093. Il marito di mia moglie – Novella

Prime pubblicazioni: Il Marzocco, 15 febbraio 1903, poi in Beffe della morte e della vita, Lumachi Firenze 1902.
«Invece, ogni notte, seduto presso la finestra, me ne sto quieto quieto a contemplare il cielo, a lungo. C’è una stellina piccola piccola lassù, a cui tengo fissi gli occhi e a cui dico spesso, sospirando: – Aspettami, verrò!»

Novella dalla Raccolta “Tutt’e tre” (1924)

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Il marito di mia moglie
Immagine dal Web.

Il marito di mia moglie – Audio lettura 1 – Legge Valter Zanardi
Il marito di mia moglie – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
Il marito di mia moglie – Audio lettura 3 – Legge Lorenzo Pieri
Il marito di mia moglie – Audio lettura 4 – Legge Giuseppe Tizza

5. Il marito di mia moglie – 1903

             Il cavallo e il bue, ho letto una volta in un libro, di cui non ricordo più né il titolo né l’autore, – il cavallo e il bue…

             Ma sarà meglio lasciarlo stare, il bue. Citiamo il cavallo soltanto.

             Il cavallo,  – dunque, – che non sa di dover morire, non ha metafisica. Ma se il cavallo sapesse di dover morire, il problema della morte diventerebbe alla fine, anche per lui, più grave assai di quello della vita.

             Trovare il fieno e l’erba è, certo, gravissimo problema. Ma dietro questo problema sorge l’altro: «Perché mai, dopo aver faticato venti, trenta anni per trovare il fieno e l’erba, dover morire, senza sapere per qual ragione si è vissuto ?».

             Il cavallo non sa di dover morire, e non si fa di queste domande. All’uomo però, che – secondo la definizione di Schopenhauer – è un animale metafisico (che appunto vuol dire un animale che sa di dover morire), quella domanda sta sempre davanti.

             Ne segue, se non m’inganno, che tutti gli uomini dovrebbero sinceramente congratularsi col cavallo. E tanto più quelli animali metafisici che, malati, per esempio, come me, non solo sanno di dover morire tra breve, ma anche ciò che accadrà in casa loro, dopo la loro morte, e senza potersene adontare.

             I residui non sono mai limpidi. L’umor vitale agli sgoccioli s’inacidisce vie più, di giorno in giorno, dentro di me. E voglio, riempiendo questi pochi foglietti di carta, procurarmi la soddisfazione sapor d’acqua di mare ( soddisfazione che pur non sentirò) di far conoscere a mia moglie, che avevo tutto preveduto.

             L’idea m’è nata questa mattina. E m’è nata perché mia moglie m’ha sorpreso nel corridojo, dietro l’uscio del salotto, cheto e chinato a spiare per il buco della serratura.

             – O tu che non sei geloso, – mi gridò, – che stai a far lì? To’, guarda! Ti sei finanche tolte le scarpe, per non far rumore.

             Mi guardai i piedi. – Scalzi! – era vero. E mia moglie intanto rideva fragorosamente. Che dire?’ Balbettai sciocchissime scuse: che non spiavo affatto, che solo per curiosità m’ero spinto a guardare: non avevo più sentito il pianoforte; non avevo veduto andar via il maestro, e così…

             Ma giuro che le scarpe (con rispetto parlando) me l’ero tolte da un pezzo, senza intenzione. Mi fanno male. E lei, la mia cara Eufemia che mi ha sorpreso lì scalzo, dovrebbe sapere perché mi fanno male, e non riderne, almeno davanti a me. Ho gli edemi ai piedi e, per ingannare il tempo, me li tasto: li premo, vi affondo una ditata e poi sto a guardare come a poco a poco rivenga su.

             Ciò non toglie però che non abbia commesso una imperdonabile sciocchezza.

             Ma se lo sapevo, ma se lo so, che mia moglie non può soffrirlo, quel suo maestro di musica! E poi sono certo, certissimo che – finché vivo – ella non mi tradirà. Non mi ha tradito in tanti anni, e dovrebbe confondersi per un altro pajo di mesi – e poniamo – quattro, sei? Ma no: ella avrebbe pazienza, ne son sicuro, anche se tirassi avanti, così, ancora un anno.

             E poi, lo conosco, lo conosco bene il marito – (futuro) – di mia moglie! E anche per lui potrei metter le mani sul fuoco che non mi farà il minimo torto, finché il naso mi fumica.

             È, s’intende, un mio carissimo amico. Ottimo giovine.

             Giovine, poi, veramente, non tanto. Quarant’anni, quasi l’età mia. Ma già, io, come se n’avessi cento; mentre lui, solido, ben piantato nella vita, come in un bosco una quercia; e poi dotato, come dicevano gli antichi, «di tutte quelle buone parti che a fare un perfetto marito si ricercano»: castigati costumi, generosa e gentilissima natura.

             Lo provano le cure che ha per me.

             Quasi ogni giorno, per dirne una, viene con la vettura per farmi prendere una boccata d’aria. Mi dà il braccio e m’ajuta a scendere pian pianino la scala, obbligandomi a sostare sui pianerottoli, a ogni branca, fin tanto che lui non abbia contato fino a cento; poi mi tasta il polso per sentirne la repenza, mi guarda negli occhi, mi domanda dolcemente:

             –    Proseguiamo?

             –    Proseguiamo.

             E così via, fino in fondo, pian pianino, pian pianino. Per risalire, dopo la scarrozzata, – egli da una parte, il portinajo dall’altra – mi portano su in sedia.

             Mi sono ribellato, ma invano. Non posso, è vero, far sette scalini di fila, che l’ansito non mi sopravvenga insopportabile; ma ecco: vorrei che l’amico non si pigliasse tanto fastidio; che il portinajo si facesse almeno ajutare da qualcun altro… Che! Florestano, se gli fosse possibile, vorrebbe portarmi su lui solo, senza ajuto. Via, in fin de’ conti, non peso molto (sì e no, quarantacinque chilogrammi, con tutti gli edemi); e poi penso: servendo me, vuol guadagnarsi la felicità futura. Lasciamolo fare!

             Anche mia moglie Eufemia, dall’altro canto, è quasi felice di soffrire per me, e più vorrebbe, per guadagnarsi anche lei, di fronte alla propria coscienza, il diritto di goder dopo, senz’alcun rimorso. Onesto diritto, onestissimo compenso, che né la vita né la coscienza possono negarle, e di cui io, ripeto, non debbo adontarmi.

             Confesso tuttavia che, più volte, m’avviene quasi quasi di desiderare che l’uno e l’altra siano due birbaccioni matricolati. L’onestà dei loro propositi, la squisitezza dei loro sentimenti, diventa spesso per me la più raffinata delle crudeltà, poiché io, non potendo in nessun modo ribellarmi a quanto avverrà senz’alcun dubbio dopo la mia morte, mi vedo costretto, per esempio, tante volte, a tirarmi tra le gambe il mio piccino, l’unico mio figlioletto, e a mettermi a insegnargli d’amare, d’aver rispetto filiale per colui che sarà fra poco suo secondo padre, e ad ammonirlo perché cerchi di non dargli mai causa, che abbia a lamentarsi di lui. E gli dico:

             – Vedi, Carluccio mio: tu hai le manine sporche. Come t’ha detto jeri zio Florestano, quando t’ha veduto una cenciata d’inchiostro sul nasino? T’ha detto: «Lavati, Carluccio, o ti catturano, sai!». Non è mica vero, però: zio Florestano scherza. Oggi non costuma più mandare in galera chi ha le mani sporche. Ma tu lavatele a ogni modo, perché zio Florestano ama i bambini puliti. Egli è tanto buono e ti vuol tanto bene, Carluccio mio; e anche tu, sai; devi volergliene tanto tanto; e ubbidirlo, sai! sempre; e lasciarlo sempre contento di te. Hai capito, figlietto mio?

             E gli magnifico tutti i regalucci ch’egli, per far piacere a Eufemia, gli porta. Il povero piccino mio segue i miei consigli, e già lo venera. L’altro giorno, per esempio, Florestano se lo portò a spasso, e, al ritorno, mi raccontò ridendo che, mentre camminavano insieme, traversando la piazza piena di sole, a un certo punto Carluccio mise un grido, s’arrestò e gli domandò tutt’afflitto:

             –    T’ho fatto male, zio Florestano?

             –    No, Carluccio. Perché?

             E il mio piccino, ingenuamente:

             – T’ho pestato l’ombra, zio Florestano.

             Eh via, no: fino a questo punto, no, povero Carluccio mio! Sei stato proprio sciocchino. L’ombra, vedi, l’ombra si può calpestare: zio Florestano e la mammina tua la calpesteranno un giorno l’ombra di tuo papà sicuri di non fargli male, poiché, in vita, si saranno guardati bene dal pestargli anche un piede.

             Che gara di compitezze fra noi tre! E che grazioso martirio, intanto. Da povero malato, io vorrei lasciarmi andare come vien viene; invece, mi vedo costretto a tenermi su, per pesare quanto meno sia possibile su loro, che altrimenti m’userebbero tanti altri riguardi, tante altre premure che mi fanno ribrezzo, talvolta, anzi orrore. Avrò torto. Ma questo spettacolo della nostra squisita civiltà, delle nostre continue cerimonie, davanti alla soglia della morte, mi sembra una stomachevole pagliacciata. Coi guanti gialli, e infinite cortesie, mi vedo dolcemente sospinto da loro fino a questa soglia; e ora mi sembra che mi s’inchinino e mi dicano con un sorriso grazioso sulle labbra:

             – Passi pure. Buon viaggio! E stia sicuro, sa, che noi ci ricorderemo sempre sempre di lei, così buono, così prudente e ragionevole!

             Mi hanno insegnato che bisogna esser sinceri. Sinceri? Ma la sincerità, per me, a questo punto, vorrebbe dire senz’altro: uccidere. Dio me ne guardi! Chi mi trattiene?

             Parliamo un po’ sul serio. Se io non avessi fede, se io non credessi in Dio, davvero; se credessi invece che la morte sia limite anche all’anima d’ogni avvenire, e che, mancandomi la terra sotto i piedi, il vuoto e null’altro m’accoglierà, credete che Florestano io non lo ammazzerei?

             Quando penso, certe notti, nell’insonnia, che egli si coricherà nel mio letto, al posto mio, lì, con tutti i miei diritti su mia moglie e su le cose mie: quando penso che nel lettuccio della camera accanto il figlietto mio, l’orfanello mio, qualche notte forse si metterà a piangere e chiamerà la mamma sua, e penso che egli a mia moglie che vorrà accorrere a vedere che cos’ha il piccino mio che piange, forse dirà: – «Ma no, cara, lascialo piangere, non scendere dal letto; ti raffredderai!» – io, Florestano, vi giuro, lo ammazzerei !

             Invece, ogni notte, seduto presso la finestra, me ne sto quieto quieto a contemplare il cielo, a lungo. C’è una stellina piccola piccola lassù, a cui tengo fissi gli occhi e a cui dico spesso, sospirando:

             – Aspettami, verrò!

             E ad Eufemia, che è figlia d’un libero pensatore e ostenta di non credere in Dio, ripeto spesso:

             – Sciocca, credici: Dio esiste. E ringrazialo, sai? Ringrazialo.

             Eufemia mi guarda, come se le paresse strano che io, Luca Lèuci, possa dirle così, io che – secondo lei – non avrei davvero alcun obbligo di crederci, poiché Dio mi tratta male, facendomi morire così presto. Ma lo ringrazierà, quando le verranno tra mano questi pochi foglietti di carta, se ama di cuore il suo Florestano.

             Intendo bene che l’unica è di morir presto, qua. Vedo certe volte Florestano che con gli occhi e coi sospiri si sforza di far capace mia moglie dei desiderii che lo tormentano, pover’uomo! M’immagino allora mia moglie col bel capo biondo reclinato vezzosamente sull’ampio petto quadro di lui, nell’atto di carezzargli appena appena, stirando in su con due dita, i lunghi peli rossicci del magnifico pajo di baffi… Oh voluttà! Pazienza anche tu, cara Eufemia mia! E certe paroline di notte, come le hai dette a me, abbracciata con me, le dirai presto, le dirai anche a lui, senza quasi sapere di dirle:

             – Tesoro mio… Ah, caro… sì, sì… Caro, caro…

             Mi vien da ridere, da ridere. Tutti e due allora, maravigliati, mi domandano perché ho “riso: io dico un motto di spirito, e Florestano osserva:

             – Tu sarai vecchio, caro Lèuci, e sempre così celione!

             Ma spesso anche non riesco a esser celione, come dice l’amico mio. L’arguzia, senza volerlo, mi diventa mordace, e allora Florestano, in vettura con me, ci soffre a sentirmi parlare. Io gli dico:

             – Se non fosse un brutto posto, ti proporrei, caro Florestano, di metterti un momentino al posto mio. T’assicuro che ti farebbe lo stesso effetto curioso che fa a me questo poter vedere la vita così, come resterà per gli altri, nella certezza che tra poco, forse mentre stai a dirlo, essa per te finirà; e il poter pensare ciò che gli altri faranno ragionevolmente, quando tu non sarai più.

             Parlo chiaro; ma Florestano finge di non comprendere. E io continuo:

             – Caro Florestano, io so, per esempio, la corona di porcellana che verrai a depormi sulla fossa, quando vi giacerò.

             Florestano mi dà sulla voce, e io allora mi taccio e, così magro magro e pallido e afflitto come sono, mi metto a guardare dal cantuccio della vettura che va a passo per gli aerei viali del Gianicolo, questa dolcezza di sole che tramonta; la vita, come la assaporeranno gli altri, anche amara, che importa? questo grosso sanguigno uomo qua, che mi siede accanto e sospira; mia moglie che a casa, in attesa, anche lei sospira: e anche, senza più me, il mio piccino, che un giorno, presto, non saprà più chi ero, com’ero!

             – Papà…

             E Florestano, voltandosi, gli risponderà sgarbato:

             – Che vuoi?

             Il marito di tua madre, Carluccio, che non è il tuo papà vero. Ci pensi? Ma la vita pure, Carluccio, è così bella… così piena…

Raccolta Tutt’e tre
01 – Tutt’e tre – 1913
02 – L’ombra del rimorso – 1914
03 – Il bottone della palandrana – 1913
04 – Marsina stretta – 1904
05 – Il marito di mia moglie – 1903
06 – La maestrina Boccarmè – 1899
07 – Acqua e lì – 1897
08 – Come gemelle – 1903
09 – Filo d’aria – 1914
10 – Un matrimonio ideale – 1914
11 – Ritorno – 1923
12 – Tu ridi – 1912
13 – Un po’ di vino – 1923
14 – La liberazione del re – 1914
15 – I due compari – 1912

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