1917 – ‘A vilanza – Dramma in tre atti (In siciliano)

‘A vilanza. Non tutti sanno che Luigi Pirandello e Nino Martoglio scrissero ben due commedie a quattro mani; e non tutti sanno che in tali opere appare con decisione una Sicilia diversa: vera, bellissima e violenta, metafora di tutto un mondo e portatrice di valori diversi. Una Sicilia il cui tratto più significativo e più precipuo è un certo fatalismo, e una certa ciclicità, quasi da girone dantesco.

‘A vilanza (La bilancia)
Dramma in tre atti – 1917
di Nino Martoglio e Luigi Pirandello

Introduzione e biografia di Nino Martoglio
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Terz’attu

Approfondimenti nel sito:
Sezione Video – A’ vilanza

'A vilanza
Nino Martoglio (1870 – 1921)

Relazione artistica di Giovanni Anfuso – 2004

da vivicatania.net

Non tutti sanno che Luigi Pirandello e Nino Martoglio scrissero ben due commedie a quattro mani; e non tutti sanno che in tali opere appare con decisione una Sicilia diversa: vera, bellissima e violenta, metafora di tutto un mondo e portatrice di valori diversi. Una Sicilia il cui tratto più significativo e più precipuo è un certo fatalismo, e una certa ciclicità, quasi da girone dantesco.

E’ il caso di ‘A Vilanza, che col suo carico di simboli (già dal titolo, ma anche i nomi dei personaggi: Anna-Anello, Rachele-madre d’Israele, Ninfa-colei che ammalia e ruba i bambini), rappresenta una folla corsa verso un precipizio, a tutti noto, da tutti paventato, da tutti volentieri evitato, eppure da tutti inesorabilmente raggiunto.
La storia dell’inevitabile fallimento, dell’impossibilità, che nulla permette all’uomo se non l’urlo disperato, la ribellione, la lotta inutile, lucida e convulsa ad un tempo, e l’inevitabile sconfitta, è rappresentata all’interno di una Sicilia che presto diviene simbolo e metafora di un fatalismo atavico, che porta inesorabilmente i personaggi all’alienazione prima, e alla negazione di se stessi dopo.
Così questo testo, dotato di una peculiare ciclicità e ricco di richiami e rimandi non solo intertestuali, ma relativi al corpus drammatico dei due autori siciliani, prende la Sicilia a pretesto e sublimandone i tratti più oleografici la innalza a microcosmo e simbolo dell’universale sconfitta d’ogni individuo condannato a vedersi vivere nella penosa avventura dell’esistenza.
Le ritualità tribali, come le vendette per gelosia, frutto di un immobilismo atavico e determinista, non possono non sfociare in un fatalismo accecante che paralizza il personaggio nel medesimo istante in cui diviene consapevole della differenza fra ciò che è e ciò che avrebbe voluto essere, tra ciò che c’è in luogo di ciò che ci sarebbe dovuto essere.
Insomma Pirandello e Martoglio ci regalano un ritratto di Sicilia storico e meraviglioso; di quella Sicilia che non c’è più e che proprio perciò vale la pena rivedere. I due mettono insieme i tratti salienti propri della Sicilia, quei tratti che furono di tutti i grandi autori siciliani (da Verga a Sciascia a Tomasi di Lampedusa) e che hanno fatto della Trinacria una terra unica, un mito, un simbolo e un’allegoria.
Una Sicilia che deve essere raccontata, proprio perché non c’è più; una Sicilia di cui bisogna farsi custodi e divulgatori…proprio per questa dimensione fantastica propria della nostra isola.
Per raggiungere tale obiettivo, Martoglio e Pirandello hanno esasperato tutti i tratti caratteriali della loro Sicilia, e quindi non solo quelli folclorici, ma anche e soprattutto quelli linguistici; lavorando su un dialetto inquietante e disperato che, come i personaggi, volesse affermare la propria indipendenza ed autonomia dal reale dialetto Siciliano; un siciliano strano questo di ‘A Vilanza, criptico e musicale ad un tempo, tenta costantemente la scalata alla lingua italiana, e non si rassegna alla classificazione di dialetto…, quasi volesse divenire altro da sé.
Neologismi, perifrastiche passive, predicati verbali coniugati al futuro semplice, coesistono e forzano le strutture sintattico-grammaticali del dialetto siciliano, conferendo al parlato di ‘A Vilanza un sapore che subito diventa proiezione e desiderio, urlo, bestemmia e musica: proprio come la voce di chi non sa più come dare importanza alla vita, di chi non sa più come portarle rispetto.
Un pezzo di storia della nostra terra che merita di essere conservato e conosciuto.

Nino Martoglio
Belpasso (CT) 3/12/1870 – Catania 15/09/1921

Nino Martoglio (1870 – 1921)

Cantore di un microcosmo popolare fortemente regionale e folcloristico, di una realtà storico-sociale dai connotati inconfondibilmente provinciali, ancorata a usanze e costumi atavici e nello stesso tempo in perpetuo fermento, Nino Martoglio, “Goldoni siciliano”, secondo la felice definizione di Vittorio Emanuele Orlando, ingiustamente obliato o relegato dalla critica ai margini di una cultura dialettale considerata a torto produzione artigianale e strapaesana, è stato il testimone e il protagonista febbrile di un’epoca che, pur nutrendosi ancora degli esiti del positivismo letterario, ne rivelava la crisi ansiosa di rinnovamento.
Giornalista, poeta, dicitore, commediografo, capocomico, regista cinematografico, fondatore e animatore di quello straordinario fenomeno teatrale che nel primo ventennio del Novecento vide imporsi sui più prestigiosi palcoscenici europei autori e attori siciliani, Nino Martoglio fu un intellettuale intuitivo, eclettico, inquieto, coinvolgente, alle cui sollecitazioni si deve, fra l’altro, la “fatale” scelta drammaturgia di Luigi Pirandello, amico e sodale che siglò insieme a lui due commedie: ‘A vilanza e Cappiddazzu paga tuttu.

Nell’orbita dei maestri del verismo, Capuana, Verga, De Roberto, con le quali condivideva l’attenzione vigile e rigorosa verso un’umanità dolente di cui, attenuato il disperato sentimento della sconfitta, coglie con fresco impressionismo il comico bagliore, il disincanto e l’autoironia, quel rire local di cui parla Bergson, che ne stempera l’aspra lotta per l’esistenza, Martoglio ripropone una nuova epopea dei venti rinunciando ai toni imbellettati ed eruditi della lingua e optando per il dialetto siciliano schietto, plebeo e colto insieme; alla prediletta e privilegiata parlata catanese, estrosa e inventiva, mescola sapientemente vari registri pervenendo a risultati di esilarante deformazione grottesca, quei gusti spropositi linguistici che costituiscono la spia dell’avvertito, intimo bisogno di promozione sociale degli umili che passa attraverso l’esibita conoscenza di un codice “altro”, segno indiscutibile di potere culturale ed economico. E in quel dialetto che cementa la commedia e la tragedia dell’umano sentire, al quale Luigi Pirandello riconosce dignità d’arte, considerandolo insostituibile quando la natura dei sentimenti e delle immagini dello scrittore è “talmente radicata nella propria terra di cui egli si fa voce, che gli parrebbe disadatto o incoerente un altro mezzo di comunicazione”, diversamente da Verga che alieno da ogni forma di regionalismo letterario, affidava ad altri (lo stesso Martoglio) la traduzione in siciliano del suo teatro, Martoglio trova, come egli stesso dichiarava, il codice adatto a rendere “l’indole, il pensiero, il costume, il sentimento” del variopinto mondo polifonico e polimorfo della Civita, il popolare quartiere della Catania di allora che “piangeva e rideva in dialetto” (così D’Annunzio e Pavese).
Battagliero paladino della rintuzza (popolani e piccolo-borghesi) – ma nessun provincialismo in questo circoscritto orizzonte, narrando il proprio villaggio, insegna Tostoj, l’artista raggiunge una dimensione universale – dopo un precocissimo apprendistato giornalistico (collabora a varie testate cittadine fra cui la “Gazzetta di Catania”), appena diciannovenne Martoglio fonda e dirige l’ebdomadario politico-letterario “D’Artagnan”. Per quindici anni (il primo numero vede la luce il 20 aprile 1889, l’ultimo il 17 aprile 1904), mediante il “D’Artagnan”, l’evento giornalistico più vivace e significativo di quel tempo – a cui collaborarono, fra fra gli altri, Trilussa, Di Giacomo, Pascarella, Fucini, Russo – Martoglio riferisce e dibatte avvenimenti di politica e mondanità municipali, nazionali e internazionali, manifestazioni culturali, episodi di costume, iniziative sociali. “Attacchi, polemiche, indiscrezioni, mottetti, allusioni, satire pullulavano in quel diabolico foglio dove le parole erano sempre sostenute con la punta del fioretto o con la lama della sciabola. Duelli a rotazione dovette affrontare Martoglio in quegli anni”, scrive Giuseppe Villaroel. Ma, al di là degli infocati editoriali del suo direttore, delle cronache, delle battaglie politiche e sociali, il “D’Artagnan” s’impone all’attenzione per i “dialoghi popolari”, preziosi incunaboli del suo teatro, disquisizioni argute e vivaci su problemi di varia umanit consegnate all’immaginifico eloquio di turbolenti, mordaci civitoti: famosi Cicca Stonchiti che ritornerà ne I civitoti in pretura e don Procopiu Ballaccheri che sarà protagonista de ‘U contra, autorevole, magniloquente “allitterato”, il quale s’innalza sulla diffusa ignoranza dei più, intento a sfoggiare un “codice elaborato”, per dirla con termini bernsteiniani, pronto ad addottorare sulla politica di Crispi e Di Rudinì, come sugli accadimenti domestici e quotidiani. E’ la Catania appassionata, eroica, romantica, fantasiosa, allegra disincantata, avvilita o delusa ma mai rassegnata, cantata nelle liriche di O’ scuru o’ scuru, ‘A tistimunianza, Centona che apparentano Martoglio ai grandi poeti dialettali Belli, Pascarella, Di Giacomo, Trilussa.
Lo stesso colorito scenario – cortili sovraffollati, viuzze intricate, dove nel chiacchiericcio petulante e sapido dei “civitoti” o nel laconico, antico cerimoniale della piccola malavita di quartiere si consumano ideali, aspettative, amori, tradimenti – rivive nelle commedie di Martoglio che colgono tutti gli aspetti di un piccolo universo provinciale, nel suo multiforme atteggiarsi, alle prese con i cambiamenti della storia: rivendicazioni d’indipendenza affettiva e sentimentale, conflitti di classe, istanze socialisteggianti s’insinuano tra le pieghe di una bonaria, godibile ironia.
A Nino Martoglio, intraprendente manager teatrale ante litteram (dopo di lui anche Edoardo Boutet e Marco Praga affronteranno la via del capocomicato), va il merito, tra difficolt e dissapori, d’avere dato vita, nell’arco di tempo che va dal 1903 al 1919, a varie compagnie di successo – Compagnia drammatica dialettale siciliana (1903, 1904, 1907), teatro minimo o a sezioni (1910), Compagnia drammatica del Teatro mediterraneo (1919) – e di avere scoperto e valorizzato attori e attrici dialettali di talento: Giovanni Grasso, “il più grande attore tragico del mondo” per unanime riconoscimento critico (da Bjornstjerne a Isaak Babel’, da Vsevolod Meverhold a Carlo Michelstaedter, da catulle Mendès a Lee Strasberg), per il quale Martoglio scrisse Nica, Capuana la versione dialettale di Malia e Lu cavalieri Pedagna, Gabriele D’Annunzio La figlia di Iorio, la cui traduzione in siciliano fu affidata alla perizia del giovane Giuseppe Antonio Borghese; Angelo Musco, interprete straordinario di tante fortunate commedie martogliane, “il signore del riso” (D’Annunzio) che, “prezioso strumento d’arte incomparabile potenza” secondo la definizione di Pirandello, potè vantarsi non soltanto di essere stato il protagonista nel 1915 del primo testo dialettale dell’agrigentino ma anche della gran parte dei suoi capolavori; Marinella Bragaglia, Mimì Aguglia, Virginia Balistreri, Rosina Anselmi, attrici di forte temperamento, loro eccezionali comprimarie.
A Martoglio si deve inoltre la creazione di un ricco repertorio teatrale siciliano e il coinvolgimento nella sua esaltante avventura di scrittori della statura di Capuana, Verga, De Roberto, Pirandello, Rosso di San Secondo, e numerosi autori minori e minimi in una stagione in cui la cultura isolana, per eccezionale convergenza di eventi, s’imponeva con forza e autorevolezza a livello non solo nazionale.
Le polemiche che finirono con l’accompagnare gli strepitosi successi in Italia e all’estero di Giovanni Grasso, il cui repertorio sembrava eccessivamente unilaterale e diffamatorio dell’isola e in genere del teatro italiano, dei quali era accusato di offrire un’immagine mutilata e distorta, eccessivamente passionale, violenta, talora quasi granguignolesca, spingevano verso un repertorio diverso che mettesse in scena i multiformi aspetti e le varie classi sociali della realtà isolana , popolata anche di personaggi miti e sobri, non soltanto drammatici e a forti tinte.
I tempi erano frattanto maturi perché Musco, sganciandosi da Grasso, desse vita ad una sua compagnia. Martoglio, primo ed entusiasta estimatore del grande comico, da tempo vagheggiava un repertorio liberato dalla componente sanguigna di Grasso, alimentatrice di un cartellone non più adatto alla nuova dimensione culturale, arroccato sui modelli di un verismo di maniera giusto ad inaugurare una stagione – lunga in verità e pregna di apprezzabili risultati artistici agli inizi del secolo – ora in lento declino per le mutate condizioni storico-sociali. Ma a Musco per rinnovare il repertorio mancavano i copioni: bisognava indirizzare gli autori verso un “nuovo” teatro siciliano “fatto di mitezza e di bontà, sorriso di sole e di poesia”, secondo il programma di Martoglio che in ciò si adopera con infaticabile lena.
Voracemente, l’Europa sta bruciando il traumatico evento della grande guerra, le angosce legate al sanguinoso conflitto e le incertezze della ricostruzione devono essere lenite con immagini di più serena laboriosità, se è vero, con Aristotele, che il teatro è un momento insostituibile di catarsi e se non esiste, con Bergson, comicità lontana dall’umano sentire. Nasce così un teatro “del folclore e delle virtù domestiche, delle creature poetiche dai sacrifici sublimi che – dichiara sempre Martoglio – avrebbe estasiato il mio grande e buon Pitrè”.
La versatilità di Martoglio, la sua sensibilità verso nuove forme espressive, fanno si che egli inserisca da protagonista pure nella storia del cinema muto italiano che muoveva negli stessi anni i primi incerti passi. Sullo scorcio del 1913, mentre agiscono dibattendosi fra non poche difficolt economiche ben oltre quaranta case produttrici, Martoglio è nominato direttore artistico della “Morgana films edizioni d’arte” con sede a Roma. Sotto la sua direzione la “Morgana films” programma di produrre lavori cinematografici “su scenari dei maggiori autori, interpretati dai più grandi artisti”. La serie ha inizio con Capitan Blanco, dal dramma ‘U paliu dello stesso Martoglio, segue il film Sperduti nel buio, dall’omonimo dramma di Roberto Bracco, entrambi con splendidi Giovanni Grasso e Virginia Balistreri, e quindi Teresa Raquin, dall’omonimo romanzo di Emile Zola. Grave la perdita di questa triade firmata da Martoglio, particolarmente nel caso di Sperduti nel buio, film ormai mitico, che costituisce l’antesignano del neorealismo, di cui va sottolineata l’importanza per la straordinaria cura del dettaglio, per il naturalismo delle immagini, per il linguaggio cinematografico che utilizza il montaggio di contrasto e di parallelismo anticipando tecniche che saranno di David Wark Griffith, Vsevolod I. Pudòvkin, Sergej Michajlovic Ejzenstejn, ma pure di Jean Renoir, Marcel Carnè, Julien Duvivier.
Verso la fine del 1918, Nino Martoglio, con la collaborazione di Luigi Pirandello e Pier Maria Rosso di san Secondo (direttore scenico Anton Giulio Bragaglia), avviava una nuova impresa artistica, più ambiziosa delle precedenti: la Compagnia drammatica del teatro mediterraneo, “di complesso” e non ” a mattatore”, e con elementi fondamentali il dialetto e la musica. La Compagnia rivendicava, secondo le dichiarazioni di Martoglio, i diritti dell’invenzione e della scrittura, condannando “le falsificazioni brutali che attori drammatici e comici troppo acclamati hanno finito con l’apportare alla concezione degli autori”, dove s’avvertiva l’eco delle antiche polemiche nei confronti di Grasso e delle recenti nei confronti di Musco. Purtroppo l’iniziativa martogliana, finalizzata alla valorizzazione della cultura dell’area mediterranea in un’epoca storica in cui la questione meridionale assumeva uno spessore sempre maggiore, sostenuta dalla critica ma non dal pubblico, nonostante il repertorio di prestigio e il valore di attori quali Giovannino Grasso junior, Virginia Balistreri, salvatore Lo Turco, Rocco Spadaro, Carolina Bragaglia, ebbe, come le precedenti, esito negativo. Fortemente amareggiato, Martoglio – creatore di quel teatro siciliano che doveva le sue fortune anche all’assenza di una drammaturgia italiana (“bisogna passare nel teatro regionale”, avverte Capuana, “a fine di arrivare a quel teatro nazionale che non ha altra via di salvezza, se vuol essere opera d’arte e non opera d’artificio”) e il suo lento declino alle pressioni dell’aristocratica egemonia crociata, alle istanze omologanti degli eventi politici, all’affermarsi del teatro in lingua di Pirandello che da quell’esperienza aveva tratto linfa vitale – abbandona il capocomicato per dedicarsi alla stesura della storia di quel teatro di cui era stato non piccola parte. Ma il progetto non sarà realizzato. Una morte improvvisa e tragica sui cinquant’anni, come profetizzatogli da una zingara, lo coglieva il 15 settembre 1921 a Catania, dove precipitava, in modo ancora per tanti aspetti misterioso, nella tromba dell’ascensore in costruzione dell’Ospedale Vittorio Emanuele. Così lo ricorda pochi giorni dopo, sul “Messaggero della Domenica” del 18-19 settembre, l’amico e sodale Luigi Pirandello: “non fu poeta lirico soltanto: fu anche, come si sa commediografo acclamato, in lingua e in dialetto. Quello che non si sa, fu quanto gli costò, di amarezze, di cure, di fatiche, di spese, il teatro siciliano, che vive massimamente per lui e di lui, e di cui egli fu il vero ed unico fondatore.”

(da Nino Martoglio, Tutto il Teatro e Centona, tutte le poesie siciliane, a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Roma, Newton & Compton, 1966).

‘A vilanza (La bilancia)
Dramma in tre atti – 1917
di Nino Martoglio e Luigi Pirandello

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Introduzione al Teatro di Luigi Pirandello

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