Il turno – Capitolo 12

«««  Capitolo 11    Capitolo 13 »»»

««« Introduzione ai romanzi di Luigi Pirandello

Il turno - Capitolo 12

Acquista «Il turno» su Amazon

XII.

            In una di quelle serate si concertò per la prossima domenica una gita ai Tempii: convegno, alle sette del mattino.

            Con l’ajuto dei Garofalo e degli altri due Salvo, don Diego aveva indotto Pepè a far parte della comitiva, non ostante il lutto recente; e allora Mauro s’era scusato di non poter venire.

            Mancò infatti egli solo all’appuntamento. Don Diego sentì mancarsi un braccio e, con la scusa che il tempo non gli pareva abbastanza bello, avrebbe voluto mandare a monte o rimandar la gita. Il cielo veramente non era sereno; s’aspettavano ancora le prime piogge autunnali. Ma i giovani amici e Stellina dichiararono che la mattinata, per una gita, non poteva esser migliore; cosicché don Diego alla fine dovette arrendersi.

            Stellina si mostrava contenta; scherzava con Fifo Garofalo che s’era portato il mantello e dichiarava di sentir freddo. Pepè la vedeva ridere e sorrideva, come se fosse uno specchio innanzi a lei.

            Ma pervenuti alla punta della Passeggiata, eccovi Mauro Salvo appoggiato coi gomiti su un pilastro della ringhiera e le mani sotto il mento. Prima a scoprirlo fu Stellina, che, stringendo fra i denti il labbro e mettendosi un dito su la bocca, tolse di mano a Pepè il bastone, e accorse lieve, in punta di piedi, finché, allungando il braccio armato, potè pian piano spinger la tesa del cappello di Mauro. Questi si voltò di scatto, irosamente; ma si trovò davanti Stellina che lo minacciava seria seria con lo stesso bastone, tra le risa degli altri.

            Così anche lui si unì alla comitiva. Ridevano tutti e Stellina pareva la più gaja. Don Diego guardava i sei giovanotti e la moglie e si beava della loro allegria, arrancando dietro, per lo stradone in declivio.

            – Piano, ragazzi, piano… – ammoniva di tanto in tanto, pensando alla via lunga e agli anni che portava addosso; alzava poi gli occhi al cielo e storceva la bocca.

            Il cielo, dalla parte di levante, si faceva sempre più cupo: laggiù, in fondo in fondo, su le ripide alture della Crocca, la foschìa s’addensava minacciosa; forse già vi pioveva. Da presso s’era levato un venticello fresco, che pareva esortasse gli alberi esausti a far buon animo, ché tra poco avrebbero avuto la pioggia tanto attesa. E dalle campagne arsicce, irte di stoppie, a destra e a sinistra dello stradone scosceso, venivan gli strilli giojosi delle calandre, che forse si annunziavano anch’esse la prossima acqua, e le risate di qualche gazza.

            Quando la comitiva fu presso l’antica chiesetta normanna di San Nicola, cinta di pini marittimi e di cipressi, a cavaliere su una svolta dello stradone, don Diego, avendo avvertito qualche goccia sul dorso della mano, consigliò:

            – Signori miei, rimaniamo qua. Non mi par prudente avventurarci con questo cielo fino ai Tempii. Date ascolto a me, che non son vecchio per nulla.

            – Ma che! ma che! – gridarono tutti a coro. – Nuvola che passa! Non pioverà!

            – Signori miei, questa la piango! – ribattè don Diego. – Ma del resto, sia fatto il volere della gioventù: coraggio e avanti, figliuoli!

            Dopo San Nicola lo stradone, più ripido, li agevolò nella corsa allegra, sotto la minaccia della pioggia. E in breve furono al cospetto del magnifico tempio della Concordia, integro ancora, aereo sul ciglione e aperto col maestoso peristilio di qua alla vista del bosco di mandorli e d’ulivi, detto in memoria dell’antica città che sorgeva pur lì, bosco della Civita; di là alla vista del piano di San Gregorio, solcato dall’Acragas, e poi del mare sconfinato, in fondo, d’un aspro azzurro. Il bosco stormiva agitato sotto le gravi nubi lente, pregne d’acqua, e vibravano in alto le punte dei colossali cipressi sorgenti in mezzo ai mandorli e agli olivi come un vigile drappello a guardia del Tempio antico.

            Le grida festose della comitiva risonarono stranamente, nell’austero silenzio tra le colonne immani. Stellina, rimasta sospesa alla gradinata per cui si ascende all’alto zoccolo, quasi interamente distrutta dalla parte del prònao, chiamò ajuto. Subito Mauro Salvo accorse e se la tirò per le mani.

            Fifo Garofalo, intinto d’archeologia, con la tovaglia da tavola su le spalle e il cappello a cencio assettato sossopra sul capo:

            – Venite, o profani! – tuonò, saltando su un pietrone nel mezzo del tempio. – Turba irriverente, vieni! No, aspettate… – (scese dal pietrone). – La signora Stellina faccia da nume; alzi le braccia… così. Adorate, o profani, la Dea Concordia! Io, sacerdote celebrante, dico ad alta voce: – Facciamo libazioni e preghiamo… Ma no, aspettate! aspettate!

            Tutti, tranne Stellina, atteggiata da nume, s’eran precipitati su la cesta delle vivande portata dalla serva.

            – Tu, Pepè, – aggiunse Fifo, gridando, – tu, ministro subalterno, chiedi prima a gli astanti: Chi son coloro che compongono questa assemblea?

            – Affamati! – risposero tutti a coro, compreso il nume, Stellina.

            – No, no! Bisogna rispondere ad altissima voce: Uomini dabbene! E se non dite forte, nessuno ci crede. Su, su, offrite un biscottino senza macchia alla si-donna Concordia…

            – E accendete un fiammifero! – aggiunse Pepè guardando il cielo che d’improvviso s’era incavernato, come se fosse piombata la sera.

            – Questa, santissimo Dio, la piango! – gemette addossato a una colonna don Diego Alcozèr.

            – Assalto alla cesta, e si salvi chi può, senz’ombra di educazione! – esclamò Gasparino Salvo, dando l’esempio.

            Si lanciaron tutti, tranne don Diego, su la cesta, e ciascuno ghermì quel che gli venne prima sotto mano; mentre già grosse gocce di pioggia crepitavano come se grandinasse.

            – Ripariamoci in qualche casina! – scongiurò don Diego. – Via, via, presto, corriamo!

            Scapparono a precipizio dal Tempio: la pioggia d’un tratto infittì, si rovesciò scrosciando con straordinaria violenza, come se si fossero spalancate le cateratte del cielo.

            – Misericordia di Dio! – gridò don Diego restringendosi tutto nella persona, sotto la furia dell’acqua.

            Stellina e i sei giovani ridevano. Andarono alla casina più prossima, ma il cancello di ferro davanti al cortile era chiuso. Pedate al cancello e grida d’ajuto. Non era pioggia: era diluvio.

            Fifo Garofalo si tolse il mantello e col concorso degli altri lo resse a mo’ di baldacchino su Stellina e don Diego. Giù acqua, giù acqua, giù acqua. Prestomantello fu zuppo.

            – A San Nicola! – gridò Mauro Salvo, trascinando per una mano Stellina e pigliando la corsa.

            – A San Nicola: c’è il tettuccio! – approvarono gli altri, seguendoli.

            E via su per la salita, ch’era divenuta un torrente.

            Sotto il tettuccio don Diego, fradicio come gli altri, cominciò a tremare, disajutato.

            – Qua si piglia un malanno! Maledetto il momento che mi son persuaso a uscire di casa… Certo, la piango!… Tutto zuppo… Non sentite che aria?

            La furia dell’acqua scemò d’un tratto: per un momento parve che raggiornasse.

            – Ma che! piove… guardate…

            I fili di pioggia cadevano sì più esili e radi, ma continui. Tuttavia, per sottrarsi, così zuppi com’erano, alla corrente d’aria sotto il tettuccio, decisero di rimettersi in via per cercare miglior riparo più su.

            – È inutile, don Diego! – osservò Fifo Garofalo, dopo aver bussato al cancello di un’altra cascina. – Oggi è domenica; a quest’ora i contadini sono a messa in città. Piuttosto, facciamoci coraggio, e in cammino! Già piove meno; speriamo che spiova presto del tutto.

            – In cammino; in cammino! – approvò il povero don Diego. – Ma vedrete che arrivo morto.

            La paura spronava l’ansimante vecchiaja, e don Diego andava in testa alla comitiva. La pioggia poco dopo infittì di nuovo.

            – Qua la mano! Lasciatevi portar da noi, – gli dissero Totò Salvo e Fifo Garofalo.

            – Muojo! muojo! – gemeva a tratti don Diego trascinato in su dai due giovani che nitrivano come cavalli, springando, dimenando la testa allegramente sotto la pioggia furiosa e tra le risa di quelli che venivan dietro.

            Giunsero in città senza fiato, con gli abiti appiccicati al corpo. Don Diego volle cacciarsi subito a letto, coi denti che già gli battevano; tutto tremante, in istato da far veramente paura e pietà.

            – Un medico… un medico… son morto! Voglio qua subito Marcantonio…

            Fifo Garofalo corse per il medico; Pepè Alletto, pregato da Stellina, per don Marcantonio. Gli altri andarono via afflitti e mortificati.

«««  Capitolo 11    Capitolo 13 »»»

Il turno – Indice
Introduzione
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30

««« Introduzione ai romanzi di Luigi Pirandello

Se vuoi contribuire, invia il tuo materiale, specificando se e come vuoi essere citato a
collabora@pirandelloweb.com

Shakespeare Italia

Skip to content