Luigi Pirandello tra l’arte e la vita

Di Alessandra Agosti 

Affrontare Luigi Pirandello e la sua “umana avventura” di uomo e di scrittore-drammaturgo significa addentrarsi in una giungla intricata di convinzioni e contraddizioni, principi teorici e loro sovvertimenti, slanci d’amore e sprezzanti egoismi, grandi vette letterarie e umane tristezze.

Indice Tematiche

Marta Abba e Luigi Pirandello

Luigi Pirandello tra l’arte e la vita

Per gentile concessione dell’Editore. 

  • L’amore e l’odio per il teatro e la sua crescita come drammaturgo, famoso in tutto il mondo. 
  • L’esperienza del Teatro d’Arte, i successi e le delusioni. 
  • La grande passione: Marta Abba. 

     Nel nostro percorso per Educare al teatro, rivolto sia al pubblico sia agli “addetti ai lavori”, una stazione di sosta quanto mai importante non poteva non essere quella dedicata a Luigi Pirandello.  Con lui il teatro italiano cambia forma e prospettiva. Con lui la scena tricolore mostra i propri limiti e le proprie altezze. Con lui, più in generale, la letteratura in senso lato affronta strade nuove rispetto a quelle battute comunemente, salvo qualche rara eccezione, dagli autori nazionali.

     Uomo pieno di contraddizioni e inquietudini, egli mostra le stesse caratteristiche anche come drammaturgo. Percorrendo la storia della sua vita e della sua arte, non a caso se ne notano i percorsi assolutamente paralleli, fatti di momenti di entusiasmo, altri di crisi e di sconforto, gli uni riflessi negli altri. E in tutto questo un ruolo di primo piano assume la figura di Marta Abba, donna amata, attrice idolatrata: e anche in questo caso l’una cosa si fonde nell’altra.

È a lei che Pirandello drammaturgo dedica molta della seconda parte della sua produzione teatrale; ed è a lei che l’uomo Pirandello si vota totalmente. Gli spigoli sono tanti, nella sua personalità: un egoismo che assume i connotati dell’autodifesa da un mondo che, nell’arte come nella vita privata, troppo spesso non lo soddisfa; un costante dibattersi tra problemi economici che lo portano ad avere un atteggiamento materiale nei confronti di quell’arte verso la quale vorrebbe poter rimanere assolutamente puro, concettuale; un comportamento in amore contraddittorio, tra gli slanci sterili (e vedremo come e perché) verso la Abba e il distacco addirittura disgustato verso la propria famiglia. Insomma, uomo difficile e pieno di sfumature, Pirandello. Proprio come il suo teatro.

   Affrontare Luigi Pirandello e la sua “umana avventura” di uomo e di scrittore-drammaturgo significa addentrarsi in una giungla intricata di convinzioni e contraddizioni, principi teorici e loro sovvertimenti, slanci d’amore e sprezzanti egoismi, grandi vette letterarie e umane tristezze.

Ed è significativo iniziare questa esplorazione con un cenno biografico che lo stesso Pirandello amava sottolineare, simbolico di quel costante confrontarsi fra arte e vita che fu proprio della sua poetica. Luigi Pirandello nacque infatti nel 1867 in Sicilia, in una sperduta località nei pressi di Girgenti (l’odierna Agrigento) detta originariamente Càvusu ma già nominata, all’epoca, Caos, pare per l’errore di trascrizione di un impiegato comunale: “Io son figlio del Caos – scrive al riguardo Pirandello -; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco ‘Kaos’”.

Luigi Pirandello - Una breve biografia
L’ingresso alla casa natale di Luigi Pirandello

     A convincere il padre di Luigi, Stefano, a trasferire là la moglie Caterina Ricci Gramitto ormai prossima al parto, era stata un’improvvisa epidemia di colera che aveva colpito l’isola.
I genitori di Pirandello erano entrambi di famiglia agiata e la madre era sorella di un ex compagno d’armi di Stefano, che aveva partecipato alle imprese garibaldine tra il 1860 e il ‘62. Da parte di madre, il nonno di Luigi era Giovanni Ricci Gramitto, morto ad appena 46 anni in esilio a Malta, spedito nell’isola dopo il ritorno dei Borboni contro i quali si era schierato durante la rivoluzione siciliana del 1848.

Da parte di padre, invece, il nonno era Andrea Pirandello, armatore e uomo d’affari che si dedicava al lucroso commercio dello zolfo. Quella di Pirandello fu un’infanzia certamente agiata, ma non scevra da difficoltà sotto il profilo umano, in particolare per la mancanza di comunicare con il padre.

     Fu studente impegnato fin da piccolo, sia con gli insegnanti privati che lo seguirono nei primi anni, sia in seguito, prima in un istituto tecnico e quindi al ginnasio, dove cominciò ad appassionarsi alla letteratura. Molto precoce anche il manifestarsi del suo talento letterario, visto che assai giovane scrisse Barbaro, la sua prima opera poi andata perduta.

   Quanto agli studi universitari, Pirandello li iniziò a Palermo nel 1886, ma poi si trasferì a Roma, dove proseguì la sua preparazione nel campo della filologia romanza. Ma problemi di rapporti tra l’arte e la vita con il rettore dell’ateneo lo costrinsero – anche su consiglio di Ernesto Monaci, suo mentore – a proseguire gli studi a Bonn nel 1889, aprendo quel ponte privilegiato con la Germania che rimarrà per tutta la sua vita, trascorrendo lunghi periodi specie a Berlino, tra i centri culturalmente più vivaci dei primi decenni del Novecento. La laurea giunse nel 1891 con un’approfondita tesi sul dialetto dell’Agrigentino: Foni ed evoluzione fonetica del dialetto di Girgenti (in tedesco Laute und Lautentwicklung der Mundart von Girgenti). Ma questi di Bonn sono anni importanti anche sotto il profilo umano, in particolare per quanto riguarda il rapporto sempre inquieto di Pirandello con l’amore.

Nella città tedesca, infatti, il futuro drammaturgo si innamora di Jenny Lander, giovane e attraente figlia di un ufficiale. Dell’incontro con lei così scrive in una lettera del 1890 alla sorella Lina: “Fui a dirittura forzato a farlo (ballare, ndr) da una mascherina azzurra da un cappellaccio di paglia spropositato – che mi si attaccò al braccio e non mi lasciò più per tutta la sera. A mezzanotte, ora in cui è costume di tòr via le maschere, fui meravigliatissimo di riconoscere nella mia diabolica incognita una delle bellezze più luminose, che io mi abbia mai visto. Oggi, seguendo l’uso, mi son recato a farle visita in casa, per domandare come l’avesse lasciato il pazzo uragano di ieri sera.

    Ella ha nome Jenny Lander, ha venti anni, ed è figlia di un distinto ufficiale di guarnigione a Bonn. Io non so descrivere che cosa sia un ballo carnevalesco in Germania, e che cosa diventino le donne in tale occasione. Tutto fino al bacio è permesso, senza pregiudizio di sorta”.

Jenny Schulz Lander. Immagine dal Web.

 È per Pirandello una sorta di ubriacatura di libertà: qualcosa di simile a ciò che, negli anni maturi, lo porterà a girare per l’Europa alla ricerca di una soddisfazione e di una pace che in Italia, professionalmente e affettivamente, ritiene gli siano negate. Va però ricordato che, all’epoca, Pirandello era fidanzato con Lina, una sua cugina di quattro anni più vecchia, dal matrimonio con la quale farà di tutto, riuscendoci, per fuggire. In una lettera di quello stesso 1890, pochi mesi più tardi, è evidente come Pirandello non senta più un grande desiderio di tornare in Sicilia, che definisce “terra di pecore”, con un’unica eccezione riservata all’amata Caos. Nell’aprile di quell’anno si trasferisce addirittura in casa di Jenny, come studente a pensione. Intenzionato a crearsi un futuro in Germania, non riuscendovi Pirandello deve però tornare, nel 1892, a Roma, mantenendosi grazie agli assegni mensili inviati dal padre. Fu qui che Pirandello entrò in contatto con il mondo letterario italiano, soprattutto grazie all’amicizia con Luigi Capuana. Il ritorno in Italia segnò però definitivamente anche il destino di Pirandello-uomo: da tempo infatti suo padre trattava per  far convolare a nozze Luigi con Antonietta, la figlia del ricco possidente Calogero Portolano, suo socio d’affari. Il giovane non può che acconsentire e i due si sposano, a Caos, il 28 giugno 1892. Dalla loro tormentata unione, segnata soprattutto dalla malattia mentale di Maria Antonietta, nasceranno tre figli: Stefano nel 1895, Rosalia nel 1897 e Fausto nel 1899.

Pirandello e la madre
Luigi Pirandello da bambino con sua madre, Caterina Ricci Gramitto, e le sorelle Lina e Anna

Quello di Pirandello con le donne non fu un rapporto particolarmente facile e lineare. Molto amato da donne che non amò abbastanza da un lato e innamorato follemente di donne che non lo amarono abbastanza, il drammaturgo ebbe la vita segnata da almeno quattro figure femminili di particolare rilevanza. Prima di tutto la madre, Caterina, con la quale visse praticamente in simbiosi esclusiva per i primi anni nel rifugio di Caos. Poi la giovane berlinese Jenny Lander, per la quale fece soffrire la fidanzata dell’epoca, sua cugina Lina, più vecchia di lui.
E ancora la moglie, Antonietta, segnata dalla disgrazia di una latente malattia mentale destinata a esplodere nel tempo: difficile dire se e quanto si amarono, anche se secondo molti studiosi il sentimento di Pirandello nei suoi confronti fu, almeno per alcuni anni, sincero. Infine, il grande amore: Marta Abba, attrice di grande fascino e temperamento; per lei Pirandello perse letteralmente la testa, vivendo con intensità un sentimento peraltro non ripagato dalla donna (senza dimenticare la “tragica” notte di Como della quale il drammaturgo fa cenno in alcune lettere: ella, si pensa, gli si offrì, ma egli rifiutò…).

Pirandello pittore
Luigi Pirandello, Ritratto della moglie Antonietta, 1910, olio su tavola 15×22 cm

Povera Lina, cugina-fidanzata messa in disparte per Jenny

Non fu davvero quel che si dice un cavaliere, Luigi Pirandello, quando si trattò di togliersi di torno Lina, cugina di quattro anni più vecchia di lui con la quale si era fidanzato prima della partenza per Berlino durante gli anni dell’Università. Conosciuta la piacente e certamente assai più disinibita e generosa Jenny Lander, il giovane Luigi fece di tutto per riuscire a costruirsi un futuro professionale in Germania: cosa che peraltro non gli riuscì, costringendolo a tornare in Italia e a sposare poi Antonietta Portolano. In una lettera del 1889, così scrive dunque alla famiglia: “Come vedete, ogni probabilità di mio ritorno in Italia si è allontanata, e ormai non mi resterà che mandare a Lei (ossia alla fidanzata Lina, ndr) in mia vece tutti i libri che verrò man mano pubblicando”.
Pochi mesi dopo rincara la dose: “Tra due mesi comincerò a insegnare all’Università di Bonn; ma una tal posizione non mi permette certamente di osservare i miei impegni precedenti (la promessa di matrimonio, ndr)”.
Ma non basta. Rivoltosi a un medico tedesco per alcuni problemi riscontrati al cuore, trasforma in una potente arma contro Lina e la vita coniugale il fatto che l’uomo gli abbia sconsigliato vivamente di prendere moglie perché, così avrebbe detto, ciò non sarebbe stato sostenibile dal suo organismo per più di due anni.
In una lettera alla sorella Annetta del giugno dello stesso 1890 scrive dunque: “Io ho scritto a Lina, così come l’ho scritta a Te, la risposta del medico. Ora a lei lo scegliere.  S’ella vuole assumersi la funesta responsabilità, lo faccia – e io mi dò a lei con somma gioia, anche condannato a morir tra breve”. Da notare che proprio in quei mesi Pirandello si era trasferito in casa della bella Jenny, la cui madre dava camere in affitto agli studenti.
La rottura con Lina diviene ufficiale nell’agosto del 1891, come si evince dalla lettera che Pirandello invia a suo padre scrivendo: “Oh mi si lasci solo, io non chiedo che di viver solo! (…) Io non debbo, io non posso sposare”; e da quella che invia a Lina, dichiarando tra l’altro, con un sottile tono di minaccia: “Bada, Lina; non sono io che t’uccido: sei tu che ti vuoi suicidare! Io te l’ho detto: non penserò più ad alcuna donna al mondo; rimarrò legato a te per tutta la vita; ma tu non perdere la giovinezza che t’avanza aspettandomi, perché altrimenti non faresti più a tempo. Io ho appena 24 anni e non posso avere né ora né presto quel collocamento che ci vorrebbe per sposare”.

Il rapporto con il teatro: amore, odio e… soldi

Fin dai tempi dell’Università, Pirandello inizia ad avvicinarsi al teatro. Un avvicinamento, questo, che si evince principalmente dall’epistolario giovanile del drammaturgo, una cui bella edizione è stata curata da Elio Providenti. Nel 1887, ad esempio, scrive in una lettera che “il mio unico divertimento, quando ho quattrini, è il teatro drammatico e niente altro”. Teatro drammatico, dunque. Un’annotazione che fa dire a Roberto Alonge (nel suo bel volume dal titolo Luigi Pirandello. Il teatro del XX secolo, ed. Laterza, 1997): “È già evidente in questo Pirandello giovane, come sarà poi nel Pirandello vecchio, nel Pirandello capocomico, la scelta di un teatro d’arte, di un repertorio non commerciale”. Un concetto che l’autore ribadisce in una lettera del 1887: “Oh, il teatro drammatico! Io lo conquisterò. (…) Spesso mi accade di non vedere e di non ascoltare quello che veramente si rappresenta, ma di vedere e ascoltare le scene che sono nella mia mente: è strana allucinazione che svanisce ad ogni scoppio d’applausi, e che potrebbe farmi ammattire dietro uno scoppio di fischi”. Questa lettera è però importante anche per i riferimenti che in essa Pirandello vi fa alla figura dell’attore (nella fattispecie Tommaso Salvini), croce e delizia del drammaturgo che, nel corso della sua attività artistica, avrà nei confronti dell’interprete in generale un rapporto di amore, odio e rinnovato amore: passerà infatti da un’impostazione tradizionale delle sue opere a un periodo di sprezzante allontanamento nei confronti della scena tradizionale, fino a un tardivo ritorno al cosiddetto teatro all’antica italiana”, che voleva  appunto la centralità dell’attore, solo protagonista sulla scena; un percorso che  avrà come “paletti” più importanti l’esperienza diretta  di capocomicato vissuta con  il Teatro dell’Arte e l’amore per la sua musa Marta Abba, ella stessa attrice. Nel 1888, Pirandello è sempre più convinto della sua  scelta: “E lasciatemi seguire la via che ho tra i piedi – scrive lla  sorella Anna -, e per  che vado con l’ostinazione di un matto, finché potrò, inché mi  sarà possibile; lasciatemi andare senza cercare di arrestarmi mai, in alcun modo, neanco con le proteste del vostro amore, però che son così infatuato del mio lavoro, così soggiogato dall’arte, così ostinato, per voluttà di annientamento, alle fatiche, da preferire perfino  non ti paja bestemmia – di essere odiato da tutti e da tutti abbandonato, più tosto che essere dall’amore allontanato di questa mia passione, che mi dà – solo premio – la dimenticanza. Io vivo per la gioja di veder nascere la vita dalle mie pagine, togliendola dal mio corpo, dal mio sangue, dalla mia carne, dal mio cervello. È un lavoro assiduo di distruzione per creare. Non mi importa che altri sia o no partecipe di questa mia gioja: non cerco fama o gloria, fo il mio mestiere, come ognuno fa il suo; occupo il mio tempo, passo la vita così, poi che non saprei in altro modo”.

     Ma il suo amore non è ripagato dal teatro con la stessa moneta. Tra il 1886 e il 1897 Pirandello scrive almeno quindici testi, che però non arrivano mai al palcoscenico e in larga parte finiscono perduti o dati alle fiamme. La delusione del futuro drammaturgo è grande e anche per questo egli si volge verso il genere poetico e narrativo, cominciando a guardare al teatro con occhi torvi: i teatranti diventano così, nella sua mente, una banda di ignoranti che pensano solo al vil denaro.  Sente ancora scottare la delusione provata quando, nel 1908, dà alle stampe Illustratori, attori e traduttori, saggio nel quale torna a lanciare strali contro gli attori. “Questa concezione negativa della mediazione attoriale – scrive Alonge, riferendosi alla posizione di Pirandello – nasce sulla base degli stessi presupposti crociani secondo i quali il testo teatrale è una realtà autosufficiente e la rappresentazione ha unicamente funzione pratica, di memoria, di comodità. Chi non legge il testo vede lo spettacolo. Chi non può gustare una poesia nell’originale (perché ne ignora la lingua) si avvale della traduzione. Ed esattamente come la traduzione, che – secondo Croce, qui citato espressamente da Pirandello – ‘o sminuisce o guasta’, perché non è possibile ridurre in altra forma estetica ciò che ha già avuto la sua forma d’arte, così anche ogni allestimento teatrale ‘verifica quali dimensioni certe la diminuzione e il guasto”.

Il crollo finanziario

Certo, va detto che sull’argomento Pirandello si mostra alquanto confuso, in un continuo tiro alla fune pro e contro l’attore, pro e contro la rappresentazione scenica. A riportarlo sulle rive del teatro sarà comunque, poco più tardi, un motivo non proprio artisticamente corretto – ma comprensibile – come quello economico: un tema, questo, anzi un affanno, decisamente ricorrente nella vita di Pirandello. Che cosa era capitato? Dopo il matrimonio con Antonietta nel 1894, i due si erano trasferiti a Roma, dove vivevano agiatamente. Ma nel 1904 una frana aveva costretto alla chiusura una miniera di zolfo controllata dal padre di Pirandello, nella quale era stata investita buona parte della dote di Antonietta. La situazione era precipitata: la malattia mentale della donna esce sempre più allo scoperto, tra fughe di lei dai genitori o abbandoni del tetto coniugale da parte di lui. E le cose andranno sempre peggio, fino al 1919, anno nel quale Pirandello accetterà di far internare la moglie, ormai incontrollabile. Evidente il collegamento diretto tra queste esperienze  personali e l’interesse con il quale, nella propria produzione letteraria e drammaturgica, Pirandello affronta i temi dell’inconscio, della psicologia del singolo e della società, che proprio in quegli anni, con le teorie di Sigmund Freud, stava divenendo materia di studio e approfondimento. Trovatosi dunque nella necessità di ripianare le dissestate finanze familiari (in pratica gli restava solo lo stipendio da docente al Magistero femminile, cui aggiungeva lezioni private e proventi derivanti dal suo impegno letterario e giornalistico per Il Corriere della Sera), lo scrittore vede nel teatro dialettale una possibile, consistente fonte di reddito. A indirizzarlo verso questo tipo di repertorio è Nino Martoglio, anch’egli drammaturgo dialettale e caro amico. In una lettera del 1° agosto 1907 – quella che apre il consistente epistolario tra i due – è evidente come l’avvicinamento di Pirandello al teatro, in questo periodo, abbia assunto connotazioni nuove: non c’è più la sola spinta artistica che l’aveva animato all’inizio; ad essa si sono infatti sovrapposti da un lato il desiderio – peraltro non poi così sentito – di tenere alto l’onore di quel dialetto siciliano al quale aveva dedicato la propria tesi, dall’altro il ben più concreto e notevole interesse economico. Il teatro è un buon affare, Pirandello lo sa: ad ogni replica, i diritti d’autore sono in media il 10 per cento degli incassi lordi; ben più di quanto gli porta la narrativa. “Non potrei fare qualche cosa anch’io? – scrive in una lettera a Martoglio del 1914 – Avrei tanti e tanti argomenti di qualunque specie, tu lo sai! E avrei in questo momento tanto tanto tanto bisogno di guadagnare: tu lo sai! Sono disperato per 500 lire che mi urgono per bisogni immediati e non so come e dove trovare. Potresti procurare di farmele avere a titolo d’anticipazione impegnativa per un lavoro che ti potrei far subito, a richiesta?  Due mie novelle Nel segno e Lontano, drammaticissime  e piene di poesia, si presterebbero soprattutto a esser ridotte in films e potrei far subito la riduzione: a richiesta;  ma avrei bisogno subito di queste 500 lire”. E dopo il teatro, anche il cinema diventerà un obiettivo del drammaturgo, come vedremo più diffusamente in seguito.

Martoglio è un punto di riferimento concreto e prezioso per Pirandello. È lui a consentirgli di aprirsi la strada in maniera continuativa nel teatro, dopo la fondazione a Roma del Teatro Minimo a Sezioni, che intendeva ricalcare il modello cinematografico. Per questo teatro Pirandello scrive una serie di atti unici. È sempre Martoglio, poi, a procurare l’incontro tra Pirandello e Angelo Musco, attore catanese specializzato in teatro siciliano: con   lui avverrà per Pirandello la svolta. Il bisogno di denaro in cui versa in questo periodo è chiaramente espresso anche in un’altra lettera: “Tu sai bene caro Nino, ch’io non m’aspetto nessun accrescimento di fama da questi miei lavori dialettali: tutt’al più me n’aspetto qualche utile finanziario”, scrive. D’altra parte, il clima era favorevole e molto diverso da quello attuale.

     Oggi, infatti, la drammaturgia contemporanea è assolutamente secondaria rispetto ai grandi classici, meno “rischiosi” sotto il profilo degli incassi. Nell’Ottocento e nei primi del Novecento, invece, le compagnie erano chiamate a produrre una serie impressionante di lavori, così da garantire continue novità agli spettatori. Così era anche per una compagnia importante, quella di Angelo Musco, attore e capocomico siciliano che andava per la maggiore.

Attrici che sì, attrici che no…

l innesto. sinossi
Maria Melato

Pirandello, a parte la Abba, ebbe simpatia (artistica) per altre attrici e altrettanto forti antipatie. Tra le attrici promosse dal drammaturgo, da citare senza dubbio Maria Melato, della compagnia di Virginio Talli: è sulle sue caratteristiche che, in una lettera al capocomico, Pirandello dichiara di aver composto “L’innesto”. Pesantemente negativo, invece il suo commento su Irma Gramatica, altra attrice di spicco dell’epoca, e non lusinghiero nemmeno quello riservato a Tina di Lorenzo (1872 – 1930 ) e a Olga Vittoria Gentilli (1888 – 1957).
La Melato (1885 – 1950) aveva iniziato la sua carriera nelle filodrammatiche del Modenese, approdando nel 1903 al teatro professionistico. Fu però con Talli che la Melato sviluppò in pieno le proprie doti di attrice; tra le sue interpretazioni più riuscite quelle di alcuni testi di Pirandello  (Così è, se vi pare e Vestire gli ignudi), di Rosso di San Secondo (Marionette che passione, L’ospite desiderato e La bella addormentata) e Massimo Bontempelli (La guardia alla  luna), oltre che di D’Annunzio (La fiaccola sotto il moggio, La figlia di Iorio insieme a Betrone), di Ugo Betti, di W. S. Maugham e, più avanti, di Cocteau. Fondò anche compagnie con il suo nome, curando l’allestimento complessivo degli spettacoli.

Irma Gramatica

      Irma Gramatica (1870-1962), sorella di Emma, pure lei attrice, entra giovanissima nella compagnia di Cesare Rossi, avendo tra le sue colleghe anche Eleonora Duse.

     Bella e dotata, Irma ha avuto una buona istruzione dal padre Domenico Gramatica, suggeritore, e dalla madre Cristina Gandil, sarta teatrale di origini ungheresi. Tra le sue interpretazioni più celebri, quelle ne La figlia di Jorio di D’Annunzio, Casa di bambola di Ibsen, Anime solitarie di Hauptamann, L’ombra di Niccodemi e Come le foglie di Giocosa.

La sua recitazione è molto diversa da quella della Melato: generosa e intensa quella dell’attrice di Talli, asciutta ed essenziale la sua. Interpretò anche alcuni film, tra i quali Porto (1935), Le sorelle Materassi (1942, con Emma) e Incantesimo tragico (1952).

Il teatro dialettale per Angelo Musco

A patenti
Angelo Musco (a destra) con Luigi Pirandello ed il regista Gennaro Righetti,

Per la prima volta Pirandello vive il teatro dal di dentro e non più semplicemente “a tavolino”, da drammaturgo puro: inizia così quel percorso che lo porterà a scrivere pensando sempre più all’attore. Il primo lavoro che scrive per Musco è Lumie di Sicilia, al quale fa seguito Pensaci, Giacuminu!, sviluppo di una novella del 1910. In questo testo in particolare, già nato per la pagina scritta, si vede che genere di interventi il drammaturgo compia per adattarlo al teatro: in particolare, è evidente lo sforzo di Pirandello di “normalizzare” il testo, togliendo gli spigoli eccessivi e insistendo sui punti teatralmente più vincenti, adattati alle corde istrionesche di Musco. Sul fronte della narrativa, intanto, Pirandello aveva ottenuto un buon successo di pubblico nel 1904 con il romanzo Il fu Mattia Pascal, tradotto in varie lingue. Molto amato dai lettori, però, Pirandello non ottenne altrettanta attenzione da parte della critica, che   considerò le qualità innovative di questo testo solo più avanti: Angelo Musco nel ruolo di Agostino  in “Pensaci, Giacomino!” l’interesse dei critici nei suoi confronti, infatti, arrivò solo diversi anni più tardi, intorno  al 1920, quando l’autore prese a dedicarsi in maniera preminente al teatro. Tra Pirandello e Musco i rapporti non sono facili. L’autore ce l’ha con il capocomico prima di tutto per questioni economiche: lo accusa, in particolare, di non replicare abbastanza le sue opere, che restando poco in cartellone – come nell’uso dell’epoca, d’altra parte – non gli consentono incassi abbastanza elevati. L’antipatia tocca poi la sfera artistica: “Musco è condannato alle farse” scrive nel 1917 Pirandello  a Martoglio; e qualche mese più tardi dichiara senza mezzi termini: “Non voglio più avere rapporti d’amicizia con questo signore. Per me è finita. E anche il teatro siciliano per me è finito. Se qualche altra cosa mi avverrà di scrivere per le scene, la scriverò in italiano’”. In effetti all’epoca Pirandello ha già iniziato a scrivere in italiano, visto che ha composto Così è (se vi pare) e Il piacere dell’onestà, cui fa seguito L’innesto.

     Sono gli anni – lo abbiamo detto – dei grandi attori e capocomici e il più grande di tutti è Ruggero Ruggeri: è allora a lui che Pirandello, desideroso di arrivare sempre più in alto, invia alcuni copioni, che l’attore mette in scena con straordinario successo (a parte Il giuoco delle parti, forse troppo “avanti” per il pubblico dell’epoca).

Ruggero Ruggeri – Enrico IV

“Con il Piacere – riflette Alonge – si impone la struttura portante di tutto il teatro pirandelliano: lo spazio scenico del salotto borghese (vecchia eredità del teatro europeo di ottocentesca memoria) e, al suo interno, lo sguardo pirandelliano che penetra con violenza e spacca l’universo sociale rappresentato. Da un lato una coralità di figure sociali meschine, ipocrite, pettegole, in qualche caso decisamente laide, crudeli; dall’altro lato un membro di quella stessa classe sociale che si isola in una opposizione tenace – anche se perdente – nei confronti dello stesso ceto da cui proviene. Detto con una formula, da un lato il coro e dall’altro lato l’uomo solo. Uno schema assolutamente fondante, per Pirandello, in cui il protagonista solitario (naturalmente anche un po’ eroico) è molto spesso un interprete maschile. Si indovina bene che Pirandello scrive pensando a Ruggeri, per il quale compone – fra il 1917 e il 1921, come abiti su misura, confezionati da un sarto di classe – alcuni dei testi più fulgidi di tutta la sua produzione, dal Piacere al Giuoco delle parti, da Tutto per bene all’Enrico IV”.

     Abbiamo citato L’Innesto, lavoro al quale Pirandello teneva molto, ma che considerava poco compreso da Virginio Talli, il capocomico al quale l’aveva proposta e che già aveva messo in scena vari suoi lavori. Aveva in compagnia, Talli, un’attrice che a Pirandello piaceva molto, la giovane Maria Melato; ebbene, secondo Talli il dramma non era affatto adatto alle sue corde, ma lo stesso Pirandello, in una lettera all’attore, così spiegava: “Io l’ho proprio scritto per lei, per la sua voce e per i suoi occhi. (…) Io lavoro con tutta la mia anima e con tutto il mio sangue; non ho più vita per me; sento solo di vivere, lavorando, nella vita che creo con questo mio spirito troppo complesso e troppo tormentato. Non posso scrivere cose facili e piane (qui si riferisce a quello che aveva scritto Talli riguardo a Il piacere dell’onestà, considerato una cosa facile e piana: ma forse era solo arrabbiato perché Pirandello non gliela aveva proposta, affidando ndr); non ne ho mai scritte, né saprei”. Sempre su L’innesto Pirandello torna in una lettera a Martoglio, a proposito del consiglio che egli gli dava di togliere L’innesto a Talli per darlo a Irma Gramatica, Pirandello così rispondeva: “Ma dar l’Innesto a Irma Gramatica non voglio assolutamente: costei non rappresenterà mai nulla di mio, dopo quello che m’ha  fatto col Se non così: Tina di Lorenzo non è per nulla adatta, e la Gentilli meno che meno. E poi non darei mai un dramma come l’Innesto a una compagnia secondaria; piuttosto lo lascerei nel cassetto”.

Pirandello e il fascismo

A voler definire l’idea politica di Pirandello ci si potrebbe ricollegare al patriottismo risorgimentale ed è forse in questa chiave che si possono leggere le “vicinanze” tra il drammaturgo e il fascismo. Nel 1925, la firma del drammaturgo è tra quelle in calce al Manifesto degli intellettuali fascisti, elaborato da Giovanni Gentile. Comunque, quando Pirandello entrò a far parte del Partito Nazionale Fascista la cosa sorprese e molto i suoi amici più cari. Le motivazioni di questa scelta, secondo i più, potrebbero essere di due generi: da un lato, quella già ricordata di una possibile attinenza tra fascismo e ideali risorgimentali; dall’altro, più prosaicamente, si potrebbe pensare all’interesse, visto che le sovvenzioni governative sarebbero state essenziali per l’attività della sua compagnia. Altrettanto certo è comunque che spesso Pirandello si scagliò violentemente contro alcuni esponenti del partito e che arrivò a dichiararsi apolitico: « Sono apolitico: mi sento soltanto uomo sulla terra. E, come tale, molto semplice e parco; se vuole potrei aggiungere casto…». Nel 1927, addirittura, come narrato da Corrado Alvaro, Pirandello strappò la sua tessera davanti al Segretario Nazionale. Nel ‘35 partecipa comunque alla campagna di raccolta dell’“oro per la patria” donando la medaglia ricevuta alla consegna del Premio Nobel nel ‘34. Va poi detto che il teatro “filosofeggiante” di Pirandello (come sostenuto da Croce) non rispondeva affatto a quegli ideali di pragmatismo che il fascismo portava avanti. Non a caso il drammaturgo fu tra i “controllati speciali” dell’OVRA, la polizia segreta attiva in Italia tra il 1930 e il 1943.

Sei personaggi in cerca d’autore: la svolta

Con i “Sei personaggi in cerca d’autore” si può dire arrivi a maturazione l’idea drammaturgica pirandelliana. La sua fama dilaga all’estero, il suo nome fa il giro dell’Europa e degli Stati Uniti. Sei personaggi – commenta Alonge – supera ogni altro lavoro di Pirandello perché si tratta dell’opera “più trasgressiva, perché azzera la tipologia del dramma tradizionale e inventa una situazione inaspettata. Non siamo più nel consueto salotto borghese tipico del teatro europeo dell’Ottocento(e del primo  Novecento),ma ci troviamo su un palcoscenico vuoto dove una compagnia di teatro sta provando una commedia. Sei personaggi è teatro che riflette sul teatro, che mette in scena le problematiche dell’attore e dell’autore. Ma Sei personaggi ha questo di buffo, di essere fondato su una teoria teatrale anacronistica, anche all’interno della storia biografica di Pirandello”. La riflessione di Alonge deriva dal fatto che nel 1921, anno della prima stesura dei Sei personaggi, Pirandello è già da anni entrato con decisione nel mondo del teatro: non è più un drammaturgo da scrivania ma frequenta in prima persona il palcoscenico, conosce gli attori, ha imparato a capirne e apprezzarne le qualità. L’idea di teatro che emerge invece da Sei personaggi si riallaccia, secondo Alonge, a quella di Illustratori, attori e traduttori del 1908. Un balzo all’indietro, insomma. “Gli attori dei Sei personaggi – scrive ancora lo studioso – sono superficiali, frivoli, scarsamente acculturati, professionalmente modesti”. Interessante, a tale riguardo, è allora una lettera scritta da Virginio Talli a Pirandello nel 1918, nella quale il capocomico così si sfoga: “Io conosco questa sciagurata gente, amico mio, l’ho attorno da 35 anni e ti posso assicurar che non ha cambiato d’un attimo. – Gli stessi bassi calcoli, le stesse  violenze a base di interesse, di solo tornaconto personale, le solite invidie, le identiche vanità – e soprattutto la stessa ignoranza. Ti giuro che il combattere con questa piccola raccolta di poveri, inviperiti dall’illusione che procurano ai loro cervelli  sonnolenti i vestiti sgargianti che usano professionalmente e le parole affidate dagli  autori alle loro bocche… è un martirio”.
Questa posizione, espressa da un uomo di teatro esperto come Talli, potrebbe quindi aver influenzato Pirandello. Né d’altra parte mancano i segnali di quanto il drammaturgo avesse recepito delle esperienze teatrali sia proprie sia in atto nel resto d’Europa. La figura del capocomico, in particolare, si avvicina in qualche modo a quella dei “regisseurs” che cominciavano a operare nei teatri delle grandi città del vecchio continente.

Georges Pitoëff

Questa versione originaria e quelle successive che l’opera subirà (anche per mano di registi come Georges Pitoëff, verso il quale Pirandello nutrirà un misto di amore e odio) non sono però – come segnalano molti studiosi – così innovative come si potrebbe pensare; e lo stesso discorso può valere per Ciascuno a suo modo e Questa sera si recita a soggetto, riconducibili allo stesso filone. In effetti, in quegli anni l’Europa e l’Italia erano attraversati  da impetuosi venti di rinnovamento, anche più forti di quelli che Pirandello fa respirare nelle sue opere. Nel 1913, ad esempio, Filippo Tommaso Marinetti aveva pubblicato Il teatro di varietà, manifesto nel quale si teorizzava un capovolgimento del rapporto tra pubblico e palcoscenico, segnalando questo tipo di spettacolo come il solo in grado di vedere il pubblico non passivo ma attivo. Sempre Marinetti nel 1915 aveva scritto Il teatro futurista sintetico, altro manifesto che chiedeva l’annullamento della “parete” tra spettatori e azioni scenica. Si stavano inoltre moltiplicando le serate futuriste e quelle dadaiste e il tema della partecipazione del pubblico era centrale anche nella revisione operata dal prolifico teatro sovietico dei primi decenni del nuovo secolo.

L’uomo e la maschera

Il tema della “maschera” è noto. In estrema sintesi, ognuno di noi, condizionato dalle convenzioni sociali, indossa una maschera per farsi accettare. Quando cerca di togliersela, si rende conto che ciò non gli è possibile. La soluzione è allora chiudersi nella disperazione, nella solitudine, nella follia.

Gli anni del guerra e il Teatro d’Arte (1925-28)

     Il dramma collettivo della guerra andò di pari passo, nella vita di Pirandello, con un dramma personale: nel corso del conflitto, infatti, le condizioni mentali della moglie si aggravarono al punto da richiederne, nel 1919, il ricovero in manicomio. Suo figlio Stefano, inoltre, venne fatto prigioniero dagli austriaci e tornò in Italia in pessime condizioni di salute. Nel 1925 Pirandello, appoggiando un’idea di suo figlio, dell’amico  Orio Vergani (una curiosità: sua sorella, Vera Vergani, è stata prima interprete assoluta dei Sei personaggi) e di altri scrittori, partecipa alla nascita della  “Compagnia del Teatro d’arte”, con sede nella piccola sala Odescalchi di Roma, per la quale allestirà ventidue dei cinquanta spettacoli che vi saranno prodotti nel giro di un paio d’anni. I nomi degli attori coinvolti promettevano scintille – dalla giovane Marta Abba a Ruggero Ruggeri – ma le cose andarono diversamente. La compagnia, fin dagli inizi, non ha vita facile, osteggiata in patria e costretta, all’estero, a scontrarsi con l’oligopolio che in pratica controlla tutti i grandi circuiti teatrali. Per quanto riguarda la situazione italiana, in particolare, Pirandello si lancia contro  quella che all’epoca era l’eminenza grigia del teatro nazionale, l’avv. Paolo Giordani, accusandolo pesantemente il 19 dicembre 1925 sulle pagine del Tevere: “Io  voglio – scriveva Pirandello – che presto in Italia sorgano i Teatri di Stato: almeno tre in principio, uno a Milano, una a Roma, uno a Torino: teatri responsabili, che di  fronte agli stranieri che visitano l’Italia, dimostrino che nel nostro Paese l’arte scenica è curata e rispettata come nel loro; che permettano una esistenza decorosa agli attori e lo svolgimento di degni programmi artistici. Tutto questo l’avv. Paolo Giordani, commerciante e speculatore e sfruttatore dell’ingegno altrui, lo deve vedere come il fumo negli occhi. E di qui la guerra che egli ha fatta fin ora subdolamente, e che adesso fa a viso aperto alla Compagnia del Teatro d’Arte di Roma, primo nucleo di questa grande futura formazione  nazionale”.

     Un anno dopo, comunque, le firme di Pirandello e di Giordani saranno l’una accanto all’altra in calce a un progetto di costituzione di un Teatro Drammatico Nazionale di Stato che ricalca l’idea di Pirandello dei tre poli teatrali italiani.

Marta Abba and Memo Benassi in “Il caso Haller” (1933)

     Il Teatro d’Arte, da un punto di vista pratico, fu un fallimento.  Economicamente, una Caporetto. In una lettera alla Abba del ‘29, inviatale da Berlino, Pirandello scrive: “Ne sa qualcosa Salvini, a cui toccò di penare più di tutti; e io ci rimisi non so più quante migliaia di lire, con l’aggiunta di umiliazioni e mortificazioni senza fine: tutto per colpa di quel Suardo (sottosegretario di Stato alla Presidente del Consiglio dei Ministri), che Dio lo danni, che doveva dare, per come aveva promesso a Mussolini, più di 300 mila lire, e per strappargliele, e potere io riavere il mio, si dovette faticare e stentare fino all’ultimo giorno. Se il Teatro Odescalchi è morto, com’è morto, la colpa è principalmente di questo imbecille ubriacone: se avesse dato a tempo opportuno i sussidi governativi, senza farci impazzire con tutti i creditori che assediavano  il teatro, si sarebbe tirato avanti, pagando tutti a poco a poco, regolarmente, con la Compagnia che agiva e agiva bene! Invece, per causa di lui, sopravvenne in tutti l’avvilimento e la stanchezza; chi si squagliò di qua e chi di là, per non aver noje dai creditori; la Compagnia se n’andò randagia per l’Italia; e addio! – Ma inutile, ormai, pensarci più! Vorrei avere adesso, con l’esperienza che ho acquistato, quel Teatro com’era, con le speranze che aveva acceso in tutti; una vera Compagnia d’arte tutta di giovani; Te, prima di tutti, (come Ti vedo ora); messe in iscena come saprei farle adesso, dopo la scuola di qua; un repertorio variato; riaccendere in tutti quel fuoco di prima, fare di quel piccolo Teatro un centro d’arte per tutto il mondo; un regno d’arte, e Te regina di questo regno… – Sogni! Saprei attuarli, se trovassi accanto a me gente capace e onesta: ma non l’ho mai trovata! Mai! Mai! E per me, così inetto ad amministrare, è stata sempre non solo necessaria ma indispensabile. Ragion per cui, a 61 anni, tranne la mia opera letteraria, non sono riuscito a edificar nulla!”.
L’esperienza come capocomico è fondamentale per dare a Pirandello una visione a 360° sul teatro. Negli anni del Teatro d’Arte, il fatto di dedicarsi all’allestimento nella sua interezza – dall’ideazione alla piena realizzazione, dalla scrittura alla scenografia, alle luci a quant’altro – lo porta ad applicare ai copioni queste sue nuove competenze e gli stimoli che esse gli offrono.

L’umorismo

Nel suo saggio Pirandello e il disagio del teatro, ed. Marsilio – Venezia, 1993, Claudio Vicentini spiega così il concetto di umorismo in Pirandello: “Quando un autore è amaramente consapevole del disagio della condizione umana, nel suo animo non può sorgere alcuna immagine unita a un’emozione o a un sentimento senza che intervenga immediatamente la riflessione, che ‘s’insinua acuta e sottile dappertutto’, suscitando un’immagine, un’emozione, un sentimento opposti. Sicché le immagini anziché associate per somiglianza o contiguità, si presenteranno in contrasto (…) Nascono così le opere d’arte che Pirandello chiama ‘umoristiche’.”. Esse spiazzano perché “il contrasto delle immagini e delle emozioni contenute nell’opera umoristica impedisce al lettore di abbandonarsi a un sentimento certo, unico ed esclusivo (…). Provocato da immagini e da stimoli contraddittori, spiega Pirandello, il lettore vorrebbe ridere, e ride, ma subito il riso ‘è turbato e ostacolato da qualcosa che spira dalla rappresentazione stessa’”. A caratterizzare questo tipo di racconto, una linea narrativa e/o drammaturgica anch’essa spiazzante, tutta giocata su continui cambi, spezzettata, contrastante. Nel teatro come sulla pagina.

L’autoesilio in Germania e il rapporto con la Abba

Quando si è qualcuno - Atto III
Pirandello e Marta Abba

     Il 15 agosto 1928, con uno spaventoso buco finanziario alle spalle, il Teatro d’Arte si scioglie. Nell’ottobre di quello stesso anno Pirandello e Marta Abba partono per Berlino. Pirandello ha un progetto in mente: “Bisogna, bisogna andar via per qualche tempo dall’Italia – scrive alla Abba – e non ritornarci se non in condizioni di non aver più bisogno di nessuno, cioè da padroni. (…) Bisognerà restare per lo meno un anno in Germania, come ti ho scritto ieri, e realizzarvi una grossa fortuna. Poi si tornerà, ma da padroni”.

 L’idea di Pirandello è semplice e chiara: fare tanti soldi così da non aver più bisogno delle sovvenzioni statali per portare avanti il proprio progetto teatrale; e per arricchirsi tanto e tanto e in fretta la strada è una sola: quella del cinema. Pirandello è famoso e comincia a bussare a tutte le case di produzione cinematografica, ma ponendo una condizione, sempre la stessa: che Marta Abba sia tra gli interpreti. Trascorrono così cinque mesi, durante i quali Pirandello e l’attrice (accompagnata dalla sorella) vivono in due stanze d’albergo vicine e sono visti costantemente insieme. Dopo quei cinque mesi – che danno ovviamente il la a innumerevoli pettegolezzi anche in Italia – la Abba però si stanca di aspettare e decide di tornare in Italia, anche per non perdere eventuali contratti teatrali.

     È il 13 marzo 1929.

     Pirandello è sconvolto dalla partenza della donna che ama, ma resiste e resta in Germania: un atteggiamento, questo, che gli è proprio fin dalla più giovane età (come si evince da molte sue lettere alla famiglia; in una del 1886 scrive ad esempio: “E sto allegro, a dispetto del mio cuore che, battito per battito, par che chieda di voi che siete lontano”).

      In una lettera alla Abba, di qualche giorno più tardi, è amareggiato per la lontananza dell’attrice, alla quale rimprovera il fatto di non aver avuto pazienza, quella che a lui non manca né è mai mancata: “Ecco: questo: aspettare qua con me, senza impazienza; e intanto vedere, studiare, conoscere, arricchirsi lo spirito facendosi una cultura, imparare le lingue, con metodo, con volontà… – questo; senza la smania, le pigrizie di Cele (la sorella della Abba, ndr) accanto, che deve fare da sé il suo cammino e deve lasciarti in pace per la tua vita, che non deve né può essere la sua. Tutto questo! – E i denari verranno, verranno per forza, e molti, molti; ma bisogna saperli aspettare, con animo fermo, e lavorando sempre, sempre, com’io ho fatto tutta la vita”.Pirandello cerca di far immaginare alla Abba il fulgido futuro che potrebbe attenderla fuori dall’Italia: “Sì, sì, Marta mia, fuori! Fuori! Fuori! Le grandi vie del mondo sono per il Tuo cammino; e non codesti sudici, storti e sassosi sentierucoli di provincia, e l’angustia di farsi avanti tra le gomitate e le spinte e gli urtoni, le ingiurie, le villanie e la stupida prosopopea del mondo teatrale delle così dette grandi città d’Italia. Tu devi respirare e avere la Tua gloria, fuori! Lo troverò io, qua, con l’aiuto di questo Dr. Lehrmann un impresario Charlot lo vedrò qua a Parigi il giorno 21; so già che anche lui mi vuol vedere, e si combinerà in qualche modo l’incontro, per restare insieme e parlare qualche quarto d’ora.
Conosce bene le mie idee sul film parlato, per averle lette sul ‘New York Times’”. In un’altra lettera scherza invece sul pessimo italiano di G. Bernard Shaw (Pirandello scrive G. Bernardo Shaw), che in un biglietto di scuse per un mancato incontro così si era espresso: “Caro Pirandello, impossibilissimo di Leicercare oggi . Partirò domani – molto bagaglia – sposa malata”. Aveva anche preso contatti con Eisenstein:“Mi hanno fatto scrivere – racconta alla Abba in una lettera scritta da Roma nel giugno del 1932 – una lettera a Eisenstein, che è il più grande régisseur russo, e forse del mondo, quello della ‘Corazzata Potemkin’, per domandargli se è disposto a venire da Mosca per girare il mio film”.

Quella che in me detta dentro, sei Tu… Marta Abba, musa di un poeta, amore infelice di un uomo

Quando si è qualcuno - Atto I
Pirandello e Marta Abba

     “Non è possibile che Tu non sia, come autrice vera e sola, in tutto quello che ancora faccio. Ma io sono la mano. Quella che in me detta dentro, sei Tu; senza più Te, la mia mano diventa di pietra”. L’amore di Pirandello per Marta Abba nasce e cresce sulle tavole del palcoscenico. Nata il 25 giugno del 1900 a Milano (dove morirà il 24 giugno 1988), era la figlia primogenita di Pompeo Abba, commerciante, e di Giuseppina Trabucchi. Dopo gli studi all’Accademia dei Filodrammatici, entrò nella compagnia di Virgilio Talli, con la quale fece il suo esordio a 22 anni ne Il gabbiano di Cechov. Tre anni più tardi, dopo aver letto una critica entusiasta nei suoi confronti firmata da Marco Praga, Pirandello la volle immediatamente come prima attrice nel neonato Teatro d’Arte. Non badò a spese, per averla: la giovane avrebbe guadagnato 170 lire al giorno, 10 in più di Lamberto Picasso, all’epoca ben più famoso di lei. Da quel momento iniziò una simbiosi artistica totale e – da parte del drammaturgo – un amore altrettanto assoluto. Del loro rapporto ci sono rimaste le 560 lettere scritte da Pirandello e le 280 risposte della Abba (l’epistolario fu donato alla Princeton University e pubblicato in versione  integrale solo nel ‘94). Quali forme abbia assunto e quali  confini abbia o non abbia attraversato la loro relazione resterà per sempre un segreto tra loro. Tra le pagine più intense del loro epistolario, comunque, si segnalano quelle nelle quali Pirandello accenna a una non meglio precisata “atroce notte passata  a Como”: secondo alcuni studiosi, in particolare Benito Ortolani, si potrebbe supporre che in quell’occasione la giovane attrice si sia offerta all’anziano drammaturgo, che l’avrebbe però rifiutata, spinto dalla differenza d’età. Di questo fatto si troverebbero riflessi nel finale di Quando si è qualcuno, testo nel quale un vecchio rifiuta una giovane che gli si offre. Esistono in particolare, forti coincidenze fra questo testo  e una lettera scritta alla Abba il 25 gennaio 1931 da Parigi. Ecco il testo di Quando si è qualcuno, che risale al 1932 : “Tu non lo sai: uno specchio, scoprircisi d’improvviso – e la desolazione di vedersi che uccide ogni volta lo stupore di non ricordarsene più – e la vergogna dentro, (…) il cuore ancora giovine e caldo”. Ed ecco la lettera: “Tu non sai che scoprendomi per caso d’improvviso a uno specchio, la desolazione di vedermi con l’aspetto che ora ho, uccide ogni volta in me lo stupore di non ricordarmene più. E allora soltanto, con quest’aspetto che mi scopro ma di cui non riesco mai a ricordarmi mentre vivo e mentre sento, provo un senso di vergogna del mio cuore ancora giovanissimo e caldo”.

Questo tipo di situazione, e l’ossessione con la quale Pirandello riflette sul suo essere vecchio perduto d’amore per una giovane alla quale si sottrae, si era vista già in altri testi e in particolare in Diana e la Tuda, del 1925, il primo lavoro ispirato da Marta Abba. Alcuni passaggi sono presi in maniera quasi identica da lettere scritte all’attrice. Restando nella storia del vecchio scultore Giancano e della sua modella, così riflette Alonge: “La giovane si offre al vecchio non per amore, ma per un misto di tante cose che amore non sono: per la subalternità della modella al grande scultore; per il masochismo della donna che si sente un ‘niente’ rispetto al genio; per una segreta, forse inconscia, vendetta contro lo scultore giovane che non la ama; per la pietà del vecchio scultore pazzo d’amore per lei. Il rifiuto di Giuncano, il suo scatto  d’orgoglio, rispecchiano con molta probabilità la reazione  negativa di Pirandello nella straziata notte di Como”.Ma altre volte, nella drammaturgia  pirandelliana nata dal rapporto con la Abba, ricompare questa situazione vecchio-giovane o comunque giovane che  si offre e uomo che, per vari motivi, la rifiuta. Basti pensare a Come tu mi vuoi o a Trovarsi, che fanno da contraltare a I giganti della montagna, unica opera nella quale la situazione è opposta. Dopo quella notte, tutto  cambia. Pirandello non farà che cercare il perdono di Marta la quale, al contrario, svierà sempre i  discorsi, li porterà dal personale al professionale, evitando anche ostinatamente quel “tu”, quell’avvicinamento che Pirandello ricerca con altrettanta determinazione. Dopo la chiusura del Teatro d’Arte, fondò una propria compagnia teatrale, unendo alle opere di Pirandello testi di Shaw, D’Annunzio e persino Goldoni, lavorando con registi di spicco  come Max Reinhardt e Guido  Salvini. Con Pirandello e anche dopo la sua morte effettuò anche alcune tournée all’estero. Lavorò anche per la radio e girò due film con Alessandro Blasetti (Il caso Haller, 1933; in esso compare anche sua sorella Cele) e Guido Brignone (Teresa Confalonieri, ‘34). Nel ‘38 sposò un industriale americano e si stabilì a Cleveland. Dopo il divorzio, nel 1952, tornò in Italia e vi restò sino alla morte.

 La genesi di “Trovarsi”

Marta Abba

Intorno al 1931 si cominciano a profilare i tratti di Trovarsi, lavoro che vedrà la luce tra luglio e agosto del 1932, dedicato a Marta Abba. Al centro della vicenda c’è un’attrice in crisi, Donata Genzi, e il testo è particolarmente rilevante per la riflessione attraverso la quale in esso Pirandello esplora la sua idea dell’arte dell’attore. Il nome della protagonista, Donata, non è casuale: ella infatti si dona all’arte e attraverso di sé dona una vita ai personaggi che interpreta; quella stessa vita che, però, nega a se stessa. Il continuo confondersi tra realtà e finzione – tra i temi portanti della riflessione pirandelliana – si ritrova anche qui. “L’attore ha in sé una scintilla divina – scrive al riguardo Alonge -. È figura ‘sospesa’ perché il corpo è strumento dello spirito, perché è in contatto con la divinità da cui trae in qualche modo la propria conoscenza del cuore umano, senza aver bisogno di sperimentarne preliminarmente  i  percorsi e le vicissitudini. Donata Genzi ha conservato puntigliosamente e orgogliosamente la propria verginità sino all’altezza cronologica dei trent’anni (al fine di sfatare la leggenda secondo cui l’attrice è  sempre una mezza baldracca, per usare un termine pirandelliano…), ma non per questo è meno straordinaria interprete di ruoli amorosi. Semmai è proprio a partire dal momento in cui soggiace alle umane leggi dell’amore  che non riesce più a trovarsi, né nella vita, né sulla scena. Proprio perché sulla scena ha continuamente inventato gesti d’amore, Donata si ferma interdetta quando si accorge di fare a Elj le stesse carezze che ha appreso a fare sul palcoscenico. Ancora una volta, non già l’arte che imita la vita, ma, pirandellianamente, la vita che imita l’arte. Creando però, con questo, un cortocircuito, a causa del quale Donata finisce per sentirsi doppiamente a disagio: dapprima nella vita quotidiana con Elj, e poi anche a teatro, quando recita sotto gli occhi di Elj, il quale, per parte sua, ritrova con delusione e disgusto nelle carezze dell’attrice le carezze della sua vita intima”.

I giganti della montagna

     Un altro testo illuminante per capire il doloroso rapporto d’amore tra Pirandello e Marta Abba è naturalmente I giganti della montagna. Anche in questo caso, l’autore sembra sparire dietro l’attore. L’attore è il grande protagonista e ciò mostra come Pirandello, in questa fase, torni al teatro all’antica italiana. Anche su questo Alonge riflette con chiarezza: “Pirandello continua a utilizzare, qua e là, alcuni insegnamenti che ha tratto dalla sua esperienza di spettatore nei teatri di Berlino e di Parigi, alcuni effetti di cui si è arricchita la sua officina drammaturgica, ma li chiama per quello che sono, momenti di spettacolo rispetto al teatro vero che è quello che ha sempre fatto”.

L’ultimo Pirandello

     Non tutti gli studiosi sono concordi nel valutare la seconda parte della produzione di Pirandello per il teatro. C’è chi la considera di livello inferiore rispetto alla prima; c’è chi invece, come Alonge, la rivaluta con convinzione. Anche i suoi contemporanei ebbero, al riguardo, pareri diversi. Ecco ad esempio l’opinione di Luigi Almirante,  attore che per primo interpretò il ruolo del Padre nei Sei personaggi: “Pirandello, l’estero l’ha traviato un po’. Ha perduto la  sua bella semplicità e ha cominciato a fare delle cose pazzesche. (…) Meno questa traviamento che ha avuto, e ne è la prova, appunto, questa commedia che ho citato:  Quando si è qualcuno. È tutta roba di fantasia: parlano i ritratti, viene fuori il monumento, sparisce il monumento, viene un giardino… (…) Questo è il traviamento che lui ha avuto all’estero. Insomma, Reinhardt faceva mangiare i maccheroni a Venezia nell’opera di Goldoni, Pirandello non è arrivato al punto di far mangiare i maccheroni a Venezia, ma certo queste cose qui che impressionavano la platea lui le ha accolte. Questo è poco ma è sicuro! Tant’è vero che nelle sue commedie, anche in Trovarsi, cambia la parete, cosa che lui prima non aveva mai pensato”.

Il ritorno in Italia

La vecchiaia e la morte

Dopo aver trascorso gran parte del tempo all’estero tra il ‘28 e il ‘32, Pirandello decide di tornare in Italia. È stanco. ma l’idea di tornare in famiglia non lo rende felice e non lo nasconde. Dopo un periodo con Stefano, va a vivere con Lietta e le sue figlie, dopo che la donna si è separata: “Cascherò – scrive – dalla padella nella brace; mi cresceranno del doppio le spese. L’unica mia speranza è che sarà per poco; e  così i miei figli avranno fatto il mio sterminio”. Il suo umore si fa sempre più cupo e pessimista e le vicende europee non aiutano: “ Non faccio più nulla, Marta mia, – scrive nel novembre 1936, riferendosi alla guerra di Spagna – sto tutto il giorno a pensare, solo come un cane, a tutto ciò che avrei da fare, ancora tanto, tanto, ma non mi pare che metta più  conto di aggiungere altro a tutto il già fatto; che gli uomini non lo meritino, incornati come sono a diventare sempre più stupidi e bestiali e rissosi. Il tempo è nemico. Gli animi avversi. Tutto è negato alla contemplazione, in mezzo a tanto tumulto e a tanta feroce brama di carneficina”. Quando però nel 1936 la Abba firma il contratto per un tournée a New York con l’impresario Gilbert Miller sembra che qualcosa si rianimi in lui, che pare tornare il Pigmalione degli anni passati: “Ti dico di badare più che altro – scrive all’amata attrice – al Tuo giuoco scenico, all’interpretazione della Tua parte, alle trovate artistiche secondo le varie situazioni, atteggiamenti e movimenti espressivi, senza concentrare tutta la Tua attenzione e preoccupazione sulla lingua e la pronunzia. Più il gioco sarà vivo e Tuo, vale a dire del Tuo personaggio, che avrà vita in Te e in tutta l’espressione inimitabile della Tua arte, e meno si baderà alla Tua pronunzia”. Il 15 ottobre 1936 la Abba approda sulle scene di Broadway, ottenendo critiche positive. Il 10 dicembre di quello stesso anno, come se avesse ormai realizzato la propria missione e potesse ritirarsi, Pirandello muore. Pochi mesi prima, attendendo il debutto dell’amata in America le aveva scritto: “ …) quando ti saprò vittoriosa e felice, potrò ben chiudere gli occhi per sempre, non avendo più nulla da aspettare per me quaggiù”.

Pirandello e il cinema

Pirandello cercò in mille modi di entrare nello sfavillante (ed economicamente interessante) mondo del nascente cinema.In concreto, però, ottenne ben poco. Nel 1931, in particolare, la Metro Goldwyn Meyer decise di acquistare per 40mila dollari (cifra straordinaria, all’epoca) i diritti su Come tu mi vuoi, lavoro di Pirandello che in quel periodo aveva ottenuto un grande successo nei teatri statunitensi. Nel 1932 viene allora presentato As you desire me, pellicola con Greta Gabro realizzata per la regia di George Fitzmaurice. Per la stessa Garbo elaborerà anche una rilettura di Trovarsi. Per quanto riguarda il suo rapporto con il cinema da un punto di vista concettuale importante è senz’altro leggere il saggio Se il film parlante abolirà il teatro, del 1929: in particolare, in esso Pirandello si scagliava contro il sonoro nel cinema perché per lui il cinema parlava “il linguaggio dell’inconscio”, per dirla con Alonge, e la parola – oltretutto con i limiti tecnici dell’epoca – avrebbe spezzato questo incantesimo.

Alessandra Agosti

Inserto tratto da “Fitainforma“, periodico di Fita Veneto. Giugno 2010.

Testo ed Immagini dal documento originale in PDF:  qui

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