Biografia – Capitolo 4. La maturità: il trionfo del Teatro

        Ormai la fama dello scrittore varca i confini dell’Italia: i Sei personaggi in cerca d’autore sono rappresentati in lingua inglese a Londra il 27 febbraio 1922 al Kingsway Theatre dalla Stage Society, e G.B. Shaw, che assiste a una serata, la consiglia a Brock Pemberton che la metterà in scena a New York al Fulton Theatre nel novembre dello stesso anno con ben 127 repliche.

Indice biografia

Biografia - Capitolo 4
Pirandello dà istruzioni agli attori durante le prove di “La nuova colonia” – 20 marzo 1928

Biografia di Luigi Pirandello

di Giuseppe Bonghi

da Biblioteca dei Classici Italiani

Capitolo 4

La maturità: il trionfo del Teatro

Il 1921 è un anno importante per il teatro italiano: il 10 maggio viene messo in scena al Teatro Valle di Roma dalla Compagnia di Dario Niccodemi Sei personaggi in cerca d’autore, la prima commedia della trilogia del cosiddetto «Teatro nel Teatro» (le altre due saranno Ciascuno a suo modo del 1924 e Questa sera si recita a soggetto del 1930). Alla fine del del secondo atto gli applausi sembrano assicurare il successo pieno anche se non esaltante; Le chiamate, comunque, in scena tra primo e secondo atto sono una quindicina. Ma del terzo atto gli spettatori non capiscono nulla o quasi, e alla fine si scatena una battaglia con fischi del pubblico e urla: manicomio, manicomio!, e battimani dei sostenitori di Pirandello che, rannicchiato nel fondo di un palco insieme alla figlia Lietta, assiste allo spettacolo ed è quasi costretto a fuggire da un’uscita secondaria, accolto da fischi e lanci di monetine. Ben diverso fu l’esito dello seconda rappresentazione, avvenuta a Milano al Teatro Manzoni il 27 settembre. Nell’occasione scrisse Marco Praga: “Il pubblico del Manzoni ha accolto trionfalmente questa strana commedia ch’è, indubbiamente, un’opera d’arte di una originalità rara”. Da allora il successo dell’opera fu assicurato su tutti i palcoscenici del mondo.

Già nel 1917 aveva scritto al figlio Stefano, prigioniero a Plan: … ho già la testa piena di nuove cose! Tante novelle… E una stranezza triste: Sei personaggi in cerca d’autore: romanzo da fare. Forse tu intendi. Sei personaggi presi in un dramma terribile che mi vengono appresso, per essere composti in un romanzo, un’ossessione, e io che non voglio saperne, e io che dico loro che è inutile e che non m’importa più di nulla; e loro che mi mostrano tutte le loro piaghe e io che li caccio via… – e così alla fine il romanzo da fare verrà fuori fatto. Nell’ottobre del 1920 Pirandello, come scrive Maria Luisa Aguirre D’Amico, lavora già al dramma, per cui sarebbe da rifiutare quanto scrive Orio Vergani il 15 dicembre 1936 sul Corriere della Sera che la commedia sia stata scritta in sole tre mattinate consecutive: “Aveva scritto nella mattinata, e finito sotto i nostri occhi, il secondo atto dei Sei personaggi in cerca d’autore. Il giorno avanti aveva scritto il primo atto: l’indomani avrebbe scritto il terzo. E il pomeriggio? Un’altra commedia, in tre pomeriggi.”: quale? non ci è dato saperlo da Vergani. Ma sappiamo quale riservatezza avesse durante la scrittura e sappiamo anche che la mattina era impegnata nella scrittura, il pomeriggio normalmente nello studio e solo nel tardo pomeriggio si trovava con gli amici coi quali usciva per una passeggiata. Nel mese di gennaio con molta probabilità la stesura è terminata e subito dopo, in casa di Arnaldo Frateili, com’è sua abitudine ne dà lettura agli amici.

        I sei personaggi rappresentano ciascuno a suo modo la condizione umana e vengono “rappresentati in diretta”, come fa notare Leone de Castris: nei Sei personaggi in cui per l’unica volta la condizione fluida dell’uomo attinge la rappresentazione diretta, la tragedia sorge da un «caso», da una passione: confermando così, anche nel momento di massima spersonalizzazione simbolica quella dialettica tra situazione e condizione, persona e personaggio, che è la legge interna del teatro di Pirandello.

        Sei personaggi in cerca d’autore – In un teatro, mentre gli attori di una compagnia di prosa stanno provando Il giuoco delle parti di Pirandello, all’improvviso si presentano sei persone, o meglio sei Personaggi, parto della fantasia di uno scrittore che a un certo punto, per stanchezza o deliberatamente, li ha abbandonati: i sei si presentano al Capocomico e per bocca del padre si dichiarano: Siamo qua in cerca di un autore, perché i sei personaggi voglio vivere, almeno per un momento perché chi ha la ventura di nascere personaggio vivo, può ridersi anche della morte. Non muore più! Morrà l’uomo, lo scrittore, strumento della creazione; la creatura non muore più! E per vivere eterna non ha neanche bisogno di straordinarie doti. Il essi vorrebbero che il Capocomico sostituisse l’autore e facesse recitare il loro dramma agli attori: Un “padre”, dopo aver avuto un “figlio”, lascia che la “madre” se ne vada con l’amante. Avranno tre figli (la “figliastra”, il “ragazzo”, la “bambina”). Diversi anni dopo il “padre”, in cerca di facili amori, troverà la “figliastra” in una casa d’appuntamenti.. Il Capocomico si lascia tentare dall’idea di dar corpo alla rappresentazione e si apparta con i “personaggi” nel suo ufficio per stendere una bozza di scenario, mentre anche gli attori lasciano il palcoscenico dando l’idea della fine della prima parte. Il sipario resta alzato.

La recita riprende dopo una ventina di minuti annunciata dal suono dai campanelli del teatro, una volta predisposta una sommaria scenografia; si comincia con la rappresentazione dell’episodio chiave dell’intera vicenda: l’incontro casuale in casa di Madama Pace tra il “padre” e la “figliastra”.  Si organizza la scena e quando è ormai pronta fa la sua comparsa, all’improvviso proprio Madama Pace, come «attratta dagli oggetti stessi del suo commercio», un personaggio che non è in cerca d’autore ma che rappresenta la consistenza inquietante e tangibile della realtà, contro la quale si scaglia la “madre” gridandole ’assassina’. I personaggi provano la scena che viene rifatta dagli attori fra le risate della “figliastra” che non si riconosce nell’attrice Infine il “padre” e la “figliastra” eseguono il finale della loro scena interrotta, con il grido finale della “madre” che evita l’illecito rapporto carnale che i due stanno inconsapevolmente per consumare. Fraintendendo le grida del Capocomico, il macchinista fa cadere erroneamente il sipario, lasciando sulla scena solo il “padre” e il Capocomico stesso.

La rappresentazione riprende per correre filata verso la fine tragica del “giovinetto” e della “bambina”, rallentata solo dalle discussioni tra Padre e Capocomico. Ma se da un lato ai personaggi gli attori sembrano falsi, perché recitano a modo loro un dramma che sentono ciascuno a suo modo, dall’altro agli attori sembra finzione il dramma dei personaggi. Il dramma si chiude con l’apparizione finale dei quattro Personaggi sul palcoscenico a luci spente, illuminato solo da un riflettore verde; anche il Capocomico schizza via atterrito dal palcoscenico; si spegne il riflettore e rimane accesa una luce notturna azzurrina. Per ultima apparirà la figliastra che guarderà verso gli altri tre ed esploderà precipitandosi poi giù per la scaletta; correrà attraverso il corridojo tra le poltrone; si fermerà ancora una volta e di nuovo riderà, guardando i tre rimasti lassù; scomparirà dalla sala, e ancora, dal ridotto, se ne udrà la risata. Poco dopo calerà la tela.

Nei primi mesi di quello stesso anno Lietta conosce l’addetto militare dell’Ambasciata (o Legazione) del Cile presso il Quirinale, il maggiore Manuel Aguirre. Le piace andare alle feste dell’Ambasciata: presto diventerà, lei, piccola, graziosa, che veste e si comporta così bene, figlia di uno scrittore italiano di cui tanto si parla, la beniamina degli Ambasciatori, e i colleghi del marito faranno a gara per esserle presentati. Lietta è contenta, è appagata… Pronuba di questo matrimonio fu una signora Cilena, Olga Prieto (sposata Asaro) e venuta in Italia per studiare l’arte del bel canto e conosciuta da Lietta quando i Pirandello abitavano ancora al primo piano di via Torlonia. Olga Prieto abitava in una palazzina adiacente il villino dove era l’appartamento dei Pirandello. Fu forse il suo italiano frammisto di spagnolo a richiamare alla mente lo strano linguaggio usato dallo Spagnuolo e da Pepita Pantogada nel Mattia Pascal e di metterlo in bocca a Madama Pace. (Maria Luisa Aguirre d’Amico, cit.)

Proprio in questo stesso mese di maggio Lietta si fidanza e a metà luglio si sposa nella basilica costantiniana di S. Agnese (come era allora prescritto, il matrimonio avvenne in due giornate, prima con rito civile e poi religioso, il 14 e 16 luglio). La partenza per il viaggio di nozze segnò il primo vero allontanamento da casa e un distacco doloroso da suo padre. L’anno dopo i due coniugi dovettero partire per il Cile rientrando in Italia solo nel 1925 dopo che aveva avuto il primo figlio, Manolo, che morì a soli tre anni per le ferite riportate durante la nascita per un uso maldestro del forcipe.
Pirandello resta senza una presenza femminile in casa e la partenza di Lietta è un colpo durissimo. Poco dopo Stefano sposa Olinda Labroca, fine musicista, sorella di Mario Labroca che era stato suo compagno di studi al Convitto Nazionale; i due sposi vanno ad abitare in via Pietralata e sarà Olinda a prendere le redini di casa Pirandello che dopo qualche mese viene allietata dalla nascita della primogenita di Stefano, Maria Antonietta, lo stesso nome di sua madre, a dimostrazione di un amore che le dolorose vicende trascorse e la crudele malattia non hanno scalfito.

Fra l’ottobre e il novembre 1921 scrive l’Enrico IV, la cui trama di fondo, ma senza il finale, aveva già anticipato in una lettera all’amico Ruggero Ruggeri, per il quale l’aveva pensata e scritta, definendola una delle sue commedie più originali. All’inizio di febbraio la legge agli attori che la metteranno in scena il 24 febbraio al Teatro Manzoni di Milano: è la Compagnia Nazionale diretta da Virgilio Talli, nata dalla fusione della Compagnia di Ruggeri con quella di Alda Borelli. Enrico IV è il primo e incontrastato trionfale successo di Luigi Pirandello, sia a Milano che a Roma, dove la commedia viene rappresentata dalla Compagnia di Uberto Palmarini.

       Enrico IV – Il dramma ha un antefatto: un avvenimento accaduto al protagonista più di diciotto anni prima: un giovane gentiluomo, che impersona Enrico IV di Germania in una sorta di cavalcata storica, durante i festeggiamenti di Carnevale, cade da cavallo per colpa di Belcredi, suo rivale in amore; batte la nuca e per dodici anni crede di essere davvero l’imperatore Enrico IV. Vive, quindi, rinchiuso in una villa isolata, ristrutturata in modo da sembrare la residenza imperiale di Goslar, in compagnia di quattro finti Consiglieri Segreti, un vecchio servitore e due valletti, tutti impegnati ad assecondare la sua follia e a vivere la creazione di quell’atmosfera storica, comunque mai uguale. Recuperato improvvisamente il senno, l’uomo decide di rimanere Enrico IV, per non subire le difficoltà di un rientro nella realtà.

        Primo atto – La sipario si apre sulla sala del trono, dominata da due quadri che rappresentano a grandezza naturale «Lui» travestito da Enrico IV e «Lei» travestita da Matilde di Canossa, nella quale si trovano i due valletti e i quattro finti Consiglieri, Landolfo Arialdo Ordulfo e Bertoldo, quest’ultimo al suo primo giorno di lavoro, nuovo in sostituzione di Adalberto, impersonato da un certo Tito morto da poco, e ignaro perché credeva di trovarsi al tempo di Enrico IV di Francia. I tre cercano di mettere subito Bertoldo a proprio agio, facendogli una veloce ripassata storica; all’improvviso entra Giovanni il maggiordomo (in abiti del Novecento) che annuncia ai sei l’arrivo della Marchesa Matilde Spina (vedova da molti anni) con sua figlia Frida accompagnata dall’amico barone Tito Belcredi e dal medico Dionisio Genoni, tutti convocati dal Marchese di Nolli, nipote di “Lui” (che era fratello di sua madre deceduta da circa un mese facendo sospendere il matrimonio tra il Di Nolli e Frida). Entrando nella sala Matilde va a guardare il quadro che la ritrae da giovane e si accorge che somiglia moltissimo a Frida; intorno al quadro e alla rassomiglianza si accende una piccola discussione, interrotta dal Di Nolli che richiama tutti al motivo per cui si trovavano in quella sala, cioè la visita al malato Enrico IV. Intorno al quadro il dottore fa qualche domanda e viene a conoscere tutto l’antefatto: molti partecipanti alla cavalcata, avvenuta 22 o 23 anni prima di quella visita (il quadro venne regalato da Matilde alla sorella di Enrico IV 18 anni prima, 3 o 4 anni dopo la disgrazia), si fecero fare quel quadro. L’idea della cavalcata venne proprio a Belcredi e ciascuno si scelse il suo personaggio: Matilde scelse quello di Matilde di Canossa e “Lui” quello di Enrico IV per poterle stare vicino e continuare a farle la corte: era un ’serio’ in mezzo a persone sciocche e un po’ vanesie. Il suo corteggiamento comunque non veniva preso molto sul serio da Matilde. La rievocazione della disgrazia si conclude: il cavallo si impenna, “Lui” viene trasportato in villa, finita la cavalcata tutti accorrono in villa recitando ciascuno la parte che si era assegnata quando compare “Lui” che recita la sua meglio di tutti, fino a sfoderare la spada e ad avventarsi su due che sghignazzavano più di altri: tutti si rendono conto della tragedia e hanno un momento di terrore. All’improvviso compare Bertoldo che chiede al Di Nolli di poter abbandonare il suo posto di lavoro: “Lui”, montando su tutte le furie, ha dato ordine che venga arrestato e vuole giudicarlo subito sedendo al suo posto sul trono. Matilde e il dottore (che diventa Ugo di Cluny) devono vestire gli abiti d’epoca per potersi presentare nella sala del trono, oppure andarsene. Belcredi decide di vestirsi da benedettino. Ad un certo punto Arialdo annuncia finalmente l’imperatore: l’attesa è finita! Enrico IV compare e recita la sua scena da consumato attore, con repentini cambiamenti di toni e di voce e puntando la sua attenzione soprattutto su Belcredi-benedettino che “Lui” chiama Pietro Damiani. È quasi un soliloquio, che rievoca fatti e situazioni storiche, che mettono in imbarazzo i presenti che non sanno assolutamente cosa fare e come reagire. Quando ha finito di parlare e ottenuto di essere ricevuto dal Papa, vede Belcredi che si avvicina per sentire meglio: subito Enrico IV, supponendo che voglia rubargli la corona imperiale posata sul trono, tra lo stupore e lo sgomento di tutti, corre a prenderla e a nascondersela sotto il saio, e con un sorriso furbissimo negli occhi e sulle labbra torna a inchinarsi ripetutamente e scompare. Così l’atto si chiude.

Il secondo atto si apre con la scena ambientata in una sala vicina a quella del trono; sono in scena Dona Matilde, il Dottore e Belcredi, colei che vive e capisce, colui che crede di capire secondo l’ausilio della scienza e colui che è spinto dall’istinto e per questo non capisce. Il dottore cerca di capire il comportamento di “Lui”, Matilde ha invece capito capito tutto, ma viene compatita: ha capito che lui l’ha riconosciuta quando le ha parlato dei capelli tinti che una volta erano bruni come quando era giovane, e ancora una volta sono stati i suoi occhi a farle leggere la verità. Alla realtà subentra la finzione: Bertoldo annuncia l’ingresso della Marchesa Matilde di Canossa, cioè Frida che veste i panni indossati da sua madre ventidue anni prima durante la famosa cavalcata della disgrazia: bellissima e identica alla donna raffigurata nel quadro. L’illusione del passato che si sovrappone al presente è perfetta. I tre chiedono licenza di allontanarsi ma contrariamente alle aspettative si presenta lo stesso Enrico IV: viene svelato l’amore segreto di Enrico IV per Matilde, un amore corrisposto, se è vero che la stessa Marchesa intercede presso il Papa perché gli venga concesso il perdono e tolta la scomunica. All’uscita dei tre Enrico IV prorompe in un grido: “Buffoni! Buffoni! Buffoni!”, lasciando attoniti spettatori e compagni presenti (i finti consiglieri e le finte guardie) rivelando di non essere il matto che credono e di non aver potuto rivelare mai la sua guarigione per salvaguardare la propria essenza umana. Per “Lui” Matilde e Belcredi non contano più nulla; tuttavia il ricordo della giovinezza perduta gli brucia; per di più sa che la caduta non fu accidentale e vorrebbe vendicarsi. Ma la vendetta a freddo non è nel suo carattere. Quando infatti compare il servitore Giovanni, vestito da umile fraticello, la commedia (secondo Enrico IV) e lo scherzo (secondo i finti Consiglieri) continuano.

        Col terzo atto si ritorna nella sala del trono. La Matilde di adesso non rappresenta più nulla: per lui la Matilde di allora è la Frida di adesso, ed è Frida che viene coinvolta a rappresentare la Matilde di allora nel tentativo di ricreare in “Lui” quello shock che possa riportarlo alla “normalità. Enrico IV sta attraversando la sala del trono, illuminata solo da una lampada che “Lui” stesso regge in una mano, per recarsi nella sua camera per la notte, si sente improvvisamente chiamare: al posto del quadro rappresentate la Marchesa si trova Frida e al posto del quadro di Enrico IV si trova  il nipote Di Nolli. La finzione non è più possibile, Frida grida la sua paura: al suo grido rientrano tutti e tutti sanno che Enrico IV è guarito perché lo hanno rivelato i suoi “consiglieri”.  Appare il contrasto tra passato e presente, tra la vita che altri hanno vissuto e il tempo trascorso che “Lui” non ha vissuto, rappresentati da Matilde e Frida. Quando alla fine afferra Frida e la abbraccia, Belcredi si avventa su di lui, Enrico lo trapassa con la spada tolta ad uno dei suoi “Consiglieri”: ora che ha ucciso, è condannato a non abbandonare mai più la finzione, a restare per sempre Enrico IV.

Ormai la fama dello scrittore varca i confini dell’Italia: i Sei personaggi in cerca d’autore sono rappresentati in lingua inglese a Londra il 27 febbraio 1922 al Kingsway Theatre dalla Stage Society, e G.B. Shaw, che assiste a una serata, la consiglia a Brock Pemberton che la metterà in scena a New York al Fulton Theatre nel novembre dello stesso anno con ben 127 repliche.
Nel 1922, oltre all’Enrico IV, vengono rappresentati ancora tre drammi: il 29 settembre al Teatro Argentina di Roma dalla Compagnia di Lamberto Picasso All’uscita, un atto unico apparso sulla Nuova Antologia nel novembre 1916, che può essere considerato più di altri l’atto di nascita ufficiale del teatro pirandelliano: è un dialogo di morti, insolito e assoluto che si richiama a una totale umiltà e vuol essere l’esplicito messaggio del “mito di una realtà ridotta a pura parvenza”. Il 10 ottobre va in scena al Teatro Quirino di Roma, con la compagnia di Alfredo Sainati L’imbecille, tratto dalla novella omonima pubblicata nel 1912 sul «Corriere della Sera», un dramma in cui l’intensa angoscia della vita e della malattia sono mescolati con la satira politica, condotta con piglio grottesco e triste ironia, che non nasconde una protesta contro certi costumi politici. Il 14 novembre va in scena, sempre al Teatro Quirino di Roma, Vestire gli ignudi, con la Compagnia di Maria Melato e Annibale Betrone. Ancora un suicidio, determinato dalla falsità dei rapporti umani, mancando i quali ciascuno di noi è nudo.

        Vestire gli ignudi – “Ognuno è un’anima nuda e sente la necessità di rivestirsi di un abito di rispettabilità, di qualità apprezzate dagli altri, per dare un senso alla propria vita e sentirsi concretamente qualcosa.”

Intorno a questo principio, che domina le azioni di Ersilia Drei, si svolge la trama della commedia in tre atti Vestire gli ignudi. …

Ersilia per tutta la vita si è sentita un nulla: «non ho mai avuto», afferma, «la forza di essere qualche cosa»; è stata sempre come l’hanno voluta gli altri. Il tenente di vascello Franco Laspiga si fidanza con lei che era governante in casa di Grotti, Console italiano a Smirne, e le dà per breve tempo l’illusione d’essere qualcosa. Ma poi la lascia ed Ersilia cede alle insidie del Console Grotti che la possiede. E proprio per averla distolta – in preda a una torbida passione – dalla vigilanza della figlia, la bambina sale su una sedia e precipita dalla terrazza nel vuoto. Ersilia è ossessionata da questa morte, la Signora Grotti la scaccia. In preda all’orrore per la tragedia vissuta si dà in strada al primo venuto. Lo schifo per la sua miserevole vita la spinge infine a tentare d’avvelenarsi. All’ospedale, ormai certa di morire, racconta una dolorosa storia d’amore per cingersi in qualche modo d’un alone romantico di martirio: s’è uccisa perché abbandonata dal Tenente di Vascello Franco Laspiga. Un’intera pagina d’un giornale racconta la sua storia tragica, suscitando generale commozione; ma sconvolgendo anche la vita di Franco Laspiga, che preso dal rimorso abbandona la fidanzata che sta per sposare e corre da Ersilia, sopravvissuta all’avvelenamento, per riparare; nonché del Console che ambiguamente fa ampie smentite ai giornali, ma si precipita anche lui da Ersilia per riaverla. Ersilia ne è sconvolta, non vuol ritornare a vivere con nessuno dei due. Dice a Franco Laspiga: «Perché non puoi capire tu questa cosa orribile, d’una vita che ti ritorna, così… come… come un ricordo che invece d’esserti dentro, ti viene… ti viene, inatteso, da fuori… Così cangiato, che stenti a riconoscerlo. Non sai più trovargli posto in te perché anche tu sei cangiato … ».

La notizia che era stata l’amante di Grotti, sconvolge Laspiga che tratta Ersilia da sgualdrina e fa perdere alla protagonista la pietà di cui era circondata. Ora la giudicano una donnaccia colpevole della morte della bambina che le era stata affidata.

Il continuo mutare dei sentimenti e degli stati d’animo; la presa di coscienza di Ersilia che non vuol essere causa di male agli altri e si ribella al soccorso che le offrono i due uomini, esclamando: «Mi vorreste condannare a essere quello che io volli uccidere? No, no, basta quella!»; la sua convinzione che Franco non ha colpe, perché di ciò che accade ha colpa la vita, rappresentano il tessuto ideologico della commedia, riscattato in poesia dalla sofferenza. Ersilia sarà costretta ad avvelenarsi di nuovo e negli ultimi istanti di vita, mentre parla con superiore distacco di quanto è accaduto, tutti le si rifanno intorno commossi e comprensivi.

Ersilia aveva tentato di coprirsi «con un abitino decente” inventando la sua morte per amore, ora anche quello le è stato strappato ed è rimasta nuda. Non vuol più sentire e vedere nessuno e conclude il suo nobile soliloquio finale – di grande effetto scenico e di intensa poesia – dicendo ai due pretendenti: «Andate, andatelo a dire, tu a tua moglie, tu alla tua fidanzata, che questa morta – ecco qua – non s’è potuta vestire». (I. Borzi)

Colla data del 1923, ma in effetti nel novembre dell’anno precedente, Adriano Tilgher pubblica l’opera Studi sul teatro contemporaneo con la quale offre la prima interpretazione del teatro pirandelliano, che qualche mese prima era stata anticipata in un pomeriggio mondano a Roma. Il pomeriggio del 12 aprile 1922 la Roma intellettuale ed elegante affollava i locali dalla Galleria Giacomini in piazza Madama. Si inauguravano le Stanze del Libro e, dopo i discorsi ufficiali, Adriano Tilgher avrebbe parlato dell’arte di Luigi Pirandello. Tilgher parlò dell’umorismo e del rapporto tra la filosofia e l’arte di Pirandello, chiarì come nella sua opera fosse presente il «contrasto tra l’eterno fluire della vita e i singoli eventi in cui esso di volta in volta si congella. Guai alle creature che per sé o per gli altri rimangono agganciate e fisse in un singolo fatto della loro vita senza potersene staccare». È da queste idee, affermava Tilgher, che nascono i Sei personaggi e l’Enrico IV.

Adriano Tilgher – L’antitesi è perciò la legge fondamentale di quest’arte. L’inversione dei comuni ordinarii abituali rapporti della vita trionfa sovrana. [ … ]

Dualismo della Vita e della Forma o Costruzione; necessità per la Vita di calarsi in una Forma ed impossibilità di esaurirvisi: ecco il motivo fondamentale che sottostà a tutta l’opera di Pirandello e le dà una ferrea unità e organicità di visione.

Ciò basta da solo a far comprendere di quanta freschissima attualità sia l’opera di questo nostro scrittore. Tutta la filosofia moderna da Kant in poi sorge sulla base di questa intuizione profonda del dualismo tra la Vita, che è spontaneità assoluta, attività creatrice, slancio perenne di libertà, creazione continua del nuovo e del diverso, e le Forme o Costruzioni o schemi che tendono a rinserrarla in sé, schemi che la Vita, di volta in volta, urtandovi contro, infrange dissolve fluidifica per passare più lontano, creatrice infaticata e perenne. Tutta la storia della filosofia moderna non è che la storia dell’approfondirsi del conquistarsi del chiarificarsi a se medesima di questa intuizione fondamentale. Agli occhi di un artista che di questa intuizione viva – è il caso di Pirandello – la realtà appare nella sua stessa radice profondamente drammatica, e l’essenza del dramma è nella lotta fra la primigenia nudità della vita e gli abiti o maschere di cui gli uomini pretendono, e debbono necessariamente pretendere, di rivestirla. La vita nudaMaschere nude. I titoli stessi delle opere sono altamente significativi.

        Se in un primo momento l’analisi tilgheriana piacque al Pirandello, ben presto gli sarebbe però sembrata troppo ristretta e limitativa sia perché troppo si rifaceva alla sua produzione fino al 1922 sia perché chiudeva la sua arte in un ambito dal quale sarebbe stato impossibile uscire. Qualche anno dopo, nel 1927, arriveranno alla polemica e praticamente alla rottura perché Tilgher pensa, e a molti lo fa pensare, di essere stato lo scopritore dell’arte pirandelliana e quasi l’artefice del suo successo. Nel ’28 fra i due scende il silenzio, anche perché Pirandello sceglie un volontario “espatrio”.

Fra gennaio e febbraio del 1923, tratta dalle novelle La camera in attesa (pubblicata nel 1916 sulla rivista «La lettura») e I pensionati della memoria (pubblicata sulla rivista «Aprutium» nel 1914) scrive La vita che ti diedi per Eleonora Duse, che nel 1921 era tornata alle scene: ma i mesi passano senza che l’attrice dia una risposta. Intanto trae dalla novella La morte addosso, pubblicata su «La Rassegna italiana» il 15 agosto 1918 col titolo Caffè notturno, l’atto unico, considerato unanimemente fra le migliori opere pirandelliane, L’uomo dal fiore in bocca, che viene messo in scena da Anton Giulio Bragaglia al Teatro degli Indipendenti di Roma dalla Compagnia degli «Indipendenti” diretta da Anton Giulio Bragaglia il 21 febbraio. L’incontro fra “l’uomo” e “l’avventore” fa intuire la profonda drammaticità del personaggio. Un uomo colpito da epitelioma sa che dovrà morire da un momento all’altro e vive i suoi ultimi giorni in un disperato delirio, come assente dalla propria vita ma mostrando un disperato attaccamento alla vita stessa colta nei suoi atti e gesti più semplici umili e quotidiani, come quelli di una commessa che fa un pacchetto e lo guarnisce di nastri: L’uomo dal fiore in bocca è veramente colui che è capace di cogliere i sensi più riposti della vita.

Subito dopo, parte per Parigi (per la prima volta varca i confini dell’Italia per seguire il suo teatro) dove il 5 aprile assiste alla prima dei Sei personaggi (Six personnages en quête d’auteur), con la traduzione di Benjamin Crémieux, al Théatre de la Comédie des Champs Élisées con la direzione di Georges Pitoëff (attore e regista). Al banchetto in suo onore, come scrive alla figlia Lietta che si trova ancora in Cile, partecipano ministri uomini politici, l’Ambasciatore italiano, letterati e artisti di Francia e gli viene conferita la Legion d’onore. Parigi tributa il definitivo trionfo al dramma: è un successo strepitoso che affermerà la fama nel mondo di un Pirandello che raccoglie trionfali accoglienze. “Son ritornato da Parigi, non tanto stanco – scrive alla figlia Lietta in Chile – quanto turbato e commosso dalle accoglienze che mi sono state fatte, veramente trionfali, come avrai potuto vedere da alcuni ritagli di giornali che ti mando e che ti prego di conservare. È il primo caso, e veramente d’inaudita eccezionalità, che uno scrittore italiano sia rappresentato contemporaneamente in due teatri di Parigi. E le repliche dei due lavori saranno innumerevoli”.

 Ormai il «dramma da fare» è rappresentato nelle maggiori città d’Europa.
Il 12 ottobre 1923 viene rappresentata al Teatro Quirino di Roma La vita che ti diedi da Alda Borelli, una tragedia che è imperniata tutta sull’amore materno, un figlio che ritorna dopo sette anni completamente cambiato fino ad apparire un estraneo e muore poco dopo il ritorno:

        La vita che ti diedi – Primo atto – Donne alla veglia di un giovane che sta per morire e dolore per la sua morte. Durante la veglia veniamo a conoscere l’antefatto: partito sette anni prima per studi per Firenze si innamora di una donna sposata, la signora Maubel, che dopo un po’ di tempo deve seguire il marito a Liegi; il giovane la segue. Il cadavere è vegliato dalla madre, che non riconosce in quel corpo Fulvio, il figlio partito sette anni prima così bello e giovane e pieno di speranze e pensa che sia un’altra persona; per questo decide di farlo seppellire nudo, semplicemente avvolto in un lenzuolo: suo figlio vivrà con lei e dentro di lei finché lei stessa avrà vita. Oggi la madre non ha più lacrime, perché ha già pianto per sette anni, quanti ne sono passati dalla sua partenza, e al ritorno arriva un figlio completamente diverso, anche nel fisico, da quello che lei ricordava e amava, perché il figlio che lei amava era rimasto con “quella là”, la donna che amava. Ricordarlo significava per la madre dargli ancora un po’ di vita, come dal principio, come sempre: la morte non può essere la cancellazione totale, ma la vita che va al di là della morte fisica, una vita tessuta d’amore reciproco. All’improvviso arriva una lettera di “lei”, la donna del figlio, che negli ultimi tempi aveva manifestato il desiderio di abbandonare figli e marito e di raggiungerlo, con la quale annuncia la sua prossima partenza. La madre decide allora di scriverle.

        Secondo atto – Con il cameriere Giovanni dispone delle piante per rendere più accogliente la casa: andrà lei stessa ad accoglierla alla stazione e per prima cosa le chiederà di seguirla a casa. Intanto arrivano i figli di Donna Fiorina, sorella di donn’Anna, anch’essi partiti per la grande città, ma solo da circa un anno. Donna Fiorina prova davanti ai figli la stessa sensazione di estraneità davanti al grande cambiamento che hanno subito, ma cerca di non pensarci, anche se le battute di Elisabetta gliela portano sempre alla mente. Ad un certo punto i due giovani, mentre si va spegnendo la luce del giorno, scorgono il lume acceso nella stanza vicina e chiedono se è quella la stanza dove è morto Fulvio: ma non di morte si parla: bensì di vita e quel lume rappresenta una situazione ben precisa: i figli che partono, muojono per la madre. Non sono più quelli! mormora Elisabetta, e Donna Fiorina si mette a piangere, un pianto che i figli pensano dovuto al dolore per la sorella: subito dopo i tre abbandonano la casa. Poco dopo arrivano Lucia Maubel e Donn’Anna dalla stazione. Lucia è frastornata dall’assenza di Fulvio; le due donne si parlano e Lucia confessa di essere in attesa di un bambino proprio di Fulvio e racconta del marito e dei suoi maltrattamenti e di non farcela più ad essere di tutti e due. Accetta quindi di passare la notte e vuole passarla proprio nella camera di Fulvio: Donn’Anna guarda la porta chiusa della camera del figlio e con il viso d’un ilare divino spasimo sa che il figlio vive anche in Lucia come in lei.

        Terzo atto – Il mattino dopo arriva la madre di Lucia, Francesca Noretti, che alla stazione aveva saputo della morte di Fulvio. Fra le due madri c’è un drammatico confronto. All’improvviso esce Francesca dalla camera di Fulvio: durante la notte lo aveva sognato e aveva sentito la sua morte. In questo modo Donn’Anna si rende conto che il figlio è ormai morto, perché morto è anche per Lucia e a nulla potrà valere la nascita del nuovo bambino. Alla fine convince Lucia a tornare a casa, a curare i suoi due bambini e a far nascere il terzo, a tornare al suo martirio: a tornare a – Martoriarsi – consolarsi – quietarsi. – perché – È ben questa la morte.

Alla fine del 1923, mentre va in scena il 23 novembre al Teatro Nazionale di Roma (in vernacolo toscano con la riduzione di Ferdinando Paolieri) L’altro figlio con la Compagnia di Raffaello e Garibalda Niccòli, Pirandello compie un altro viaggio: a dicembre si imbarca sulla nave «Duilio” a Napoli per New York, dove arriva il 20 e assisterà al Fulton Theatre (ribattezzato per l’occasione Pirandello’s Theatre) alle rappresentazioni dei Sei personaggi e di Così è (se vi pare); il viaggio è fatto in compagnia dell’attore Arnold Korpff che metterà in scena l’Enrico IV (The Living Mask). All’arrivo a New York viene ricevuto “da un esercito di giornalisti americani e italiani e di fotografi” (lettera al figlio Stefano). Festose sono le accoglienze degli italiani, e soprattutto della numerosa comunità siciliana: sono due mesi esaltanti.

Al ritorno in Italia, in maggio (il 22 o il 23?) assiste al Teatro dei Filodrammatici di Milano, con la Compagnia diretta da Dario Niccodemi e gli interpreti principali Luigi Cimara e Vera Vergani alla prima di Ciascuno a suo modo, il secondo dei «drammi da fare» (della trilogia del teatro nel teatro, una definizione che lo stesso autore adotterà dopo aver messo in scena il terzo dramma, Questa sera si recita a soggetto nel 1930), che ripropone la storia della donna fatale, presente nel romanzo Si gira… .

La prima di Ciascuno a suo modo fu preceduta già da polemiche, sollevate sollevate dal feroce avversario di Pirandello, il critico Domenico Lanza, che aveva per le mani la recentissima pubblicazione dell’opera (caso unico nella vita del Nostro Autore la pubblicazione dell’opera prima della rappresentazione) aveva recensito il testo in maniera molto negativa con “quattro colonne di vituperi” come scrisse lo stesso Pirandello in risposta sul Corriere della Sera,. Grande perciò divenne l’attesa. Il primo atto ebbe un grande successo: pur con qualche dissenso, gli applausi durarono per tutta la durata dell’intervallo; Ma alla fine del secondo i dissensi furono più marcati: l’uscita dello stesso Pirandello sul palcoscenico mise tutti d’accordo: l’applauso fu unanime, come ci racconta Renato Simoni in Trent’anni di cronaca drammatica, (Ilte, Torino 1954, pag. 78). Il dramma parte da un fatto di cronaca per operare quella mistione tra cronaca quotidiana e finzione scenica, tra realtà vissuta e creazione artistica che sarà uno dei punti fondamentali del teatro oltre che della narrativa pirandelliana.

L’estate del ’24 Il Pirandello la trascorre a Monteluco con la famiglia del figlio Stefano, anche nell’attesa del ritorno della figlia Lietta col marito dal Cile, un desideratissimo ritorno che stava lentamente slittando di quasi un anno. La famiglia si stava per riunire, ma il destino aveva in serbo ancora una carta importante, che inciderà non soltanto sull’arte ma anche sulla vita privata dell’autore.

Giuseppe Bonghi

Biografia di Luigi Pirandello

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