Concezione della vita e poetica di Pirandello

Di Mikos Tarsis

Pirandello ha una concezione relativistica dell’uomo, che ne esclude una conoscenza scientifica. L’uomo è troppo assurdo per essere capito (mentre la natura è più semplice, inconsapevole, felice, anche se resta un paradiso perduto e rimpianto).

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Pirandello Concezione della vita
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Concezione della vita e poetica di Pirandello

da Socialismo.info

Essendo siciliano, anche Luigi Pirandello (1867 – 1936), come Capuana e Verga, muove da moduli veristi con novelle paesane, ma da subito il suo verismo è caricaturale e grottesco, inteso a scardinare polemicamente i nessi logici della realtà, soprattutto laddove questi nessi non sono altro che pregiudizi borghesi. I suoi temi di fondo sono già tutti presenti nel suo primo romanzo, L’esclusa (1901), che narra la storia di una donna cacciata di casa dal marito perché ritenuta, ingiustamente, adultera, poi riammessa proprio quando l’adulterio l’ha realmente compiuto.

I temi di fondo sono:

  • il contrasto tra apparenza (o illusione) e realtà (o tra forma e vita), nel senso che l’uomo ha degli ideali che la realtà impedisce di vivere, poiché la realtà si ferma all’apparenza e non permette all’uomo di essere se stesso;
  • l’assurdità della condizione dell’uomo, fissata in schemi precostituiti (adultero, innocente, ladro, iettatore, ecc.): a ciò Pirandello cercherà di opporre il sentimento della casualità o imprevedibilità delle vicende umane; molte sue commedie rappresentano situazioni inverosimili o paradossali, proprio per mettere meglio in luce l’assurdità dei pregiudizi borghesi;
  • le molteplici sfaccettature della verità (tante verità quanti sono coloro che presumono di possederla) espresse col “sentimento del contrario” (che è alla base del suo umorismo e che viene utilizzato per vanificare ogni possibile illusione).

Pirandello ha una concezione relativistica dell’uomo, che ne esclude una conoscenza scientifica. L’uomo è troppo assurdo per essere capito (mentre la natura è più semplice, inconsapevole, felice, anche se resta un paradiso perduto e rimpianto). Il borghese si dibatte fra ciò che sente dentro (sempre mutevole) e il rispetto che deve alle convenzioni sociali (sempre fisse e stereotipate). La “forma” o “apparenza” è l’involucro esteriore che noi ci siamo dati o in cui gli altri ci identificano; la “vita” invece è un flusso di continue sensazioni che spezza ogni forma. Noi crediamo di essere “forme stabili” (personalità definite): in realtà tutto ciò è solo una maschera dietro cui sta la nostra vera vita, fondata sull’inconscio, cioè sull’istinto e sugli impulsi contraddittori. Parafrasando un titolo di un suo romanzo, si potrebbe dire che noi siamo “uno” (perché pretendiamo di avere una forma), “nessuno” (perché non abbiamo una personalità definita) e “centomila” (perché a seconda di chi ci guarda abbiamo un aspetto diverso).

L’uomo, in definitiva, è soggetto al caso, che lo rende una marionetta, che gli impedisce di darsi una personalità. Ogni personaggio teatrale è immerso in una tragica solitudine che non consente alcuna vera comunicativa: sia perché il dialogo non ha lo scopo di far capire le cose o di risolvere i problemi, ma solo di confermare l’assurdità della vita; sia perché ogni tentativo di comprendersi reciprocamente è fondato sull’astrazione delle parole (sofistica), che non riflettono più valori comuni, ma solo la comune alienazione (i dialoghi sono cervellotici e filosofici). D’altra parte, questa è una delle novità del teatro pirandelliano, che lo avvicina molto a quello di Brecht, Ionesco, Beckett…, dandogli una rilevanza mondiale.

Il “sentimento del contrario”, tuttavia, potrebbe portare al suicidio o alla follia, se assolutizzato. Pirandello evita questa soluzione affermando che in un’epoca decadente, dove tutto è relativo, solo un’arte umoristica è possibile, un’arte cioè che sappia cogliere i sotterfugi e le piccole meschinità delle persone, senza però che tutto questo divenga oggetto di riso. L’uomo non può far di meglio: ecco perché merita compassione. L’umorista non solo denuncia il vuoto della società borghese, le costruzioni artificiose con cui cerchiamo di ingannare gli altri e noi stessi, ma ha pure pietà dell’uomo che si comporta così, condizionato com’è dal più generale mentire sociale.
Pirandello non ha mai cercato le cause dell’alienazione che caratterizza tutti i suoi personaggi, presi dalla piccola borghesia (impiegati, insegnanti, ecc.). Egli ne attribuisce, in modo generico, alla storia e al caso la responsabilità. Solo nel romanzo I vecchi e i giovani scorge nel fallimento degli ideali risorgimentali e borghesi di libertà e giustizia, la causa storica e sociale della moderna crisi d’identità.

Aspetti critici

Pirandello ha sì trasmesso la percezione di una realtà come illusione, come insignificanza dell’esistenza umana, come forma impossibile di una verità delle cose, ma, per non apparire tragico, ha usato, a sua volta, l’illusione dell’ironia, dell’umorismo, con cui far credere di poter sopportare tutte le assurdità del vivere quotidiano.

Non c’è novella, se non le ultime, in cui, nel mentre si denuncia il non-senso della vita borghese, non si plauda al fatto che, usando lo strumento illusorio dell’ironia, si possa fingere che quella realtà non abbia contraddizioni così inconcepibili da renderla insopportabile. Se il contenuto della novella o della commedia avesse dovuto portare al suicidio, non avrebbe certo potuto avere un riconoscimento così vasto.

Per Pirandello l’umorismo è stato senza dubbio una valvola di sfogo, un modo per uscire dalla depressione, dalla crisi esistenziale del periodo giovanile, ma è stato anche un’operazione di marketing, che gli ha permesso di conseguire un successo mondiale. Egli aveva fiutato la possibilità d’arricchirsi sfruttando proprio le debolezze della società borghese, trasfigurate magistralmente in chiave comico-ironica, per quanto sempre all’interno di una cornice amara, che in fondo serviva per non rendere troppo surreali le proprie trame (cosa che avrebbe reso difficoltosa l’identificazione coi protagonisti).

Egli aveva trovato un filone d’oro e s’era messo nella condizione ideale di poter produrre lingotti in serie, come la Zecca del Tesoro, semplicemente limitandosi a fare variazioni sul tema. La sua era davvero una recitazione a soggetto, come nella gloriosa commedia dell’arte, con la differenza che gli attori ripetevano le battute decise da lui.

Il cosiddetto “sentimento del contrario”, usato in tutta la sua produzione, ha spesso un carattere alquanto artificioso, funzionale all’esaltazione dell’ironia. Non è una constatazione che parte dalla realtà, anzi, viene usato per attenuare se non mistificare le vere contraddizioni sociali. È una mera operazione intellettualistica, usata ad arte, allo scopo di produrre una sorta di effetto speciale. Pirandello è come un prestigiatore dei diversi casi della vita, i quali, sotto la sua penna, da normali diventano assurdi, e quando sono davvero assurdi, nella realtà, vengono fatti rientrare, grazie all’ironia, nella inevitabilità quotidiana, caratterizzata da un tragicomico non-sense, in quanto la fatalità negativa non è un’eccezione ma la regola. L’eccezione, al massimo, è la casualità positiva, che però, proprio perché eccezione, è destinata a durare poco, anche perché, se durasse troppo, impedirebbe la trasformazione magmatica della realtà in scrittura e quindi proprio il trucco dell’illusionista.

Pirandello ha potuto fare questo proprio perché se fosse rimasto in Sicilia gli sarebbe stato impossibile avere uno sguardo ironico su quella stessa società borghese che lui criticava e che aveva devastato l’isola in maniera infinitamente peggiore di quanto avevano fatto i Borboni. Andando invece a studiare all’estero e vivendo prima a Roma e poi ovunque il successo lo portasse, egli aveva saputo tenere insieme, in maniera originalissima, da un lato la concezione meridionale assolutamente negativa della vita borghese, e dall’altro quella forma di distacco autoironico che aveva la piccola-borghesia urbana, nazionale, e sarebbe meglio dire europea, poiché il successo ch’egli acquisì fu stupefacente, essendo funzionale a un sistema sociale e politico che aveva bisogno di un grande personaggio (in tal caso un letterato e commediografo) che sapesse ironizzare sulle contraddizioni sociali della borghesia, soprattutto dopo che questa aveva portato l’umanità alla catastrofe della prima guerra mondiale.

Un intellettuale come lui non poteva però interessare i regimi nazi-fascisti, proprio perché questi volevano sfruttare le debolezze della borghesia in chiave politica e ideologica, al fine di creare una società borghese più forte, più coerente, più convinta della propria superiorità a livello mondiale. Pirandello poteva interessare al fascismo solo fino al punto in cui evitava di proporre soluzioni non-borghesi alle contraddizioni del capitalismo, ma non poteva più tornare comodo quando, di fronte a quelle stesse contraddizioni, assumeva un atteggiamento rassegnato, rinunciatario. Inevitabilmente, sotto questo aspetto, il fascismo gli preferì D’Annunzio e il nazismo considerò “degenerata” la sua opera.

E altrettanto inevitabilmente la critica letteraria lo ha voluto collocare tra i decadenti (non foss’altro che per il suo opportunismo politico nei confronti del regime, ma ovviamente non solo per questo). Tuttavia non s’è compreso a sufficienza ch’egli aveva voluto fare della sua visione ambigua delle cose, in forza della quale non si può mai essere sicuri dove stia la verità e dove la finzione, un’occasione di business e di riscatto personale, che nulla aveva a che vedere con gli aspetti introversi della letteratura borghese decadente (alla Svevo, per intenderci).

Pirandello non è un uomo che di fronte alle contraddizioni sociali prova una sofferenza che va in profondità, ma è senza dubbio un intellettuale che le sa utilizzare come forma di autoaffermazione: non si piangeva addosso come il Verga. In questo senso resta modernissimo e, se si vuole usare la parola “decadente”, lo si deve fare non in riferimento al suo modo di gestire la cultura, ma solo al rifiuto consapevole di andare sino in fondo nell’analizzare il malessere della vita sociale.

Egli ha saputo teorizzare la follia restando lucido sino alla fine, perché aveva capito, vedendo il consenso “folle” del pubblico, che poteva giocare su questo argomento realizzando una notevole fortuna e uscendo finalmente dalla tetraggine del meridionalismo autoflagellante. Il meglio di sé non lo dà certo quando mette alla berlina la cultura meridionale, quella cultura che gli impediva di affermarsi socialmente.

Il treno ha fischiato

Volutamente esagerata la famosa novella di L. Pirandello, Il treno ha fischiato, apparsa prima sul “Corriere della sera”, nel 1914, poi nella raccolta Novelle per un anno.

Esagerata sin dall’inizio, quando i colleghi di lavoro del ragionier Belluca, che vanno a trovarlo in manicomio, vengono descritti come persone ambigue, superficiali, anzi ipocrite: “volevano sembrare afflitti, ma erano in fondo contenti per quel dovere compiuto”.

Pirandello è un maestro nel descrivere il formalismo borghese, le convenzioni fine a se stesse e quindi prive di senso, l’insincerità di chi concepisce la vita come una sorta di bellum omnium contra omnes. Loro, invece d’essere dispiaciuti, erano contenti che il computista Belluca fosse finito in una casa di cura. D’altra parte l’avevano, insieme al capoufficio, periodicamente torturato (nel senso del mobbing), divertendosi a fargli scherzi e angherie, approfittando del fatto ch’egli era paziente come un mulo.

Pirandello non vede solidarietà di categoria tra impiegati contro il loro superiore, ma reciproca rivalità. Esagerato però infierire su un povero cristo quando questo non avrebbe inciso sulla loro progressione di carriera.

Dunque infierivano, lo sbeffeggiavano, lo umiliavano nei loro momenti liberi, a titolo gratuito, senza motivi particolari, solo perché era un debole, una persona remissiva, come se avessero avuto bisogno di un capro espiatorio su cui scaricare le loro frustrazioni.

Chi è Belluca? Lo stesso Pirandello? Chi sono gli altri impiegati? I funzionari di un regime autoritario? Chi rappresenta il capoufficio? Un monarca? Essendo stata scritta prima della grande guerra, la novella non può certo riferirsi al fascismo, anche se sembra che i paragoni calzino a pennello. Vien quasi da pensare che Pirandello abbia saputo magistralmente anticipare le assurdità di un regime (quello liberale) che cogli anni sarebbe diventato sempre più dispotico, sempre meno in grado di capire le esigenze dei propri sudditi.

In realtà egli stava semplicemente mettendo in luce le assurdità di uno Stato borghese italiano che, a distanza di mezzo secolo dalla sua nascita, aveva creato più contraddizioni di quante ne avesse risolte e che si accingeva a entrare in guerra. Solo che esagerando la negatività di certi suoi aspetti amministrativi, attraverso la caricatura dei suoi impiegati di concetto, egli finiva inevitabilmente con l’anticipare le assurdità del regime fascista, la cui sordità alle istanze di democrazia e di umanità dei cittadini era infinitamente superiore.

Che Pirandello, da buon siciliano, ce l’avesse con lo Stato sabaudo, autoritario, burocratico e fiscale, è fin troppo evidente in questa novella. Il Belluca non viene capito né dal principale, né dai colleghi e neppure dai medici del manicomio (altra istituzione repressiva borghese). Viene capito soltanto da un vicino di casa, con cui era da tempo in buoni rapporti, e che s’accorge subito della finzione dell’amico, proprio perché ne conosceva bene il pesante background familiare ch’egli era costretto a vivere: nel suo appartamento vivevano in tredici, tutti attorno a un unico stipendio, il suo, che non poteva certo bastare e che doveva essere rimpinguato con le entrate di un secondo lavoro, notturno, che trasformava il povero ragioniere in uno straccio, in uno zombie vivente.

Anche nel descrivere questa situazione familiare Pirandello ha voluto esagerare, ma sino a un certo punto, poiché egli ha in mente la sua Sicilia, che dall’unificazione aveva tratto solo miseria, ovvero brigantaggio ed emigrazione. Pirandello aveva capito, dall’alto del suo genio letterario, che se le contraddizioni venivano presentate in maniera esasperata, si poteva sconfinare nel comico, nel paradosso, nell’assurdo, eccitando così la fantasia della mentalità piccolo-borghese, che, essendo individualistica, aveva e ha ancora oggi bisogno, per sopravvivere, per darsi delle ragioni di vita, di situazioni al limite, borderline, che giustifichino il nonsense della vita quotidiana. I testi di Paolo Villaggio non ripetono forse lo stesso schema? E quelli del russo Gogol?

Se voleva farsi strada tra lettori piccolo-borghesi (quelli, beninteso, in grado di leggersi un quotidiano come il “Corriere della sera”), Pirandello non poteva raccontare le reali miserie della sua terra (non l’avrebbero capito o forse, come fu il destino del Verga, non l’avrebbero apprezzato): doveva invece portarle all’eccesso, facendo in modo che qualunque piccolo-borghese della nazione vi si riconoscesse in parte e in parte se ne potesse distaccare, convinto di trovarsi a vivere in una situazione meno assurda, la propria, più sopportabile. Quanto più grandi delle proprie sono le assurdità che si vedono, tanto meglio le si accettano, proprio nell’illusione che non ci riguardino, e anche se vengono generalizzate, ci si può sempre illudere che qualcuno, magicamente, le possa di colpo risolvere. Le novelle di Pirandello aiutavano la piccola-borghesia a relativizzare i propri problemi e, senza volerlo, creavano il terreno psicologico propizio alla nascita della dittatura fascista, cui egli non a caso aderì spontaneamente dieci anni dopo questa novella.

Lo Stato sabaudo e il suo sistema capitalistico l’avevano vinta sui contadini e sugli ambienti pre-borghesi: ora non restava che prenderne atto, cioè non restava che cambiare lavoro, diventare impiegati statali, dipendenti di quell’odiato padrone, cercando di ritagliarsi un proprio spazio vitale.

E fu quello che fece il Belluca, che pur essendo abituato a sgobbare come un servo della gleba (ora in giacca e cravatta), sopportando qualunque vessazione, chiedeva, per non impazzire davvero, che gli si concedessero cinque minuti di follia personale, in cui – diremmo oggi con linguaggio moderno – poteva “farsi dei viaggi”, evadere dalla realtà come un allucinato. Lui avrebbe soltanto garantito il ritorno regolare al trantran quotidiano, a quella sua non solo noiosissima ma anche faticosissima vita, se solo gli fosse stata concessa una pazzia momentanea, periodica, indolore, cioè se solo lo si fosse lasciato in pace con se stesso, permettendogli di sognare ciò che nella vita non avrebbe mai potuto ottenere: viaggiare in treno per il mondo, in cerca di luoghi meravigliosi, lontano da soffocanti parenti e colleghi di lavoro (quel treno che proprio allora era indice di grande progresso, di libertà di azione e di movimento).

Oggi abbiamo bisogno di questa fuga dalla realtà per molto meno, per frustrazioni assai minori a quelle di Belluca, che non penava solo nella vita pubblica (a causa di un ambiente prepotente e irrispettoso), ma anche nella vita privata, dove le contraddizioni non trovavano alcuna valvola di sfogo nell’assistenzialismo dello Stato, che ancora non esisteva.

Questa novella, volutamente esagerata, è una denuncia realistica dei mali dell’emergente Stato unitario nelle zone rurali del Mezzogiorno. È la rappresentazione di un’opposizione al sistema che ormai si pensa possa essere condotta solo a titolo individuale e con gli strumenti debolissimi della fantasia personale, della creatività immaginifica con cui ci si può ritagliare una piccola oasi nel deserto della nuova vita alienata, una semplice illusione che farà restare le cose come sono e che nulla potrà quando esse peggioreranno.

Lumìe di Sicilia

Fa tenerezza e anche rabbia la novella pirandelliana Lumìe di Sicilia del 1910. La prima perché avrebbe potuto concludersi tragicamente, in quanto il protagonista si sentiva tradito; la seconda perché il passaggio dal mondo contadino a quello borghese finisce col modificare in peggio e in maniera irreversibile i sentimenti, anzi i valori della vita.

Forse però, più che il campagnolo Micuccio, il vero protagonista è la cultura che lo ha formato, che in questo caso si esprime nel valore della rassegnazione, che supera le particolarità del carattere. La suddetta transizione viene accettata senza reagire, semplicemente allontanandosene, lasciandola al suo destino, dando per scontato che non sarebbe potuto andare diversamente.

Micuccio Bonavino veniva dalla provincia di Messina e il mondo borghese, quello che veniva dal nord d’Italia e che s’era imposto con la forza, non l’aveva accettato volentieri. Lo si capisce subito da come interloquisce col cameriere dal fare aristocratico. Infatti alla domanda di quest’ultimo di chiarire la propria identità, Micuccio risponde seccato: “C’è o non c’è [Teresina]?… Ditele che c’è Micuccio e lasciatemi entrare”.

Questo non è l’atteggiamento del contadino feudale, deferente nei confronti dell’autorità, ma quello di un contadino “emancipato”, che si è liberato del “servaggio”, anche se, dall’aspetto che mostra (pastrano ruvido, mani senza guanti in pieno inverno, sacchetto sudicio e vecchia valigetta), non ha potuto acquisire una vera posizione sociale. Era soltanto un flautista nella banda del paese. La sua era stata più che altro un’emancipazione virtuale, che di reale non aveva quasi nulla. Il suo, davanti a quel cameriere, era il tentativo di far sopravvivere una dignità in un mondo percepito come ostile.

La novella fa rabbia anche perché nella seconda sequenza, quella del flashback, Pirandello fa capire ch’era stato il mondo contadino a far crescere quello borghese, a promuovere la ricchezza altrui con le proprie risorse, i propri risparmi, la propria fatica, il proprio autosacrificio… Per poi riceverne in cambio che cosa? Nulla. Erano bastati cinque anni per trasformare Teresina da una morta di fame a una affermata cantante lirica, ovvero da una ragazza di buoni sentimenti, innamorata del suo benefattore, a una signora irriconoscente e sessualmente emancipata. Irriconoscente da renderla irriconoscibile, come se si fosse messa una maschera di carnevale.

Lui, in buona fede, l’aveva lasciata andare al conservatorio di Napoli, convinto che lei non l’avrebbe mai dimenticato: aveva impegnato tutti i suoi beni per farla studiare. Un quinquennio inverosimilmente lontani, pagato da un improbabile stipendio da flautista; un giovane ingenuo, ottimista, fiducioso in un proprio avvenire insieme a lei, un innamorato che si accontentava di qualche lettera dell’amata, che stranamente poi non aveva tempo di scrivere…

Forse non c’era bisogno di esagerare su questa ingenuità, su questa generosità, anche perché il lettore finisce coll’avere l’impressione che Micuccio non l’avesse fatto solo per puro altruismo, ma anche pensando al proprio avvenire, come se avesse investito su di sé, puntando sul cavallo vincente. Sicché quando riporta a Teresina la somma che lei gli aveva dato per curarsi della sua malattia, si ha l’impressione che Pirandello l’abbia messo proprio per fugare il dubbio che ci fosse un qualche interesse nella sua generosità. Una vera sciocchezza, poiché lui in fondo si sentiva “fidanzato” da molto prima che Teresina diventasse famosa, per cui non aveva bisogno di farle credere che dietro i suoi sentimenti non ci fosse assolutamente nulla. Se Micuccio era un puro, perché farlo passare per un orgoglioso?

“Eran rimasti d’accordo ch’egli le avrebbe lasciato cinque, sei anni di tempo per farsi strada liberamente: erano giovani entrambi e potevano aspettare”. Aspettare senza mai vedersi? senza mai frequentarsi? Accontentandosi di pochissime lettere, scritte peraltro dalla madre di lei, su cui lei scriveva soltanto due righe? Sì, per Micuccio era così e se in tutto questo tempo Teresina non gli aveva fatto capire che le cose erano molto cambiate, la responsabilità va cercata in Pirandello, che non resiste alla tentazione di voler esagerare le cose.

Ma così facendo che cosa ha voluto farci capire? che il mondo contadino meritava d’essere gabbato da quello borghese? Siamo sicuri che Pirandello volesse dirci che il mondo contadino, pur nella propria semplice ingenuità, aveva altissimi ideali di vita? una grandissima forza di volontà? Da che parte sta questo grandissimo scrittore? Da quella degli illusi buoni di carattere, innamorati dei loro sogni, o da quella del progresso che rende obsolete queste figure sociali? Micuccio è stato tradito dalla irriconoscenza di Teresina o dalla propria concezione utopistica dell’esistenza?

Forse la vera espressione di umanità, in questa novella, non è rappresentata dal protagonista, dipinto con tratti troppo marcati per essere credibile. È la madre di lei, Marta, per lui affettuosamente “zia”, che impressiona veramente. È nel suo modo di fare che ben si vede la drammaticità dell’abisso che separa il mondo rurale da quello borghese.

Quando Micuccio voleva dare tutto di sé per fare la fortuna di Teresina, “zia Marta scoteva amaramente il capo: ne aveva viste tante in vita sua, povera vecchietta, che ormai non aveva più fiducia nell’avvenire [quello promesso, dopo l’unificazione nazionale, dall’ideologia positivistica del progresso]: temeva per la figliola, e non voleva che ella pensasse neppure alla possibilità di togliersi da quella rassegnata miseria”.

Temeva le illusioni, sin dai tempi delle imprese garibaldine contro i Borboni, si potrebbe quasi azzardare. Si era rassegnata alla sconfitta che il regno Sabaudo aveva imposto al Mezzogiorno. Certo, anche lei si era arricchita al seguito della figlia, ma quando vede Micuccio ha un sussulto, s’intrattiene con lui, gli parla, non sacrifica quell’incontro sull’altare della carriera professionale, del successo acquisito. Non vive più solo per lei, ora vive anche per lui, nonostante che lei, Teresina (che aveva persino preso un nome d’arte), “faceva cose grandi”, riportate su tutti i giornali.

Zia Marta gli diede da mangiare, gli ricordò di farsi il segno di croce prima di toccare cibo e non si preoccupò che lo toccasse con le mani sporche e non smetteva di chiedergli notizie sul paese che aveva lasciato. È lei la persona più realistica di questa novella, quella meno idealizzata. È l’anziana di un ex mondo rurale, i cui valori erano rimasti latenti nell’inconscio e che improvvisamente, al vedere Micuccio, riaffiorano d’impeto.

Anche Teresina infatti è poco realistica. Pirandello non vuole amareggiare il lettore con un verismo verghiano. Qui anzi ha voluto accentuare l’indifferenza di Teresina soltanto per rendere più amara la disillusione di Micuccio. La realtà è solo l’occasione di un’ispirazione, il cui svolgimento prosegue secondo propri binari, che alla fine approdano a una finzione surreale. L’importante non è la rappresentazione della nuda realtà, che schiaccerebbe le coscienze impotenti a reagire, ma l’interpretazione che ne mostra i lati più assurdi, per poterne sorridere con amarezza o ironia, a seconda delle circostanze.

Certo Micuccio, vedendo Teresina così fisicamente trasformata, fa fatica a riconoscerla. Ma lei, vedendolo così uguale a se stesso e sapendo bene quanta importanza lui aveva avuto per il suo successo, che bisogno aveva di apparire così fredda e distaccata? Non era forse già famosa? Non poteva interrompere, anche solo per un momento, le formalità, le convenzioni del proprio successo?

Micuccio è stato esagerato nel suo calore, ma Teresina lo è stata nella sua freddezza. Non c’è nessun vero dialogo tra i due, nonostante il quinquennio di separazione e il legame amoroso che li aveva uniti. Lui non riesce a parlare con lei perché la vede troppo diversa, e lei neppure s’accorge che lui esiste.

Cosa voleva farci capire Pirandello? che i meridionali, quando agguantano la fortuna, uscendo dalle loro miserie, assumono un atteggiamento più duro e sprezzante di quello dei settentrionali, già da tempo avvezzi allo stile di vita borghese? e che chi non accetta queste trasformazioni radicali è destinato a uscire dalla storia (Micuccio) o a svolgere il ruolo di mero supporto al successo altrui (zia Marta)?

Micuccio infatti fa pena, tenerezza, compassione… Era come accecato, un sognatore ad occhi aperti, che s’illudeva di trovare un giorno il suo filone d’oro, confidando nella propria pazienza, nella propria tenacia. Un uomo che s’era fissato col suo sogno, col suo obiettivo da realizzare e che non dava retta alla saggezza popolare, ai consigli di amici e parenti. Voleva fare l’idealista a tutti i costi. Un idealista coerente, dignitoso, legato al suo passato, al suo ambiente e ai suoi valori pre-borghesi; non un idealista che pur di raggiungere l’obiettivo è disposto a qualunque compromesso. Il suo ideale era stato quello di favorire al massimo le qualità canore di Teresina, sperando un giorno di poterla sposare, semplicemente perché si era innamorato di lei e forse della propria generosità, cioè di poter aiutare qualcuno in gravi difficoltà.

Già si è accennato alla questione dei soldi. Quando era stato gravemente malato e avuto bisogno d’aiuto per guarirsi, lei gli aveva spedito “una buona somma di denaro”; ebbene, quella parte che lui era riuscito a sottrarre alla rapacità dei parenti, ora aveva intenzione di restituirla. (Triste, en passant, questo antimeridionalismo da parte di un meridionalista come Pirandello, e non perché non ci potesse essere una qualche “rapacità finanziaria” ma semplicemente perché non ne viene spiegata in alcun modo la ragione, sociale, culturale storica…, lasciando così credere al lettore che sia una caratteristica specifica del sud).

Dunque un idealismo dignitoso, che non aveva permesso alla miseria d’abbruttirlo. Forse anche troppo dignitoso, si direbbe anzi orgoglioso, poiché per un momento, vedendo lei così cambiata, lui considera la somma che aveva ricevuto non come il classico aiuto per i momenti di grave bisogno, ma, negativamente, come una forma di “pagamento”, di “restituzione”, insomma una sorta di risarcimento del danno causatogli dal fatto che aveva venduto un lotto e s’era privato di buona parte dello stipendio per far decollare lei verso grandi traguardi. Lui s’era sacrificato con generosità e disinteresse e certamente perché l’amava; lei invece – secondo lui – l’aveva aiutato in maniera formale, distaccata, dimenticando il loro pregresso, la storia vissuta insieme a Messina.

Nel finale Pirandello prende i panni di zia Marta e la trasforma in una Cassandra inascoltata, facendole perdere il suo realismo. Dopo essersi rammaricata profondamente che Micuccio non avesse accettato la nuova situazione, non avesse cioè capito che per una donna così trasformata lui non aveva alcuna speranza e che non doveva sentirsi in dovere di ridarle quanto gli aveva spedito durante la malattia, e soprattutto che non doveva assolutamente vedere in quella generosa offerta nulla che potesse essere messo in relazione ai tempi più tristi – dopo tutto questo, lei si mise a piangere a dirotto, dicendo, “soffocata dai singhiozzi: ‘Non è più per te, hai ragione’… Se mi aveste dato ascolto!” (brutto questo punto esclamativo in una voce che singhiozza).

Perché Cassandra? Perché qui Pirandello fa passare zia Marta per una donna che sapeva già bene a quali risultati avrebbe portato l’abbracciare uno stile di vita borghese. Lei, che era già anziana e che era stata giovane in un mondo rurale, sapeva bene una cosa che lui, già uscito da quel medesimo mondo (essendo flautista comunale), non riusciva invece ancora a comprendere. Lei sapeva, prevedeva che la trasformazione di Teresina sarebbe stata radicale e irreversibile e che il comportamento del fidanzato avrebbe avuto dei prezzi salati, in termini di sentimenti umani, da pagare. Una donna che, a parte l’ultimo quinquennio, aveva vissuto tutta la sua vita nella miseria, conosceva in anticipo gli effetti del frutto della tentazione, cioè sapeva che Teresina avrebbe perso i valori umani di un tempo e che lui, Micuccio, un giorno avrebbe detto che non era più degna di lui.

E se per riconoscenza lei avesse accettato di sposarlo? Come sarebbe potuta andare a finire? Lui l’avrebbe riportata in Sicilia, troncandole la carriera? Avrebbe accettato di vivere a Napoli facendole fare una sfilza di marmocchi? O l’avrebbe seguita nelle sue tournée teatrali, rinunciando al suo misero mestiere di flautista e magari diventando il suo manager?

Perché Pirandello ha voluto far passare Teresina dalla parte del torto? Per quale ragione ha voluto far vedere che il lato sdegnoso e irritato di Micuccio aveva un tasso di moralità superiore agli altri protagonisti della novella? Non è stato forse un atteggiamento un po’ comodo e dunque un po’ superficiale far passare Micuccio per una vittima soltanto perché lei aveva accettato di cambiare radicalmente vita?

Il finale è amarissimo, crudele, e Pirandello, che ci è parso persino misogino, se lo sarebbe potuto risparmiare. Teresina diventa cinica, dominatrice di un ex fidanzato illuso e di una vecchia madre piena ancora di scrupoli inconsci. Non si è soltanto trasformata, è diventata un mostro. Non si stupisce neppure che lui se ne sia andato senza neppure salutarla, anzi lo compatisce (“poverino”) e si serve del suo regalo simbolico, affettuoso (i limoni profumati) per dare sfoggio di originalità davanti ai suoi invitati.

In queste condizioni è facile trasformare gli sconfitti in rappresentanti degli ultimi brandelli di umanità. Qui non c’è più tenerezza, ma solo rabbia nel vedere schematizzata la vita in maniera così banale.

Marsina stretta

La domanda che vien spontaneo porgersi, leggendo questa novella, è la seguente: Pirandello era davvero convinto di poter giustificare il cinismo del professor Gori mostrando che quello dei Migri era molto più grave, oppure era convinto che nell’atteggiamento del professore non vi fosse alcuna forma di cinismo?

Indubbiamente il professore fa la parte del piccolo-borghese progressista, che non crede al destino; non è il borghese conservatore che si serve del destino proprio per riconfermare un potere acquisito. Sotto questo aspetto è facile criticare l’ipocrisia dei Migri, che non dicono il vero motivo per cui il matrimonio non si dovrebbe fare. Per il Gori il modo migliore di vincere l’ipocrisia dei Migri è quello di contrastare il destino, soprattutto quando quelli vanno a cercare, artatamente, dei nessi pseudo-mistici con la religione.

È come una battaglia tra due opposti eserciti: piccola-borghesia (il professore e la sua ex-allieva), grande-borghesia (Andrea Migri e tutti i suoi parenti), dove però i sentimenti, quelli veri, interiori, non hanno alcuna parte. Solo che Pirandello non lo vuol dire. Lui si accontenta di dimostrare che il legame organico tra denaro e religione (ben visibile nella madre di Andrea) veniva più che altro utilizzato per attribuire alla volontà divina la necessità di non celebrare le nozze di Andrea con una di rango troppo inferiore.

Il professore piccolo-borghese ha la meglio, sul piano dell’onestà personale, appunto perché è ateo, appunto perché evita di giustificare delle favorevoli situazioni finanziarie e dinastiche con motivazioni religiose. La novella vuol porsi indirettamente in polemica coi Promessi sposi, poiché con l’idea di contrastare un destino avverso (“codesto matrimonio s’ha da fare ora stesso”), si vuole andare oltre i concetti cristiani di rassegnazione e di provvidenza. Benché dica di esserlo diventato per caso, in un momento d’ira (la manica troppo stretta e alla fine strappata della giacca l’aveva fatto imbestialire), il prof. Gori vuol indubbiamente apparire ateo o agnostico. Naturalmente il fatto che Andrea Migri e Cesara Reis alla fine si sposino in chiesa va qui considerato del tutto irrilevante e non contraddice l’idea di Pirandello di far apparire il professore nemico giurato del destino.

Tuttavia questa forma di ateismo rischia d’apparire come una mera forma di materialismo volgare, come l’altra faccia di una medesima medaglia cinica. E ora bisognerà spiegarlo, esaminando nel dettaglio il comportamento del professore.

  1. Agli occhi dei parenti di Andrea il prof. si rifiuta di passare per “intermediario”, ma di fatto era stato lui a combinare il matrimonio della sua ex-allieva col vedovo, un matrimonio che sin dall’inizio l’aveva pensato come un affare soprattutto per lei, e i parenti di Andrea ovviamente lo sapevano.
  2. La Reis aveva rifiutato tre-quattro volte l’idea di fare l’istitutrice dei figli di Andrea, poiché la situazione le appariva soggetta a equivoci da parte della pubblica opinione (visto che lei era giovane e “bella”, oltre che “virtuosa e modesta”), ma poi, quando s’intromette il suo ex-insegnante (nei cui confronti evidentemente provava ancora un senso di riconoscenza), addirittura accetta subito di sposare il ricco vedovo. È un comportamento strano, che lascia pensare a una mancanza di personalità da parte della ragazza, che per tutta la novella appare come una pedina nelle mani del suo professore, che presume di sapere quale debba essere il destino di lei. Eppure Cesara appariva, in teoria, come una donna emancipata, avendo un titolo di studio che le permetteva d’insegnare: avrebbe potuto sposare tranquillamente un coetaneo. Invece così appare proprio quello che non avrebbe voluto: una venale opportunista, un’approfittatrice. Ancor meno comprensibile è che il prof. accetti di fare da intermediario (stando nettamente dalla parte di Andrea), quando sono in gioco gli umani sentimenti.
  3. Egli ha avuto indubbiamente una caduta di stile quando ha pensato, al sentire la frase del fratello di Andrea (“Sarà andato forse a prepararsi”), che il matrimonio si sarebbe fatto lo stesso, nonostante la morta in casa. Il disappunto dei Migri è inevitabile e giustificato. La loro ipocrisia sta semmai nel fatto che pensano di poterne approfittare bocciando definitivamente l’idea del matrimonio, invece di limitarsi a proporne un rinvio. Ma Pirandello vuol far credere al lettore che nei Migri vi era un’ipocrisia congenita, aprioristica, per cui la conclusione che il prof. Gori aveva tratto da quella frase del fratello di Andrea era legittima.
  4. Il personaggio dello sposo Andrea è particolarmente odioso, poiché in fondo era stato lui che aveva fatto di tutto per avere Cesara come istitutrice e come moglie; poi, quando a lei muore la madre, non muove un dito per rassicurarla sulla necessità del matrimonio, ma anzi si fa persuadere dai parenti ad annullarlo definitivamente. E tuttavia il prof. non fa nulla per chiedere a Cesara se davvero vuol sposare una persona così ambigua e contraddittoria.
  5. Sino a quando non porta la Reis in Comune e in chiesa, il prof. non accetta l’evidenza di non poter fare il matrimonio in quel giorno di lutto. La prende quasi come una sconfitta personale (il fallimento dell’intermediazione). Il suo unico obiettivo, in quella situazione inaspettata, insolitamente disperata, è d’impedire che i Migri possano prendere a pretesto il lutto per annullare il matrimonio. È come se il prof., rappresentante della piccola-borghesia, fosse consapevole che se avesse proposto di rinviare il matrimonio, i Migri avrebbero fatto di tutto per annullarlo. Dunque il problema per lui è soltanto quello di trovare il modo d’ingannare la grande borghesia, cioè quello di non lasciarsi sfuggire un colpo di fortuna (in questo non per sé ma per la propria ex-allieva). La situazione personale della Reis viene vista solo dal lato materiale: il matrimonio le serve per sistemarsi definitivamente.
  6. Il prof. ha dei pensieri blasfemi nei confronti della defunta, la cui gravità non viene attenuata semplicemente perché Pirandello vuol presentarci il personaggio in maniera umoristica, se non addirittura comica. Accusa inconsciamente quella povera donna di aver sottratto alla figlia il diritto a tutte le attenzioni, il privilegio della festa più importante della sua vita. Vede il decesso con crudeltà e quasi vorrebbe imitare il Cristo dei vangeli che col suo “Talità kum” faceva risorgere i morti. Vorrebbe farlo non tanto per riportarla in vita o per far contenta la figlia, quanto per realizzare meglio il suo progetto di intermediazione.
  7. Che il prof. Gori si sentisse una sorte di “salvatore”, in veste laica, è cosa che si percepisce in tutta la novella. La Reis, rimasta orfana di padre a 15 anni, andava salvata dalla miseria e ora anche dalla rovina morale, oltre che materiale. Qui siamo nel 1901: una donna in procinto di sposarsi che viene abbandonata dal promesso sposo, solo perché le muore la madre, non avrebbe destato un senso di pietà ma di commiserazione, che è quella pietà mista a disprezzo. Il prof. doveva per forza svolgere il ruolo di “salvatore” della dignità in pericolo e, per la terza volta, è indotto dalle circostanze a fare la parte dell’intermediario (che spesso sconfina con quella del mezzano o del ruffiano). Non si chiede se sia davvero il caso di sposare un individuo che non ha il coraggio dei propri sentimenti e che si lascia nettamente influenzare dall’egoismo dei parenti. Per lui è più importante salvare le apparenze, impedire che le malignità della gente abbiano il sopravvento sulla reputazione della ragazza e le impediscano di camminare a testa alta.
  8. Cesara Reis appare come l’aspetto interiore di quella coscienza piccolo-borghese che nel professore si manifesta in maniera pubblica ma in forma diversa. Cesara è il rimosso (sofferente, precario) che il professore non può più tollerare nella sua propria vita, avendolo già superato attraverso un impiego statale che gli permette di vivere dignitosamente (anche se non fino al punto da permettersi di fare un regalo di nozze adeguato al ceto sociale rappresentato da Andrea). Tuttavia appartengono entrambi alla piccola-borghesia, con la sola differenza che uno è già “arrivato”, l’altra invece no. Infatti anche Cesara non è convincente sul piano etico. Docente ed ex allieva sembrano avere come principale preoccupazione quella della sistemazione economica. Neanche una volta vediamo Cesara chiedersi il motivo per cui i parenti di Andrea vogliano non rinviare ma addirittura annullare il matrimonio. Non ha mai un colloquio diretto con Andrea: non lo mette mai alla prova, non si chiarisce su alcun aspetto, accetta supina la decisione dell’annullamento e del ritorno a Torino di tutto il parentado di lui. Reagisce solo quando il prof. la induce, con una tattica furbesca, a sposarsi lo stesso: cede alla sua volontà come la volta precedente, senza mostrare alcun carattere, alcuna personalità. Sembra quasi che reciti la parte della figlia addolorata a fianco della madre morta. Sembra essa stessa in una posizione formale, ambigua e il prof. non la toglie affatto, sul piano morale, da questa ambiguità, ma anzi ne conferma il valore finalizzandola al conseguimento di un obiettivo materiale: sposarsi al più presto. Lei è perfettamente consapevole che Andrea ha intenzione di lasciarla sola, eppure accetta ugualmente la proposta del prof. di sposarlo! Solo perché lui ha una fortuna che non è possibile lasciarsi scappare. Qui le differenze di ipocrisia appaiono solo di grado.
  9. Che motivazione può aver avuto Cesara, oltre quella meramente economica, quando decide di sposare uno che di fronte alla proposta del prof. Gori, si guarda attorno, spaesato, per poi dire, con un’arrendevolezza tutta manierata: “Ma… per me, se Cesara vuole…”? Che senso ha per Cesara sposare uno che si dichiara disposto a sposarla solo se lei vuole? Non aveva forse già deciso, per convinzione interiore, di sposarla? E non aveva forse già deciso di accettare, per opportunismo, la volontà dei parenti di non sposarla? E il prof., invece di reagire a queste meschinerie di una morale borghese decadente, cosa dice? “Ecco finalmente una parola che parte dal cuore!”. Che cosa vuol far capire Pirandello al suo lettore? Che solo il prof. riusciva a distinguere l’ipocrisia dalla sincerità? Che solo il prof. conosceva le debolezze dell’alta borghesia, incapace di considerare l’amore al disopra del denaro? Che solo il prof. sapeva come mettere in difficoltà emotiva una borghesia dedita esclusivamente ai traffici? Non è ridicolo che il prof. parli di “cuore” quando la sua stessa proposta era basata sull’interesse o convenienza materiale? Si può riscattare il basso livello morale di un insegnante del genere descrivendolo in maniera tale da farlo risultare simpatico al lettore?
  10. L’opera di persuasione del prof. Gori, che si straccia definitivamente la manica della giacca, ha un che di teatrale, di ridicolo, di ostentato, di artificioso. Paragonare la rottura delle convenzioni alto-borghesi con la rottura della manica del frac sarà umoristico, ma non serve a dimostrare che le intenzioni del docente erano davvero utili a valorizzare i sentimenti della sua ex allieva e del suo stesso fidanzato. La sua proposta riparatrice restava unicamente in ambito giuridico, senza lambire minimamente quello morale: serviva a tutelare un interesse formale, ch’era sostanziale solo nel patrimonio, ma che non aveva nulla di spirituale. Pirandello non può sostenere, come invece ha voluto far credere, l’equivalenza simbolica tra “rottura della giacca” e “superamento dell’ipocrisia”, proprio perché i fatti si sono svolti, alla resa dei conti, in maniera opposta: il prof. ha semplicemente ribadito la necessità di salvare le apparenze, per cui qui, al massimo, vi è soltanto l’opposizione di una convenzione contro un’altra, di un interesse contro un altro. Questa novella pare scritta da un autore che dopo aver trovato, a fatica, una propria sistemazione, non può accettare che il destino si opponga alla volontà di un suo pari, anch’egli intenzionato a riscattarsi come lui dalla miseria, contro la quale, pur di vincerla, ogni compromesso è lecito.
  11. Il subitaneo rivolgimento di fronte, sul finire della novella, è poco convincente. In nome delle apparenze da salvare (l’onore di Cesara che non può essere lasciata sedotta e abbandonata, men che meno in un momento storico in cui la verginità aveva ancora un valore sociale), finalmente alcuni mutano atteggiamento, con grande gaudio dell’irascibile professore. “Subito lo sposo corse incontro [a Cesara], la raccolse tra le braccia, pietosamente. Tutti tacevano. Il professor Gori, con gli occhi lucenti di lagrime…”. Alcuni sono commossi, pietosi, caritatevoli, mentre i parenti di Andrea si sforzano di frenare l’indignazione. Si stava finalmente per compiere un’opera di bene: impedire che una bella fanciulla, modesta e virtuosa, non venisse abbandonata dopo essere stata convinta a cedere, a darsi a un ricco vedovo con figli. Sarebbe stata una sconfitta anche per il professore, che in fondo si sentiva massimamente responsabile di questo matrimonio combinato.
  12. Il finale Pirandello se lo poteva risparmiare. Dopo aver denunciato l’ipocrisia dell’alta borghesia, egli infatti fa capire che il prof. Gori l’aveva fatto solo a causa della marsina troppo stretta, che lo aveva alterato psicologicamente. Dunque solo un caso fortuito lo aveva indotto alla critica! Se avesse avuto un abito su misura avrebbe agito diversamente. Pirandello ha voluto esagerare a bella posta? Sì, ha dovuto farlo, proprio per poter introdurre elementi di comicità in una situazione tutto sommato tragica, che avrebbe richiesto ben altro affronto etico. Infatti, invece di cogliere la morte della madre di Cesara come palla al balzo per esternare il proprio disprezzo verso l’ipocrita morale borghese, il professore, che vuol far la parte del borghese altruista (statale) contro dei borghesi egoisti (privati), non può vincere la sua battaglia che con armi improprie: la goffaggine nel portare un frac che non sente come proprio, lo strappo plateale della manica, l’improvvisato paladino dell’oppressa, l’intermediario che si schermisce, il professore che storpia di continuo il cognome di Andrea… Qui si ha a che fare con un borghese altruista che vuol farsi largo tra borghesi egoisti e che diventa egli stesso egoista, seppur in forme e modi diversi, la cui natura meschina viene da Pirandello minimizzata proprio rendendo comico il protagonista (e facendo passare per “virtuosa” la sua creatura). Quanto consapevolmente Pirandello abbia fatto un’operazione del genere è impossibile dirlo. Noi sappiamo soltanto che lui non è stato capace di sfruttare la morte di quella madre come occasione per realizzare un destino in cui i sentimenti prevalessero sugli interessi economici.

La signora Frola e il signor Ponza

Da questa novella, scritta nel 1915, fu tratta la commedia Così è (se vi pare), rappresentata per la prima volta nel 1917, poi rifatta con ampie varianti nel 1925. Valdana è un paese immaginario, ma si può presumere che l’ambientazione sia in Sicilia.

Con questa novella Pirandello ha voluto far credere ai suoi lettori che possono esistere situazioni in cui è impossibile fare valutazioni obiettive, ponderate, veridiche, per cui in tali casi è meglio sospendere il giudizio (epoché) e lasciare che le cose facciano il loro corso, procedano secondo una propria logica interna, evitando sia di capirle che di modificarle.

Non è da escludere ch’egli, avendo avuto un rapporto molto travagliato con la moglie, volesse difendersi dall’accusa d’essere stato, in qualche modo, responsabile della follia della stessa.

Indubbiamente la novella è un invito alla rassegnazione di fronte a talune situazioni che avvengono in maniera apparentemente inspiegabile o che comunque non sono interpretabili secondo i consueti schemi. È un invito a credere che possono esistere situazioni nei confronti delle quali il buon senso o il senso della gente comune non è sufficiente per capirle.

Il buon senso serve soltanto ad accettarle così come sono, senza intromettersi nella differenza esistente tra ragione e follia, anzi arrivando a considerare ragionevole anche la follia, quella follia che non è soltanto nell’atteggiamento particolare (stravagante) di qualcuno, ma anche nella stessa impossibilità di dare interpretazioni obiettive, oggettive, al cospetto di certi fenomeni o comportamenti. È follia di massa.

Il lettore (e quindi il pubblico) viene invitato a farsi da parte, perché tanto non sarebbe in grado di capire e qualunque tentativo facesse sarebbe falsato in partenza. In tal senso la novella è tristissima, amarissima, ideale per mettere il lettore nelle condizioni di accettare qualunque evento storico, foss’anche sommamente catastrofico, come in effetti fu, specie per l’Italia, quella della prima guerra mondiale.

*

Il Ponza fa la parte del meridionale geloso, che usa la propria rivalità con la suocera Frola per tenere la moglie lontana da tutti, segregata. E questa s’adegua al sopruso, a una mentalità che solo in apparenza è personale, ma che in realtà è espressione di una cultura maschilista dominante.

Pirandello sta dicendo che certi comportamenti meridionali sono assurdi, ma siccome non può dirlo esplicitamente, poiché egli stesso è meridionale e per di più siciliano, preferisce farlo capire attraverso la finzione di una vicenda assurda, che suscita al massimo dell’umorismo.

Qui non c’entra niente il classico diverbio tra suocera e genero: sarebbe stato banale. Pirandello vuol mettere alla berlina i matrimoni siciliani. E lo fa cercando addirittura di mostrare che l’atteggiamento morboso, esclusivo del Ponza era dettato da esigenze d’amore, e che la vera egoista era la suocera, che voleva violare il nido d’amore che lui s’era creato.

Delle due versioni dei fatti quella della Frola è troppo elaborata e cervellotica. Lo è così tanto da rendere inverosimile persino quella del genero, secondo cui la suocera era pazza. A ingarbugliare ulteriormente le cose il fatto che l’autore sovrappone le proprie considerazioni alle dichiarazioni dei due principali protagonisti, sicché alla fine non si comprende più chi stia parlando.

Questa novella è riuscita male perché alla fine appare come un semplice gioco intellettuale, in cui l’autore prova a dir tutto e il suo contrario, dando l’impressione di voler soltanto stupire, di far vedere al suo lettore l’effetto speciale, che è poi un effetto fine a se stesso, quello di confondere le acque, senza mai trovare una via d’uscita. Non a caso i dialoghi sono pochissimi, anche se ovviamente non nella riduzione teatrale.

L’autore ha voluto fare ampie concessioni a periodi lunghi e complessi, carichi di parentesi e subordinate, che esprimono le circonvoluzioni mentali dei protagonisti. La scrittura ha un carattere esagitato: il narratore si rivolge al lettore con continue domande ed esclamazioni; i personaggi si esprimono in maniera molto concitata; l’uso frequente del discorso indiretto libero spinge il lettore a identificarsi coi vari punti di vista degli interlocutori.

Le due versioni avrebbero potuto essere usate come arringhe dell’accusa e della difesa in un processo, o come testimonianze opposte in un racconto giallo o come indovinello di tipo logico, analogo a questo: “Prima di morire puoi fare solo una dichiarazione – disse il generale al soldato semplice: se dirai la verità sarai impiccato; se mentirai sarai fucilato”. E quello, pensandoci un po’, riuscì naturalmente a salvarsi.

Insomma la novella è pura retorica, mero artificio sofistico, ipotesi speculative che non portano da nessuna parte, proprio perché non si vuol giungere in alcun modo alla verità delle cose. La gente vien fatta passare per ingenua, incompetente, incapace di distinguere verità da finzione.

Quali sono gli aspetti più assurdi?

  1. che la moglie – se avesse ragione la madre di lei – finga di essere la sua seconda moglie;
  2. che la madre di lei finga di dover essere pazza, credendo che la figlia sia ancora viva, quando – stando alla sua versione – questa è davvero sua figlia;
  3. che il genero si porti appresso una suocera che, stando alla sua versione, secondo cui la prima moglie è morta, non può avere lo stesso grado di parentela;
  4. che i parenti della moglie l’abbiano riportata al marito, pur sapendo che questi era impazzito (lei stessa era finita in manicomio per colpa di lui);
  5. che il Ponza guarisca dopo il secondo matrimonio simulato.

Ci si può comunque chiedere sino a che punto possa reggere un matrimonio basato sulla finzione. Pirandello illude il lettore di credere che nella finzione, nella menzogna a fin di bene, detta quotidianamente, si possa tenere in piedi una qualunque relazione umana.

Qui non si comprende se davvero Pirandello stesse criticando il matrimonio meridionale o quello borghese dell’Italia settentrionale. Sarebbe interessante verificare se l’autore volesse mettere sullo stesso piano il matrimonio meridionale (qui con tracce tardo-feudali) con quello settentrionale borghese, mostrando che in fondo non sono che due facce della stessa ipocrita medaglia. O forse ha voluto far capire che, pur nella medesima ipocrisia, al sud si evitava il reciproco tradimento coi rispettivi amanti, come invece avveniva al nord?

In tutta questa vicenda chi ci ha rimesso di più, a parte il valore della verità e dell’onestà, è la moglie di Ponza, che resta comunque isolata dal mondo. Qualunque possa essere la verità, lei non ne trae alcun beneficio, proprio perché sono “altri” che le dicono come deve comportarsi. Nella commedia dirà quella famosa frase: “Io sono colei che mi si crede”. Questa non è “oggettivazione del dato” o “spersonalizzazione degli eventi”, ma, al contrario, è una forma di abdicazione alle ipotesi interpretative più arbitrarie. E il fatto di riuscire comunque a convivere, nella reciproca finzione e sopportazione, non salverà la società dal nichilismo.

E comunque, paradosso per paradosso, il più pazzo dei due, per Pirandello, doveva essere quello che apparentemente meno lo sembrava, e cioè la suocera Frola.

Il chiodo

Scritta da Pirandello nel 1936, poco prima della improvvisa morte per polmonite, la novella Il chiodo ha la trama ridotta al minimo, con pochissimi avvenimenti e tutta l’attenzione si concentra sull’interiorità dei personaggi. La novella prende spunto da un fatto di cronaca: l’omicidio compiuto da un ragazzo di Harlem, un quartiere di New York prevalentemente abitato da afroamericani. Non viene detto però che lui fosse nero, né che lo fossero gli altri protagonisti, anzi la vittima ha i capelli rossi.

Questa non ha l’apparenza di una novella come le altre ma del canto d’un cigno stanco di vivere; sembra infatti una sorta di testamento spirituale e non solo della propria concezione di vita ma anche della propria poetica, poiché qui il lirismo si pone ad alti livelli. L’autore vuol fare i conti con se stesso, lasciando anzitutto perdere le riflessioni sull’umorismo, quelle che, in forma letteraria e drammaturgica, lo avevano portato al successo mondiale.

In questa novella allucinata non c’è nulla che faccia ridere o sorridere, non c’è ironia, ma solo amarezza, sconcerto, cui però si cerca in qualche modo di porre resistenza, come sempre è stato nello stile dell’autore. Con la differenza che qui non si reagisce mettendo le cose sul ridicolo, esaltando i paradossi e le assurdità. Qui si vanno a cercare le motivazioni dell’esistere nell’umanità, nella propria interiorità etica, che qui resta, come altrove nella sua produzione, ambigua, contraddittoria.

La novella commuove, fa riflettere, lancia una freccia contro l’insensatezza della vita, ma poi la freccia torna indietro e va a colpire dei nervi scoperti, quelli della coscienza, che vibrano… È questo il Pirandello migliore, quello più tormentato, non adatto al grande pubblico.

*

Nell’esordio il ragazzo, che sino alla fine resterà senza nome, come volesse nascondersi, sta già confessando l’inspiegabile delitto. Aveva semplicemente raccolto per strada un grosso chiodo arrugginito. Sembrava un gesto come altri, non voleva farci nulla. Pura curiosità. Ma, ripensando poi a quello ch’era accaduto, il ragazzo, “fissato negli occhi vitrei il terrore della cosa incomprensibile e inesplicabile”, s’era convinto che in quel gesto non ci fosse stata “casualità” ma “causalità”. L’aveva raccolto “apposta”, proprio perché, subito dopo, svoltando la strada, aveva incontrato due ragazzine che si malmenavano, di cui una sarebbe stata la sua vittima. Come se lui fosse stato una sorta di giustiziere mandato dal destino. Burattini nelle mani del fato: ecco cosa in quel momento pensava Pirandello nei panni di quel ragazzo di Harlem.

Quella di quattordici anni stava picchiando quella di otto, e lui, per dividerle, aveva ficcato nella testa della più piccola il chiodo arrugginito raccolto poco prima, uccidendola sul colpo. Aveva compiuto una cosa orrenda proprio nel momento in cui voleva fare del bene. Il destino aveva capovolto inspiegabilmente le sue intenzioni.

Pirandello qui cerca di ridurre al minimo le possibili obiezioni che il lettore può fare a questa concezione fatalistica degli avvenimenti. Non spiega la dinamica precisa dei fatti, né si sofferma sulle motivazioni dell’agire. Prende le cose alla maniera fenomenologica, così come sono, e si preoccupa soltanto di trasfigurarle psicologicamente, in maniera da renderle irriconoscibili, come solo un grande artista può fare. Non ci dice neppure che in un quartiere violento come quello, l’omicidio non era poi così infrequente. Anzi, vuol farci credere che se anche quello era un quartiere malfamato, l’omicidio (pur preterintenzionale) era stato, per quel ragazzo, una cosa particolarmente angosciosa e sconvolgente.

Pirandello non vuole cercare giustificazioni o attenuanti nel sociale. Il ragazzo non sa neppure spiegarsi perché ha ucciso la più piccola e non la più grande, che pur stava dalla parte del torto. Non conosceva nessuna delle due. Era intervenuto da paciere e aveva finito per fare il boia e per giunta di una innocente. Ecco perché una cosa così assurda l’attribuisce a un destino maledetto, che voleva morti la piccola fisicamente, e lui spiritualmente, nella sua inconsolabile disperazione.

Di fronte al destino le ragioni degli uomini, sia quelle che lo condannano, senza mezzi termini, sia quelle che si sforzano di trovare delle scusanti, gli appaiono inutili, limitative, tutte vere e tutte false. L’unica cosa che davvero lo tormenta e che “si tien nascosta nel più profondo del suo cuore”, è la “disperata pietà” per quella bambina, Betty, l’unica ad avere un’identità riconoscibile, sul cui corpo nessuno però era venuto a piangere. Lui non vuol mostrare i propri sentimenti, meno che mai a chi non potrebbe capirlo, ritenendolo un segno di debolezza, perché così, evidentemente, gli avevano insegnato, specie in quel quartiere, dove la sopravvivenza darwiniana era la prima regola.

Chi rappresentava Betty per Pirandello? Se dicessimo l’oggetto di un torto immeritato, rischieremmo di dire una banalità. Uno non arriva a scrivere una novella su un chiodo, alla fine della sua vita, dopo averne già scritte quindici volumi, se quel chiodo non rappresenta qualcosa di fortemente evocativo. Betty doveva avergli ricordato qualcosa di più e di più tragico, tanto da farlo assomigliare ai grandi tragici greci, Eschilo, Sofocle, Euripide. Quella bambina era una sorta di Ifigenia, sacrificata sull’altare del successo, di cui però, una volta raggiunto, s’era avvertita l’assoluta vanità, la totale inutilità.

Il ragazzo prende consapevolezza di sé dopo essersi reso conto che i valori in cui aveva creduto (quelli borghesi dell’autoaffermazione) non valevano niente. Betty è tutto ciò che Pirandello aveva sacrificato per poter diventare qualcuno e di cui ora si pentiva.

Nella novella i sensi di colpa, i rimorsi vengono sublimati nel misticismo, in maniera confusa, surreale. Lui rivede Betty nel sogno, in quella villa di campagna ove andava a passare le vacanze estive. Ma non era un ragazzo povero di Harlem? Evidentemente no, oppure aveva fatto fortuna. Pirandello descrive un sogno, alla maniera freudiana, ove strani elementi, collocati in uno sfondo rurale, si sovrappongono, in un intrico che solo l’autore può decifrare e forse nemmeno lui.

Betty è in questo grande giardino, vuol giocare con lui, ma ne ha anche paura. Gli presenta la cuginetta, “grassa e brutta”, che lui non può soffrire, e lei ne approfitta per scappare. Ma anche lui fugge, da se stesso, perché in quella casa sarà Betty a prendere il suo posto. Chi è dunque Betty per Pirandello? Una figlia erede? Una figlia di sangue o di arte? Che rapporti aveva con questa figlia? Sta forse egli pensando a Lietta, che nel 1921 aveva sposato un cileno, trasferendosi nel paese di lui? Quella Lietta che aveva tentato il suicidio nel 1915, nei cui confronti Pirandello veniva accusato dalla moglie Antonietta, già internata in manicomio, di avere rapporti incestuosi? O forse Pirandello stava pensando al suo tormentato rapporto d’amore con l’attrice Marta Abba, scoppiato nel 1925, quando lui aveva 58 anni e lei 25? Non portava forse anche lei i capelli rossi? Non fu forse a causa di questa relazione che i rapporti coi figli si fecero molto tesi?

Noi sappiamo solo che Lietta fu ripudiata per le esose pretese dotali del genero cileno. In una lettera indirizzata a Marta ebbe modo di dire parole pesantissime sui figli: “Io non ho avuto altro da loro che amarezze senza fine, e ancora non mi lasciano in pace”.

Nel sogno di questa novella il ragazzo dà la vita per Betty e non potrà più rivederla. Ma il finale è diverso: “Non l’hanno incriminato. Dichiarato libero, il ragazzo non ha dato segno di nulla”, né di epilessia, né di malvagità, come dicevano gli esperti. “È sicuro che lui morrà di pena per Betty [proprio perché non potrà mai più vederla]. Ma forse non morrà. Passeranno gli anni. E forse da grande penserà qualche volta a Betty”.

Insomma, caro lettore, cosa vuoi sapere di me? Ti dico tutto e il contrario di tutto proprio per impedirti di trovare il bandolo della matassa, e quand’anche tu riuscissi a trovarlo, tienlo per te, perché ognuno ha la sua storia e gli altri non possono capirla.

Racconti erotici

Quanto meno Luigi Pirandello meriterebbe d’essere letto per la sua grande padronanza linguistica, che in questi Racconti erotici (21editore, Palermo 2015) raggiunge vette sublimi proprio in ragione del loro argomento “scabroso” (che tale va considerato per il tempo in cui vennero scritti). Solo un grande scrittore poteva permettersi il lusso di trattare con grande maestria un tema che negli anni Venti e Trenta del secolo scorso era un tabù per la stragrande maggioranza della popolazione italiana, contadina almeno al 60 per cento, e di quella meridionale in particolare.

Solo una certa intellighenzia borghese (si pensi a D’Annunzio, ma anche a certe novelle del Verga, in primis “La lupa”) poteva azzardare un proprio sviluppo letterario “libertino”. Vedere il sesso non tanto come organo preposto alla riproduzione della specie, ma principalmente come una fonte di piacere fisico, non era cosa che la cultura dominante, cattolica per definizione, poteva tollerare, salvo appunto le “case di tolleranza” per gli uomini non sposati.

La Chiesa romana chiudeva un occhio sulle “debolezze sessuali” dei rappresentanti del potere politico ed economico, ma a condizione che si salvassero le apparenze. La dicotomia tra apparenza formale e realtà concreta è una costante nei testi pirandelliani, anche in quelli non espressamente erotici.

In taluni momenti la padronanza linguistica gli permette di giustapporre o d’intersecare strategie letterarie tra loro differenti, come la novella, la commedia, una velata autobiografia (la descrizione della signora Piovanelli, nella prima novella, sembra essere quella di sua moglie), il dramma teatrale. Il tutto sempre condito con una sottile ironia, il più delle volte amara.

Emblematico è l’esordio del primo racconto, “L’uscita del vedovo”: neanche tre righe di prosa piana, tipica di una novella classica; poi improvvisamente s’introduce, con un punto esclamativo, un discorso indiretto tra i due protagonisti, che si potrebbe tranquillamente trasformare in un dialogo teatrale. È semplicemente geniale.

Leggendo queste e tante altre sue novelle appare molto nettamente la possibilità di una loro trasposizione verso altri generi letterari e persino cinematografici. A volte addirittura si sfiora la poeticità, come p.es. in questo incipit del racconto “Un cavallo nella luna”. Basta mettergli degli slash per accorgersene: Di settembre / su quell’altopiano di aride argille azzurre / strapiombante franoso sul mare africano / la campagna già riarsa / dalle rabbie dei lunghi soli estivi / era triste: / ancora tutta irta di stoppie annerite / con radi mandorli / e qualche ceppo centenario / di ulivo saraceno qua e là.

Sembra di leggere Quasimodo.

Tuttavia Pirandello merita d’essere letto soprattutto perché rappresenta uno spaccato psicologico di notevole spessore della borghesia italiana degli anni Venti e Trenta. Considerando che ha vinto il Nobel per la letteratura, si può addirittura sostenere che le sue opere abbiano un respiro che va ben oltre i confini nazionali.

Sarebbe infatti un grave errore pensare che la classe di riferimento di questo grande autore sia la borghesia meridionale di cultura cattolica, quella da cui lui pur proveniva. Sarebbe meglio dire che in lui vi è il tentativo freudiano di superare i limiti assiologici di una borghesia europea non più disponibile a riconoscersi, soprattutto in rapporto alla sfera sessuale, nei valori del cristianesimo, sia esso cattolico o protestantico.

Pirandello, in tal senso, sembra essere la trasposizione letteraria (come lo fu Svevo, con cui fa coppia nei manuali scolastici) della critica freudiana al perbenismo borghese, relativamente all’atteggiamento da tenere sulle questioni sessuali. Paradossalmente un involontario anticipatore della liberazione sessuale sessantottina.

Le parti in cui descrive gli indugi, le incertezze, i sensi di colpa…, allorquando deve prendere una decisione che, in qualche maniera, riguardi la sessualità, sono semplicemente meravigliose. Certo, possono apparire un po’ stucchevoli a chi è figlio inconsapevole del Sessantotto, e non conosce la fatica di una transizione socioculturale di portata storica. Possono apparire datate a chi ha investito nella sfera sessuale gran parte della propria “istanza di liberazione” e non ha più intenzione di ritornare sui propri passi, di ripercorrere il suo faticoso cammino di emancipazione. Ma farebbe un torto a se stesso chi non sapesse riconciliarsi, ironicamente, col proprio passato, chi non sapesse rivedersi con sereno distacco, con quel senso dell’umorismo tanto caro alla filosofia di vita pirandelliana, la quale, qui e in ogni dove, offre degli strumenti eccezionali per capire l’evoluzione della storia del costume e della mentalità.

In Pirandello vi è una sorta d’interpretazione soggettiva della sessualità costantemente fatta passare per una constatazione apodittica, secondo la lezione freudiana, appresa quando studiava in Germania: l’inconscio umano è dominato da pulsioni che la religione è sempre meno in grado di controllare.

Il racconto “La trappola” sembra addirittura un condensato, in forma di monologo interiore, di una delle tesi principali del capolavoro di A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione (privilegiato punto di riferimento filosofico di Freud), ove si afferma che l’istinto sessuale è l’arma di cui si serve la natura matrigna per costringere gli uomini a riprodursi, senza mai renderli felici.

L’attrazione fisica sarebbe quindi del tutto indipendente dalla volontà umana; e illusoria la convinzione di poter scegliere un partner adeguato sulla base dei sentimenti dell’amore. Questo perché esistono forze ancestrali in grado di fare degli esseri umani ciò che vogliono. Sicché l’unico modo di resistere a queste ataviche pressioni è quello di non desiderare alcunché, cioè di non volere assolutamente nulla. È la filosofia del misogino, che fa continuamente capolino in tutta l’opera pirandelliana, pur contornata da una manifesta e insistente esigenza, da parte dell’autore, di ottenere un certo successo con le sue opere.

Quando messi a confronto con le donne, gli uomini spesso appaiono come mezze figure, ma proprio questo modo di rappresentarli serve a Pirandello a titolo giustificatorio della propria misoginia.

Ne “L’uscita del vedovo” lo dice chiaramente: le donne fanno “perdere tempo” (a uno come lui, artista della penna e del palcoscenico); creano “impicci” (con le loro esigenze particolari, coi figli che mettono al mondo…); procurano “una certa difficoltà” (e qui è evidente la questione sessuale stricto sensu).

Se nelle sue novelle erotiche la religione riesce ancora ad avere un certo controllo sulla sessualità, lo fa in una maniera piuttosto nevrotica, a motivo dell’arretratezza culturale dell’Italia, cui si devono aggiungere le frustrazioni personali dell’autore in materia. Queste ultime si sono per così dire cristallizzate in uno sfortunato matrimonio con una donna particolarmente gelosa e ossessiva, affetta da deliri di persecuzione, tanto da finire in manicomio.

Si può in un certo senso dire che la moglie e il fascismo rappresentano, culturalmente, il limite oltre il quale Pirandello voleva andare e possibilmente lontano dall’Italia. L’enorme sforzo linguistico-letterario ch’egli fece per dimostrare che questa barriera culturale era assolutamente insopportabile, l’ha portato ai vertici della letteratura europea, anzi mondiale.

Certo, guardando retrospettivamente la sua produzione, dopo l’emancipazione sessuale degli anni Sessanta e Settanta, gli intrecci delle sue novelle oggi possono apparire incredibilmente superati; eppure sono proprio loro che permettono di scorgere le prime crepe che avrebbero fatto crollare la diga.

Come spesso succede in campo letterario, o artistico in generale, il meglio di sé un autore lo dà non quando è libero di scrivere ciò che vuole, ma proprio quando non lo è: basta vedere la letteratura sovietica prima della perestrojka gorbacioviana. Oggi uno come Pirandello, in un mondo, soprattutto quello occidentale, dominato dal permissivismo in campo sessuale, si troverebbe come un pesce fuor d’acqua. Ma è anche per questa ragione che non si trovano più grandi scrittori alle prese con forti lacerazioni interiori da sublimare.

Il rapporto tra i sessi è diventato talmente libero che chiunque si permette di fare osservazioni morali su un argomento del genere, rischia facilmente di apparire obsoleto. La delicatezza letteraria con cui Pirandello affrontava le nevrosi sessuali, oggi verrebbe considerata una superfetazione, un orpello barocco, quando invece stava proprio lì la sua grandezza.

Usare un linguaggio diretto, dire le cose come stanno è un esercizio più semplice di quello che occorre quando il “non detto” deve svolgere la parte del protagonista. Che è poi la differenza tra erotismo e pornografia. In questo Pirandello è un maestro assoluto, soprattutto quando nelle novelle riesce a condensare in poche righe dei drammi esistenziali di ampio respiro.

Naturalmente qui ci stiamo riferendo ai suoi Racconti erotici, che sono però solo una piccolissima parte della sua enorme produzione letteraria, i cui temi esistenziali sono molto vari e complessi.

Di tali Racconti forse l’unica cosa su cui non troveremo mai una risposta definitiva è la seguente: essendoci in ballo degli argomenti osé, possiamo dire che la trattazione indiretta, non esplicita, da parte dell’autore, era una scelta consapevole, utilizzata per dare maggiore enfasi all’argomento, o invece era il frutto di un condizionamento socioculturale, da cui l’autore non poteva in alcun modo prescindere?

In altre parole, se fosse vissuto oggi, Pirandello avrebbe continuato a trattare il tema con la stessa intelligenza soft, oppure, avendo interesse per il successo, avrebbe scelto una soluzione più hard?

Ch’egli fosse consapevole delle sue qualità letterarie è non meno indubbio dell’ambizione nutrita per la notorietà. Di sicuro possiamo dire che oggi Pirandello non avrebbe avuto nei confronti della sessualità le remore provenienti dalla tradizione cattolica. Ma noi sappiamo che il suo ingegno è stato speso al meglio proprio nel modo letterario con cui ha saputo affrontare, superandola, tale tradizione e cultura.

Mikos Tarsis

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