Io sono figlio e uomo del Caos – Capitolo 6: Incontro con i fantasmi
Di Pietro Seddio.
Ma ecco improvvisamente avvertii un frullo, un rumore e quasi subito mi accorsi d’un’ombra che si muoveva. Un’ombra nell’ombra. C’era qualcun altro, pensai? Chi si era nascosto in qualche angolo profondo e oscuro della Torre? E questo, anzi quest’ombra, si era accorta della mia presenza?
Io sono figlio e uomo del Caos
Per gentile concessione dell’ Autore
««« Cap. 5: Pirandello e Agrigento
Cap. 7: La sua Sicilia »»»
Io sono figlio e uomo del Caos
Capitolo 6
Incontro con i fantasmi
E’ vero, confesso, ho sempre convissuto con i fantasmi e i morti, ma mentre i primi erano frutto delle mie fantasie, gli altri erano veri, visibili ed io, da giovinetto, per caso ebbi l’occasione di vederne uno disteso sul tavolaccio. Avevo udito che nella Torre, adibita a morgue, si trovava un cadavere ed io, fin da allora alquanto curioso, volli andare a vederlo.
Avevo saputo, sempre per i tanti chiacchiericci, che si trattava di un suicida e che era stato trovato poco fuori dell’abitato: alla Cavette. Niente di lui si sapeva. Molto probabilmente, si vociferava, era caduto per la fame. Lo avevano deposto su un asse dove solitamente si mettevano i morti. L’interno della piccola stanza, buia, con una sola piccola feritoia. Tutto era avvolto dall’ombra: veramente un luogo sinistro, proprio dei morti.
Quando decisi di andare a vedere il morto era già il tramonto, ma questa situazione, non smorzò la mia curiosità. Mi ritrovai ad aprire la porta e vidi subito quel corpo immobile. Notai, ancora, che portava due grosse scarpacce e pensai che avesse poco più di quarant’anni. E poi osservai la sua barbaccia ispida e incolta.
Sembrava inverosimile ma in quel contesto la morte e la vita si trovavano una accanto all’altra nel silenzio più assoluto e in un posto che nemmeno il grande Dante avrebbe mai descritto. Provai un fremito, confesso anche perché quel silenzio innaturale mi sembrava togliermi il respiro. Era la prima volta ed era certo che non avrei mai più dimenticato quella scena.
Il silenzio che incombeva era del tutto cimiteriale e guardando le pareti nere mi accorsi delle tante ragnatele e qualcuna era riuscita ad appiccicarsi sulla mia faccia. Non mi vergogno di dire che la mia fronte era già imperlata di goccioline di sudore. Ma ecco improvvisamente avvertii un frullo, un rumore e quasi subito mi accorsi d’un’ombra che si muoveva. Un’ombra nell’ombra. C’era qualcun altro, pensai? Chi si era nascosto in qualche angolo profondo e oscuro della Torre? E questo, anzi quest’ombra, si era accorta della mia presenza?
Non respiravo nemmeno, i miei occhi si erano sgranati per cercare di individuare in quel buio la inquietante ombra che io continuavo ad avvertire. Il morto era freddo, immobile con le sue scarpacce e sembrava che avesse paura pure lui. Non respiravo, ero davvero terrorizzato.
Tornai a sentire quel frullo d’ali, strambo ma vivo. Oh no, non è possibile! Ora vedevo, pur nel buio, due corpi e dopo il primo imbarazzo capii che una era donna, non mentivano le sue fattezze fisiche. Il suo vestire, il suo incedere, non potevano ingannarmi. Riuscii a poco a poco, tenendo sgranati gli occhi a vedere che di fronte a me la donna era avvinghiata ad un uomo e non stavano fermi, no, tutt’altro.
Si muovevano con lentezza, come a dondolarsi piacevolmente regolati da una molla a scatto. E la donna? Aveva le sottane alzate e poi portava un cappellino. Ne dedussi che era una signora. Ecco mi trovai ad essere in quel momento testimone d’una tresca amorosa, vissuta di nascosto e praticata accanto al cadavere d’un uomo nel buio più fitto.
Erano in fin dei conti due adulteri nascosti alla ombra della morte per sfuggire ad altra morte e questo epilogo sarebbe accaduto se qualche interessato, marito, fratello, stretto congiunto, li avrebbe scoperti. Ma sapendo del luogo per niente frequentato, avevano deciso di amarsi anche in compagnia del morto che certo mai avrebbe parlato facendo la spia. Tutto il mistero di quell’evento, che al momento mi stordì, riuscii a comprenderlo in un secondo tempo e in quel mentre avvertendo il sentore della morte e l’odore dell’umida grotta, scambiai per pianto quell’ansito d’amore che rompeva quel silenzio di lugubre morte.
Che dire? Analizzando questo episodio alcuni analisti hanno detto che l’amore per me avrebbe avuto il sentore di morte. Ma non l’idea della morte.
Voglio anche ricordare, e qui apro una parentesi che si riferisce al mio essere “convinto” siciliano che (è stato scritto autorevolmente) l’isola è stata il luogo deputato di una esasperazione esistenziale, la cui fenomenologia ha continue repliche altrove: nei meccanismi che il borghese mette continuamente in azione per la sua sopravvivenza dopo aver constatato la mia crisi, così sbandierata ai quattro venti.
Ed ancora hanno aggiunto che senza l’esperienza acquisita particolarmente a Roma, sarei rimasto (come Verga) scrittore siciliano solo di nascita. Ammetto di essere cresciuto in un ambiente fervido di memorie risorgimentali come di tensioni unitarie che mi hanno guidato durante la mia professione di scrittore.
Aggiungo che l’ideologia garibaldina che ho respirato in seno alla mia famiglia implicò un conseguente atteggiamento anticlericale che mi ha tenuto lontano dalle pratiche religiose, iniziato con quel disgustoso episodio del quale ho già parlato.
Ed anche su questa mia lontananza dalla Chiesa sono stati scritti interi testi. Ma cercherò, più avanti, di dire la mia parola cercando di chiarire tutti gli equivoci che si sono intrecciati come terribile ragnatela. A tutto questo contribuì anche l’assidua presenza di Maria Stella, la serva in casa nostra, che mi segnò per lungo tempo, forse, per sempre.
Non frequentai le scuole elementari, come i tanti ragazzini, perché provvide, in casa, il precettore Fasulo e quando più grande fui instradato agli studi tecnici non fui per niente soddisfatto e dopo tutta una serie di grida, pianti, dinieghi, si decise che avrei frequentato il ginnasio perché mi sentivo portato verso la letteratura e nasceva anche la passione per il teatro, ed allora decisi, con caparbietà, di iniziare a scrivere, avevo dodici anni, un testo teatrale (andato perduto) dal titolo “Barbaro”.
Era un’iniziativa seppur ancora non intuivo cosa mi riservasse il futuro, il destino.
Intanto voglio, prima di continuare a raccontarmi, aprire una parentesi su un argomento che è stato sempre sottolineato, in relazione alla mia attività letteraria, che si riferisce al “dialetto” da me considerato importante tanto che iniziai a scrivere, appositamente per il teatro, presentando opere in perfetto dialetto agrigentino e questo, da principio, fece storcere il naso a quelli che, da sempre, hanno caldeggiato la lingua italiana.
Ma per me, il dialetto, e qualunque possa essere, utilizzato per opere letterarie, assume un ruolo importante in quanto capace di dare una profonda caratterizzazione a personaggi, luoghi, trame, condizioni sociali e politiche. E’ lo specchio fedele di una realtà che non potrà mai essere barattata, pur riconoscendo ai cultori della lingua italiana, che questa è basilare per acquisire tutte quelle nozioni che devono e potranno servire per acquistare una salda esperienza nel campo delle conoscenze più disparate.
Girgenti è stata sempre presente nei miei pensieri e allorquando mi trovavo a Bonn, già celebre, famoso, scrivendo a Marta Abba nel 1930 ebbi a dire:
“… che avvenisse di toccare per qualche giorno Girgenti… salutami il pino del caos e la vecchia bicocca dove sono nato. Forse non li vedrò mai più!”.
Debbo confessare che l’aria, i profumi, le sensazioni registrate nel mio animo durante quel soggiorno, accompagnato dalla mia gioventù, hanno scavato nel mio animo un profondo sentiero (“… da questo sentieruolo fra gli olivi, di mentastro, di salvie profumato, m’incamminai pe’l mondo ignaro e franco) dove cerco, ancora, di trovarmi e sentirmi in pace con me stesso.
A proposito del dialetto ricordo di aver scritto che semmai io fossi diventato un potente avrei imposto la lingua d’Agrigento; è ingiusto che ci si ostini a chiamarla dialetto, la imporrei in tutte le scuole italiane e per questo ho sempre cercato di spiegarla in tutti i modi.
Questo lo si evince benissimo leggendo alcune commedie in dialetto come “Liolà” dove ho inteso liberare le risorse drammaturgiche insite nella parlata girgentina e fissandola in un testo di grande felicità scenica. Ho salvato la memoria di un ricco patrimonio idiomatico, altrimenti destinato a disperdersi.
La testimonianza a questo mio concetto è stato avvalorato da alcuni critici che hanno riscontrato in questa specifica opera un interesse dominante per la lingua madre. Tutto questo poi ho inteso precisare scrivendo la “Premessa della tesi”, scritta in tedesco, che molti non hanno mai letto: “Suoni e sviluppo di suono della parlata di Girgenti” che mi consentì di acquisire la laurea presso l’università di Bonn nel 1891.
Pietro Seddio
Io sono figlio e uomo del Caos
Indice Tematiche
Se vuoi contribuire, invia il tuo materiale, specificando se e come vuoi essere citato a
collabora@pirandelloweb.com