete dargliela voi signori, alla macchinetta ch’io giro…

     …Non dico di no: l’apparenza è lieve e vivace. Si va, si vola. E il vento della corsa dà un’ansia vigile ilare, acuta, si porta via tutti i pensieri. Avanti! Avanti perché non s’abbia tempo né modo d’avvertire il peso della tristezza, l’avvilimento della vergogna, che restano dentro, in fondo. Fuori, è un balenio continuo, uno sbarbaglio incessante: tutto guizza e scompare.

     …Il battito del cuore non s’avverte, non s’avverte il pulsar delle arterie. Guaj, se s’avvertisse! Ma questo ronzio, questo ticchettio perpetuo, sì, e dice che non è naturale tutta questa furia turbinosa, tutto questo guizzare e scomparire d’immagini; ma che c’è sotto un meccanismo, il quale pare lo insegua, stridendo precipitosamente.

     …In nulla, più in nulla, in mezzo a questo tramestio vertiginoso, che investe e travolge, bisognerebbe fissarsi. Cogliere, attimo per attimo, questo rapido passaggio d’aspetti e di casi, e via, fino al punto che il ronzio per ciascuno di noi non cesserà [25].

[25]  Ibid., pp. 1113.

     Ma la polemica contro la massificazione dell’uomo moderno non è che il momento iniziale, e l’occasione figurativa, della coscienza di Serafino Gubbio; ben più profondo è il significato della rinunzia al sentimento e della meccanica impassibilità che egli crede di sperimentare. La verità è che il romanzo è il bilancio conclusivo della storia ideologica di Pirandello, e il documento di una predisposizione ormai matura all’esperienza teatrale. È il momento in cui lo scrittore consapevolmente riassume e proietta in una storia simbolica le tappe essenziali della sua visione del mondo e chiarisce i significati e le tensioni interne delle sue anteriori esperienze espressive. Dalla polemica registrazione del crollo d’un mondo storico, la sua meditazione ha ricavato il senso unitario, irrisarcibile, della condizione dell’uomo. Ora, dalla universale compassione che leopardianamente scaturisce dalla conquista dell’«orrido vero» [26], nasce appunto questa così significativa esigenza di «sparire»: la volontà di oggettivare il dramma in creature autonome, in simboli assoluti.

[26]  Non diverso c’è sempre sembrato il senso della carriera sentimentale del Leopardi: che, proprio sul fondamento di una conquista intellettuale dell’orribile vero (prima elusa in un privato autocompianto e in un programmatico odium hominis), matura la poetica della compassione e della solidarietà universale. Anche in questo punto, le parole del grande poeta («non tanto io cerco mordere ne’ miei scritti la nostra specie, quanto dolermi del fato. Nessuna cosa credo sia più manifesta e palpabile, che l’infelicità necessaria di tutti i viventi… perché non mi ha da esser neppur lecito di dolermene apertamente e liberamente, e dire, io patisco?… se mi dolessi piangendo… darei noia non piccola agli altri, e a me stesso, senza alcun frutto. Ridendo dei nostri mali, trovo qualche conforto; e procuro di recarne altrui nello stesso modo… Dicono i poeti che la disperazione ha sempre nella bocca un sorriso. Non dovete pensare che io non compatisca all’infelicità umana»: Timandro e Eleandro) coincidono straordinariamente con le amare parole di Pirandello: «E allora io, che in fondo sono di buon cuore, li compatisco. Ma è mai possibile il compatimento di certe sventure, se non a patto che se ne rida? Orbene, i personaggi delle mie novelle vanno sbandendo per il mondo, che io sono uno scrittore crudelissimo e spietato. Ci vorrebbe un critico di buona volontà, che facesse vedere quanto compatimento sia sotto a quel riso» (Tragedia d’un personaggio).

     È questo il valore del «vedere» di Serafino Gubbio, la chiaroveggenza definitiva con cui, girando la manovella della sua macchinetta, egli fissa nei suoi simboli estremi lo spettacolo che la vita gli offre; uno spettacolo di caos e di perdizione, in cui la qualità meccanica e irrazionale degli eventi e degli atti umani appare la reincarnazione di una antica e istituzionale condanna [27].

[27] «le bestie hanno in sé da natura solo quel tanto che loro basta ed è necessario per vivere nelle condizioni, a cui furono, ciascuna secondo la propria specie, ordinate; laddove gli uomini hanno in sé un superfluo, che di continuo inutilmente li tormenta, non facendoli mai paghi di nessuna condizione e sempre lasciandoli incerti del loro destino. Superfluo inesplicabile, che per darsi uno sfogo crea nella natura un mondo fittizio, che ha senso e valore soltanto per essi, ma di cui pur essi medesimi non sanno e non possono mai contentarsi, cosicché senza posa smaniosamente lo mutano e rimutano, come quello che, essendo da loro stessi costruito per il bisogno di spiegare e sfogare un’attività di cui non si vede né il fine né la ragione, accresce e complica sempre più il loro tormento, allontanandoli da quelle semplici condizioni poste da natura alla vita su la terra, alle quali soltanto i bruti sanno restar fedeli e obbedienti» (Tutti i romanzi, p. 1115).

Sembra la leopardiana teoria del piacere, e ne è in effetti la versione novecentesca: perduto il senso della vita, l’uomo moderno si brucia in una inchiesta senza approdo, sfoga il suo «superfluo» in costruzioni senza principio. È ormai il maturo dramma dell’uomo di Pirandello, che già conosciamo, che già animava le grandi novelle di questo periodo. Ma qui è ripreso con la consapevolezza di fondare una nuova poetica e una nuova esigenza di rappresentazione.

Persone scomposte, irrigidite in una maschera di abitudinaria serenità o fissate nei connotati del dolore, prede del relativo e dell’arbitrario, e tutte immerse nell’ansia di aggrapparsi ai frammenti della loro vita; creature dolci e inconsapevoli, votate all’angoscia e alla solitudine; gesti incomunicabili, pensieri sconnessi, sentimenti convulsi, gelosie paradossali, improvvise evasioni nella dimensione del ricordo, ritorni amareggiati e dolenti. Nel caos di un mondo fatuo e meccanizzato, quello del cinema, della dissipazione, del guadagno, il mondo della civiltà industriale, mistificato, quell’altro caos si figura: la disgregazione ormai insanabile della «persona», il suo procedere nell’abisso del relativo. Nella figura della Nestoroff, la diva enigmatica dal passato angoscioso, la tigre dolcissima dagli innumerevoli e «relativi» amanti, quel mondo acquista un volto umano. Nella sua inquietudine e nella indifferenza delle sue avventure, nel suo «non trovarsi» eppure vivere fino all’assurda immedesimazione le parti del suo copione, si esprime appunto la tragedia dell’uomo: quel suo inseguire i frammenti di sé, quel suo inutile invocare «gli altri» che l’aiutino a fissarsi, a fermare la corsa verso la disgregazione:

     Resta ella stessa sbalordita e quasi atterrita delle apparizioni della propria immagine su lo schermo, così alterata e scomposta. Vede lì una, che è lei, ma che ella non conosce. Vorrebbe non riconoscersi in quella; ma almeno conoscerla.

     Forse da anni e anni, a traverso tutte le avventure misteriose della sua vita, ella va inseguendo questa ossessa che è in lei e che le sfugge, per trattenerla, per domandarle che cosa voglia, perché soffra, che cosa ella dovrebbe fare per ammansarla, per placarla, per darle pace.

     Nessuno, che non abbia visto gli occhi velati da una passione contraria e l’abbia vista uscire dalla sala di orova dopo l’apparizione di quelle sue immagini, può aver più dubbi su ciò. Ella è veramente tragica: spaventata e rapida, con negli occhi quello stupor tenebroso che si scorge negli agonizzanti, e a stento riesce a frenare il fremito convulso di tutta la persona [28].

[28] Ibidem, p. 1139.

Questo «vedere» dell’operatore e gli oggetti medesimi della sua registrazione sono la ragione della struttura e dello stile del romanzo, che si costruisce per questo su due diverse dimensioni: sul tempo disorganico, frammentario, della vicenda esterna, e sul tessuto unitario della storia sentimentale di Serafino Gubbio che la commenta per l’ultima volta, e anzi dalla nausea di quel momento invoca una assoluta «sparizione». Dalla aspirazione meccanica del suo punto di vista deriva quel procedere a sbalzi della rappresentazione, il costruirsi della vicenda in un succedersi slegato di fotogrammi, di bagliori descrittivi, di figurazioni sintetiche. È un procedimento consapevole, che allinea in una successione disorganica aperture sceniche, didascalie, elementi propriamente teatrali e filmici, con sceneggiature punteggiate, comparse, scenari, in cui agisce sovente quel gusto del retro-teatro, della costruzione spettacolare che non sarà senza avvenire nella produzione di Pirandello. Esso insegue la stessa realtà frammentaria dei personaggi, delle situazioni, in un frammisto ritmo di ricordi e di ansie, di evasioni e di colorite illusioni meccaniche [29].

[29] La nostra prospettiva, nel tentativo di non disperdersi, sacrifica purtroppo l’analisi delle pagine più belle del romanzo. Si ricordino almeno: tutta la storia del violinista silenzioso, e soprattutto la bellissima sequenza della morte (pp. 1180-1); la dolce Casa dei nonni, pausa lirica della giovinezza di Gubbio (quaderno II), poi più volte ripresa, in un procedimento di memoria lirica, in molti luoghi del romanzo.

Ma registra soprattutto il significato della prospettiva di Gubbio, il suo evolvere dalle dichiarazioni polemiche alle istintive partecipazioni patetiche, e dalla nausea di queste alla tremenda liberazione «petrosa» della coscienza, vigorosamente figurata nel ritmo oggettivo, volutamente e violentemente scenografico, dell’ultima sequenza:

     E io mi misi a girare la manovella, con gli occhi ai tronchi in fondo da cui già spuntava la testa della belva, bassa, come protesa a spiare in agguato; vidi quella testa piano ritirarsi indietro, le due zampe davanti restar ferme, unite, e quelle di dietro a poco a poco silenziosamente raccogliersi e la schiena tendersi ad arco per spiccare il salto. La mia mano obbediva impassibile alla misura che io imponevo al movimento, più presto più piano, pianissimo, come se la volontà mi fosse scesa – ferma, lucida, inflessibile – nel polso, e da qui governasse lei sola, lasciandomi libero il cervello di pensare, il cuore di sentire; così che seguitò la mano a obbedire anche quando con terrore io vidi il Nuti distrarre dalla belva la mira e volgere lentamente la punta del fucile là dove poc’anzi aveva aperto tra le fronde lo spiraglio, e sparare, e la tigre subito lanciarsi su lui e con lui mescolarsi, sotto gli occhi miei in un orribile groviglio. Più forti delle grida altissime levate da tutti gli attori fuori della gabbia accorrenti istintivamente verso la Nestoroff caduta al colpo, più forti degli urli di Carlo Ferro, io udivo qua nella gabbia il sordo ruglio della belva e l’affanno orrendo dell’uomo che s’era abbandonato alle zanne, agli artigli di quella, che gli squarciavano la gola e il petto; udivo, seguitavo a udire su quel ruglio, su quell’affanno là, il ticchettio continuo della macchinetta, di cui la mia mano, sola, da sé, ancora, seguitava a girare la manovella; e m’aspettavo che la belva ora si sarebbe lanciata addosso a me, atterrato quello; e gli attimi di quell’attesa mi parevano eterni e mi pareva che per l’eternità io li scandissi girando, girando ancora la manovella senza poterne fare a meno, quando un braccio alla fine s’introdusse tra le sbarre armato di rivoltella e tirò un colpo a bruciapelo in un’orecchia della tigre sul Nuti già sbranato; e io fui tratto indietro strappato dalla gabbia con la manovella della macchinetta così serrata nel pugno, che non fu possibile in prima strapparmela. Non gemevo, non gridavo: la voce, dal terrore, mi s’era spenta in gola, per sempre [30].

[30] Ibid., pp. 1279-80.

     Qui il mostruoso processo è compiuto. La realtà terrificante dell’uomo, quell’incongruente fenomenismo dei suoi pezzi di vita, diventa oggetto di una rappresentazione assoluta, testimonianza senza tempo. E la coscienza, condotta a quell’estremo limite dalla progressiva rivelazione di un fallimento totale – di cui la storia dell’oggi rappresenta l’ultimo atto, il feroce inasprirsi di una legge assoluta della vita – diviene muta, spaventosa chiaroveggenza:

     Ora basta. Voglio restare così. Il tempo è questo; la vita è questo; e nel senso che dò alla mia professione, voglio seguitare così – solo, muto e impassibile – a far l’operatore.

    La scena è pronta?

     – Attenti, si gira… [31].

[31] Ibid., p. 1281.

       La impassibilità di Serafino Gubbio rappresenta la definitiva conquista della compassione pirandelliana, l’approdo di un iter sentimentale che si definisce tutto e si risolve nell’ambito della pietà. L’impulso conoscitivo, istintivamente operante nel primo sguardo stupito del giovane scrittore, ha suscitato un’esigenza di comprensione e di chiarezza; ma chi ha compreso la miseria della vita (senza coglierne sino alla ultima conseguenza la qualità storica, e dunque la possibilità dialettica), non può più medicare, può affinare soltanto i suoi strumenti di conforto, fino a viverli nella misura più alta, nella più disinteressata delle partecipazioni. Pirandello si allontana per sempre dalla scena delle sue creature, dalla spiegazione del loro dramma. Ma in questo silenzio, in questo distacco, che brucia tutti gli inganni e risolve in testimonianza-denuncia il suo sentimento della vita, è la condizione ultima e più grande della sua arte:

Se sapeste come sento, in certi momenti, il mio silenzio di cosa! E mi compiaccio del mistero che spira da questo silenzio a chi sia capace d’avvertirlo. Vorrei non parlar mai; accoglier tutto e tutti in questo mio silenzio, ogni pianto, ogni sorriso; non per fare, io, eco a quel sorriso; non potrei; non per consolare, io, il pianto; non saprei; ma perché tutti dentro di me trovassero, non solo dei loro dolori ma anche e più delle loro gioie, una tenera pietà che li affratellasse almeno per un momento.[32]

[32] Ibid., p. 1179. Che sia questo il significato della impassibilità perseguita da Gubbio risulta anche da un altro passo; dove egli, lamentando la sua incapacità di «disinteressarsi» del tutto, pare proprio esprimere il travaglio che segna il passaggio dalla narrativa al teatro, dal racconto-commento alla assoluta spersonalizzazione: «Ho ragione di credere… che la realtà ch’io dò agli altri corrisponde perfettamente a quella che questi altri danno a se medesimi, perché m’industrio di sentirli in me come essi in sé si sentono, di volerli per me com’essi per sé si vogliono: una realtà, dunque, al tutto ’disinteressata’. Ma vedo intanto che, senza volerlo, mi lascio prendere da questa realtà, la quale, così. com’è, mi dovrebbe restar fuori: materia, a cui dò forma, non per me, ma per se stessa; da contemplare» (ibid., p. 1193).

Arcangelo Leone de Castris

Arcangelo Leone de Castris
Salice Salentino, 24 luglio 1929
Bari, 17 marzo 2010

Arcangelo Leone de Castris
Arcangelo Leone de Castris

     Storico della letteratura italiana, Arcangelo Leone de Castris, insigne critico che ha spaziato da Alessando Manzoni a Luigi Pirandello e Italo Svevo fino a Pier Paolo Pasolini. Professore emerito dell’Università degli Studi di Bari, dove ha svolto tutta la sua carriera, è stato protagonista di un’intensa attività saggistica con riflessioni teoriche sul ruolo sociale dell’intellettuale e sul rapporto tra ideologia e cultura. Celebre per le sue lezioni su Pirandello e Svevo, con cui sapeva conquistare gli studenti universitari, Arcangelo Leone de Castris è stato negli anni Settanta un rinnovatore degli studi di impronta marxista e gramsciana, tanto da essere considerato uno dei fondatori di quella che è stata definita, con una certa ironia, «l’ecole barisienne», ovvero la scuola storiografica nata all’interno dell’ateneo di Bari che vide all’opera lo storico Giuseppe Vacca, il filosofo Biagio de Giovanni ed altri intellettuali pugliesi.
A lungo militante del partito comunista italiano, membro della commissione cultura al tempo in cui fu diretta da Aldo Tortorella, de Castris animò il dibattito cultura a sinistra con il saggio «L’anima e la classe: ideologie letterarie degli anni sessanta» (De Donato 1972), riletto da lui stesso tre decenni dopo, con animo disincantato, con il pamphlet «Una fine sinistra. Trent’anni di storia degli intellettuali» (Guida 2001).
(da Il Messaggero del 18 Marzo 2010)

Da sempre legato a una visione utopistica del comunismo, aveva teorizzato un rapporto di politica e di cultura con una valenza politica: bisognava combattere una cultura intesa come chiusa al mondo, come ebbe a dire il professor Luigi Masiello alla sua commemorazione presso l’Ateneo di Bari, dove De Castris aveva insegnato per anni. Tra le sue opere principali di critica letteraria: “«L’ impegno del Manzoni» (Sansoni, 1963), «Egemonia e fascismo» (Il Mulino, 1981), «Estetica e politica. Croce e Gramsci» (Franco Angeli, 1989), «Storia di Pirandello» (Laterza, 1989), «La critica letteraria in Italia dal dopoguerra a oggi» (Laterza, 1991), «Sulle ceneri di Gramsci. Pasolini, i comunisti e il ‘ 68» (Datanews, 1997), «Gli ossi di Montale» (Manni, 2000), «Una fine sinistra» (Guida, 2001).

(da Wikipedia)

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