Pirandello e la fede (Con audio lettura)

Di Giovanni Cavicchioli*

In una grande intervista del 1936, Pirandello dà conto della propria visione del mondo, giudicando il proprio teatro ed esplicitando la propria fede cristiana.

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Pirandello e la fede
Luigi Pirandello parla alla radio. Immagine dal  Web.

Pirandello e la fede

Intervista a Luigi Pirandello, «Termini», 1936.

da Culturacattolica.it

Leggi e ascolta. Voce di Giuseppe Tizza. 

In una grande intervista del 1936, Pirandello dà conto della propria visione del mondo, giudicando il proprio teatro ed esplicitando la propria fede cristiana. Sipario sul senso religioso. Lo vado a trovare all’albergo. Mattiniero, già vestito, pronto per andare alla prova: mi ha dato un appuntamento che scombussola un po’ le abitudini: sveglia, caffè anticipato, piani serali come per una partenza di buon mattino: «si gira».

Eccolo davanti a me, il Pirandello vivo, quello che scappa ai suoi imbalsamatori, che non gliela perdonano. Ecco la sua voce acre e fredda, da diagnostico, da gran medico chiamato al nostro capezzale di sedentari, malati di tutte le malattie del sedentarismo. Eppure, nei toni più bassi, specialmente quando par­la abbassando la voce, per entrare nel denso dell’argomento (come nel mondo fisico si abbassa la testa per entrare da una porta bassa) la voce si rivela fredda, incisiva, a lama di coltello proprio per questa anatomia della nostra vita psichica, per recidere tumori e tessuti necrotizzati: una volontà religiosa, inflessibil­mente religiosa e morale presiede a que­ste anatomie, a queste operazioni d’alta chirurgia.

– Teatro serio, il mio – dice Pirandello – vuole tutta la partecipazione dell’enti­tà morale uomo. Non è un teatro comodo.

– Sì – confermo – ma capisco che il borghese, non più protetto dalla «beata infanzia», e non ancora adulto, non an­cora cresciuto al «problema» ne rifugga temendo per l’incolumità personale. Il pericolo è la dissociazione della persona­lità quando manchi un forte centro unificatore.

– Teatro difficile, diciamo, teatro pericoloso – aggiunge Pirandello – Nietzsche diceva che i Greci alzavano bianche statue contro il nero abisso, per nasconderlo. Sono finiti quei tempi. Io le scrollo, invece, per rivelarlo.
«In questo nulla spero di trovare il tutto» dice Faust avventurandosi alla regione inferna delle madri. Per poter scendere in fondo all’abisso ci vuole almeno la speranza di trovarci Elena… Bisogna abituarsi a vedere nel buio.

– Certo è un teatro assolutamente antiborghese, e nello stesso tempo il più adatto al borghese per venirci a fare i suoi esercizi spirituali.

– La difficoltà – risponde Pirandello – è tutta nell’esecuzione che dovrebbe essere pari alle difficoltà proposte. È la tragedia dell’anima moderna. Bisogna farla discendere dal palcoscenico fra questo pubblico. L’esecuzione dovrebbe avere appunto un carattere religioso: si tratta di un «mistero» moderno. Se l’esecuzione fosse come la voglio, come la vedo, il pubblico, sono certo, seguirebbe, entrerebbe nel mio giro.
– In tempi d’azione e di rivoluzione questo teatro è teatro di rivoluzione e di esecuzioni capitali. In questo senso lo considero teatro del mio tempo. La distruzione esige una ricostruzione. Fa tabula rasa perché appaiano nuovi valori. – Esso chiama a raccolta perciò, le più profonde forze vitali dell’uomo.

– Ma in che senso il suo teatro risponde alle esigenze dell’arte moderna? E, anzitutto, a suo parere, quali sono le necessità della nostra epoca, in fatto d’arte?

– Non ci sono programmi, non ci possono, non ci devono essere preformazioni e imbrigliamenti. L’arte, libera vita dello spirito, deve essere assolutamente libera, per manifestare se stessa. Tutto il mio teatro riconosce solo una necessità, proprio nel senso greco, una duplice contraddittoria necessità primordiale della vita: essa deve consistere e nello stesso tempo, fruire. La vita ha pur da consistere in qualche cosa se vuole esse­re afferrata. Per consistere le occorre una forma, deve darsi una forma. D’altra parte questa forma è la sua morte perché l’arresta, I’imprigiona, le toglie il divenire. Il problema è questo, per la vita: non restar vittima della forma. E’ qui tutto il tragico dissidio della storia della libertà. Nietzsche, Weininger, Michelstädter vollero far coincidere assolutamente a ogni istante, forma e so­stanza, e furono spezzati e travolti.

– Questo dissidio era anche alla base della vita spirituale greca: Parmenide, filosofo dell’ente immobile, dell’Uno: Eraclito, il proclamatore della trasformazione, della instabilità, dell’eterno fluire. In lei, forse per le profonde radici della razza, riappaiono le due esigenze, ma si unificano e prendono coscienza di sé come antagoniste. Quale soluzione pone lei al conflitto?

– Questo: non lasciar soffocare dalla forma la vita. Esiste in noi un punto fondamentale, un nucleo di sostanza vitale che non può essere impunemente chiuso e soffocato. Nei grandi momenti della vita lo sentiamo in pericolo e allora lo difendiamo.

– Il Lazaro – domando – vuole dare una risposta in questo senso?

– Sì. Nel Lazaro do la risposta più netta al dissidio fondamentale, nel mio teatro, in quanto fatto religioso e sociale.
Se all’uomo non libero togliete la forma, in quanto legame spirituale, subito egli ricasca fra le bestie, e il primo atto della sua così detta libertà è una fucilata contro un altro uomo, contro l’Adamo nuovo che vive in pace con la sua Eva. Il figlio allora si sacrifica, rientra nell’ordine, indossa ancora la veste sacerdotale per coloro a cui è necessaria. La sua fede razionale conduceva alla rovina, e non era che forma essa pure. Cristo è carità, amore. Solo dall’amore che comprende, e sa tenere il giusto mezzo fra ordine e anarchia, fra forma e vita, è risolto il conflitto. Sono anche lieto che nessuna autorità religiosa abbia trovato da condannare. Della mia opera nulla è all’indice. La Civiltà Cattolica ne ha parlato a fondo, in tre articoli che formano addirittura un volume, e conviene della sua perfetta ortodossia. Voglio dire che uno degli aspetti della mia opera è questo: perfetta ortodossia in quanto posizione di problemi. E tali problemi non comportano che una soluzione cristiana.

*Giovanni Cavicchioli (1894-1964)

dal Dizionario Biografico degli Italiani – Treccani – Volume 23 (1979)

di Raffaele Morabito

CAVICCHIOLI, Giovanni. – Nato a Mirandola (Modena) il 2 gennaio 1894 da Alfredo, medico, e da Rosa Severi, rimase orfano della madre a tre anni (i suoi ricordi d’infanzia sono affidati al romanzo autobiografico Bambino senza madre, Roma 1943). Interrotti gli studi classici, li continuò per suo conto; coltivò contemporaneamente quelli musicali sotto la guida di Ottorino Respighi, e si interessò anche di arti figurative, cimentandosi nella pittura.

Con impegno più metodico si dedicò all’attività letteraria: suo esordio fu la raccolta di versi Palazzi incantati, edita a proprie spese (Mirandola 1913). Ad anni più maturi risalgono i contatti col teosofo austriaco Rudolf Steiner, che aveva elaborato una sua dottrina (antroposofia) e fondato nel 1913 la Società antroposofica con sede a Dornach, in Svizzera, in un edificio detto Goetheanum, dove fra l’altro si tennero corsi di arte drammatica; a Domach il Cavicchioli soggiornò ripetutamente.

Due tragedie di argomento romano, Romolo e Lucrezia (rispettivamente scritte nel 1920 e 1921, ed edite la prima a Bologna nel 1923 e la seconda a Carpi nel 1926), gli valsero una certa notorietà negli ambienti teatrali: la prima fu messa in scena nel 1932 dalla compagnia Tamberlani (con riprese negli anni successivi); la seconda nel 1925 dalla compagnia di Gualtiero Tumiati e Letizia Celli.

Minor attenzione riscossero altri suoi lavori teatrali: Guerino detto il Meschino, leggenda per bambini con intermezzi musicali di A. Lualdi, presentata nel 1919 al teatro dei Piccoli di Roma creato e diretto da Vitorio Podrecca, e Intellettuali, gioco scenico scritto nel 1925 e presentato a Mirandola nel 1933 dalla compagnia Sperani-Tamberlani-Bettinelli. La censura impedì nel 1931 la messa in scena della commedia Rosa in fiore (pubblicata insieme con la precedente a Modena nel 1933).

Nel 1924 il Cavicchioli era stato presentato dall’amico, Orio Vergani a Luigi Pirandello, a fianco del quale, assieme ad altri (Era cui il Vergani, Massimo Bontempelli e Giuseppe Prezzolini), partecipò all’ideazione del “Teatro dei dodici”, progetto concretatosi poi nel 1925 con la fondazione del teatro d’Arte di Roma, alla cui direzione si pose lo stesso Pirandello.

Negli anni successivi, che, pur con frequenti spostamenti e continuando a mantenere i rapporti con l’ambiente romano, trascorse soprattutto a Sanremo, il Cavicchioli esercitò attività di pubblicista e di critico teatrale. All’inizio della seconda guerra mondiale si stabilì definitivamente a Mirandola, proseguendo il lavoro di giornalista.

Continuava anche a coltivare l’interesse per la pittura (fra i suoi amici più cari fu Filippo De Pisis, alla cui opera dedicò diversi articoli e il volume Filippo De Pisis, Venezia 1932 e Firenze 1942), e nel 1948 ebbe luogo a Modena una mostra di suoi dipinti. Nel 1957 ricevette il premio “La Secchia”, conferitogli dall’Associazione della stampa di Modena quale riconoscimento della sua attività letteraria. Negli ultimi anni lavorò ad un saggio, rimasto incompiuto, sul suo conterraneo Giovanni Pico della Mirandola.

Durante la sua carriera giornalistica collaborò a numerosi periodici e quotidiani (fra gli altri: La Nuova Antologia, La Fiera letteraria, Il Popolo d’Italia, L’Illustrazione italiana, Il Resto del Carlino, L’Avvenire d’Italia, La Gazzetta di Modena).

Cavicchioli morì a Mirandola il 13 gennaio 1964.

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