Questa sera si recita a soggetto – Intermezzo

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Questa sera si recita a soggetto - Intermezzo
Associazione SiciliaTeatro, Questa sera si recita a soggetto, 1996. Immagine dal Web.

1930
Questa sera si recita a soggetto
Intermezzo

       Rappresentazione simultanea, nel ridotto del teatro e sul palcoscenico.

       Nel ridotto del teatro le attrici e gli attori figureranno con la massima libertà e naturalezza (ciascuno, s’intende, nella sua parte) da spettatori tra gli spettatori, durante l’intervallo tra un atto e l’altro.

       S’aggrupperanno in quattro punti diversi del ridotto e là ciascun gruppo farà la sua scena indipendentemente dall’altro e contemporaneamente: Rico Verri con Mommina; la signora Ignazia con due degli ufficiali, che si chiamano l’uno Pometti e l’altro Mangini; sederà a qualche panca; Dorina passeggerà conversando col Terzo Ufficiale che si chiama Nardi; Nenè e Totina andranno con Pomàrici e Sarelli in fondo al ridotto dove sarà un banco di vendita con bibite, caffè, birra, liquori, caramelle e altre golerìe.

       Queste scenette sparse e simultanee sono qui trascritte, per necessità di spazio, una dopo l’altra.

            I.

        Nenè, Totina, Sarelli e Pomàrici, al banco in fondo al ridotto.

       NENÈ: Non c’è gelati? Peccato! Mi dia allora una bibita. Fresca, mi raccomando. Una menta, sì.

       TOTINA: A me, una limonata.

       POMÀRICI: Un sacchetto di cioccolattini; e caramelle, anche.

       NENÈ: No, non le prenda, Pomàrici! Grazie.

       TOTINA: Non saranno buone. Sono buone? E allora sì, comprare, comprare! È una delle più grandi soddisfazioni –

       POMÀRICI: – il cioccolattino? –

       TOTINA: – no – di noi donne – far pagare gli uomini!

       POMÀRICI: Per così poco! Peccato, non s’è fatto a tempo a passare dal caffè, venendo a teatro –

       SARELLI: – per quel maledetto incidente… –

       TOTINA: Ma è anche papà, santo Dio! pare vada cercando lui stesso di dar pretesto a quest’indegna persecuzione, frequentando certi posti!

       POMÀRICI: (mettendole tra le labbra un cioccolatino) Non s’amareggi! Non s’amareggi!

       NENÈ: (aprendo la bocca come un uccellino) E a me?

       POMÀRICI: (imboccandola) Sùbito: ma a lei, una caramella.

       NENÈ: Ed è proprio sicuro che nel Continente si fa così?

       POMÀRICI: Come no? Imboccare, dice, una caramella, alle belle signorine? – Sicurissimo!

       SARELLI: Questo, e ben altro!

       NENÈ: Che altro? che altro?

       POMÀRICI: Eh, se volessimo proprio fare in tutto come nel Continente!

       TOTINA: (provocante) Ma per esempio?

       SARELLI: Non possiamo portarglielo qua, l’esempio.

       NENÈ: E allora domani tutt’e quattro prenderemo d’assalto il campo d’aviazione!

       TOTINA: E guai a voi se non ci prendete in volo!

       POMÀRICI: La visita sarà graditissima; ma quanto a volare, purtroppo…

       SARELLI: Vietato dal regolamento!

       POMÀRICI: Col Comandante che c’è adesso…

       TOTINA: Non avevate detto che quest’orco sarebbe andato presto in licenza?

       NENÈ: Io non sento ragioni: voglio volare sulla città per il gusto di sputarci sopra. Si potrà?

       SARELLI: Volare, impossibile…

       NENÈ: No, dico, tirarci… puh! – così, uno sputo. Ne do l’incarico a lei.

            II. 

       Dorina e Nardi, passeggiando.

       NARDI: Ma sa che suo papà è innamorato pazzo della chanteuse del Cabaret?

       DORINA: Papà? Che mi dice?

       NARDI: Papà, papà; gliel’assicuro io; e lo sa del resto tutto il paese.

       DORINA: Ma dice sul serio? Papà innamorato?

       Una risatona, che fa voltare tutti gli spettatori vicini.

       NARDI: Non ha visto ch’era là nel Cabaret?

       DORINA: Per carità, non ne faccia sapere nulla alla mamma; lo scorticherebbe! Ma chi è questa chanteuse? Lei la conosce?

       NARDI: Sì, l’ho vista una volta. Una matta accorata.

       DORINA: Accorata? Come sarebbe?

       NARDI: Dicono che piange sempre cantando, con gli occhi chiusi: lagrime vere; e che qualche volta casca a terra, anche, sfinita dalla disperazione che la fa piangere, ubriaca.

       DORINA: Ah sì? Ma allora sarà il vino!

       NARDI: Forse. Ma pare che beva perché disperata.

       DORINA: Oh Dio, e papà…? Oh poveretto! Ma sa ch’è davvero disgraziato, povero papà? No no, io non ci credo.

       NARDI: Non ci crede? E se le dicessi che una sera, forse un po’ brillo anche lui, diede spettacolo a tutto il Cabaret andando con le lagrime agli occhi e un fazzoletto in mano ad asciugare le lagrime di quella che cantava con gli occhi chiusi?

       DORINA: Ma no! Sul serio?

       NARDI: E sa come gli rispose quella? Appioppandogli un solennissimo ceffone!

       DORINA: A papà? Anche quella? Gliene dà tanti la mamma, povero papà!

       NARDI: È proprio così le disse lui, là davanti a tutti gli avventori che ridevano: «Anche tu, ingrata? Me ne dà tanti mia moglie!».

       Saranno, a questo punto, vicini al banco. Dorina vede le sorelle Totina e Nenè e corre a loro col Nardi.

            III. 

       Davanti al banco, Nenè, Totina, Dorina, Pomàrici, Sarelli e Nardi.

       DORINA: Ma sapete che mi dice Nardi? Che papà è innamorato della chanteuse delCabaret!

       TOTINA: Ma no!

       NENÈ: Tu ci credi? è uno scherzo!

       DORINA: No no, è vero! è vero!

       NARDI: Posso garantire ch’è vero.

       SARELLI: Ma sì, l’ho saputo anch’io.

       DORINA: E se sapeste che ha fatto!

       NENÈ: Che ha fatto?

       DORINA: S’è preso uno schiaffo anche da quella, in pubblico caffè!

       NENÈ: Schiaffo?

       TOTINA: O perché?

       DORINA: Perché le voleva asciugare le lagrime!

       TOTINA: Le lagrime?

       DORINA: Già, perché è una donna, dice, che piange sempre…

       TOTINA: Avete capito? Avevo ragione di dirlo poco fa?

       È lui, è lui! Come volete che poi la gente non rida e non si faccia beffe di lui?

       SARELLI: Se ne volete una prova, cercategli in petto, nella tasca interna della giacca: deve averci il ritratto di quella chanteuse: lo mostrò a me una volta con certe esclamazioni che non vi dico, povero signor Palmiro!

            IV. 

       Rico Verri e Mommina, a parte.

       MOMMINA: (un po’ intimidita dall’aspetto fosco con cui il Verri è uscito dalla sala del teatro) Che ha?

       VERRI: (con mal garbo) Io? Niente. Che ho?

       MOMMINA: E allora perché sta così?

       VERRI: Non lo so. So che se stavo un altro po’ nel palco, finiva che la facevo davvero la pazzia.

       MOMMINA: Non è più vita da potersi reggere.

       VERRI: (forte, aspro) Se n’accorge ora?

       MOMMINA: Stia zitto, per carità! Tutti gli occhi sono addosso a noi.

       VERRI: È ben per questo! È ben per questo!

       MOMMINA: Sono arrivata al punto che non so più quasi muovermi né parlare.

       VERRI: Io vorrei sapere che hanno da guardar tanto e stare a sentire ciò che diciamo tra noi.

       MOMMINA: Stia buono, mi faccia questo piacere, non li provochi!

       VERRI: Non siamo qua come tutti gli altri? Che vedono di strano in noi in questo momento, da starci a guardare così? Io domando se è mai possibile –

       MOMMINA: – ma già – vivere – gliel’ho detto – far più un gesto, alzar gli occhi, così sotto la mira di tutti. Guardi là, anche attorno alle mie sorelle, e là attorno alla mamma.

       VERRI: Come se si stésse qua a dare uno spettacolo!

       MOMMINA: Ma già!

       VERRI: Purtroppo però, mi scusi, le sue sorelle là…

       MOMMINA: Che fanno?

       VERRI: Niente; non me ne vorrei accorgere, ma sembra che ci provino gusto…

       MOMMINA: A che cosa?

       VERRI: A farsi notare!

       MOMMINA: Ma non fanno nulla di male: ridono, ciarlano…

       VERRI: Sfidano, col loro contegno ardito!

       MOMMINA: Ma sono anche i suoi colleghi, scusi…

       VERRI: Lo so, a metterle su; e creda che cominciano a urtarmi seriamente, specie quel Sarelli, e anche Pomàrici e Nardi.

       MOMMINA: Fanno un po’ d’allegria…

       VERRI: Potrebbero pensare che la fanno a spese della buona reputazione di tre ragazze perbene; e almeno astenersi da certi atti, da certe confidenze.

       MOMMINA: Questo sì, è vero.

       VERRI: Io, per esempio, non tollererei più che uno di loro si permettesse con lei –

       MOMMINA: – non lo permetterei io, prima di tutti, lo sa!

       VERRI: Lasciamo andare, lasciamo andare, per carità! Anche lei, anche lei prima l’ha permesso!

       MOMMINA: Ma ora non più, da un pezzo, mi pare! Dovrebbe saperlo.

       VERRI: Non basta però che lo sappia io: dovrebbero saperlo anche loro!

       MOMMINA: Lo sanno! Lo sanno!

       VERRI: Non lo sanno! Più d’una volta han tenuto anzi a dimostrarmi di non volerlo sapere; e proprio come per cimentarmi.

       MOMMINA: Ma no! Ma quando? Per carità, non si metta di queste idee per la testa!

       VERRI: Dovrebbero capire che con me non si scherza!

       MOMMINA: Lo capiscono, stia sicuro! Ma più lei dà a vedere d’aversi a male anche d’uno scherzo innocente, e più quelli seguitano, anche per dimostrare di non averci messo alcuna malizia.

       VERRI: Lei dunque li scusa?

       MOMMINA: Ma no! Dico questo per lei, perché stia tranquillo; e anche per me, che vivo, sapendola così, in uno stato di trepidazione continua. Andiamo, andiamo. La mamma s’è mossa; pare che voglia rientrare.

            V. 

       La signora Ignazia, su una panca, con Pometti e Mangini ai due lati.

       LA SIGNORA IGNAZIA: Ah voi vi dovreste acquistare una grande benemerenza, una grande benemerenza, cari miei, verso laciviltà!

       MANGINI: Noi! E come, signora Ignazia?

       LA SIGNORA IGNAZIA: Come? Mettendovi a dar lezione, al vostro circolo!

       POMETTI: Lezione? a chi?

       LA SIGNORA IGNAZIA: A questi zotici villani del paese! Almeno per un’ora al giorno.

       MANGINI: Lezione di che?

       POMETTI: Di creanza?

       LA SIGNORA IGNAZIA: No no, dimostrativa, dimostrativa. Una lezioncina al giorno, d’un’ora, che li informi di come si vive nelle grandi città del Continente. Lei di dov’è, caro Mangini?

       MANGINI: Io? Di Venezia, signora.

       LA SIGNORA IGNAZIA: Venezia? Ah Dio, Venezia, il mio sogno! E lei, lei, Pometti?

       POMETTI: Di Milano, io.

       LA SIGNORA IGNAZIA: Ah, Milano! Milan… Figuriamoci! El nost Milan… E io sono di Napoli; di Napoli che – senza fare offesa a Milano – dico, – e salvando i meriti di Venezia – come natura, dico… un paradiso! Chiaja! Posillipo! Mi viene… mi viene da piangere, se ci penso… Cose! Cose!… Quel Vesuvio, Capri… E voi ci avete il Duomo, la Galleria, la Scala… E voi, già, Piazza San Marco, il Canal Grande… Cose! Cose!… Mentre qua, tutte queste fetenzierìe… E fossero soltanto fuori, nelle strade!

       MANGINI: Non lo dica loro in faccia così forte, per carità!

       LA SIGNORA IGNAZIA: No, no, io parlo forte. Santa Chiara di Napoli, cari miei. Ce l’hanno anche dentro, la fetenzierìa.

       Nel cuore, nel sangue, ce l’hanno. Arrabbiati tutti sempre! Non vi fanno quest’impressione? che siano sempre tutti arrabbiati?

       MANGINI: Veramente, a me…

       LA SIGNORA IGNAZIA: – non vi pare? – ma sì, tutti sempre bruciati d’una… come debbo dire: ma sì, rabbia d’istinto, che li fa feroci l’uno contro l’altro; solo che uno, non so, guardi qua anziché là, o si soffi il naso un po’ forte, o gli passi qualcosa per la testa e sorrida; Dio ne liberi e scampi! ha sorriso per me; s’è soffiato il naso così forte apposta per fare uno sfregio a me; ha guardato là anziché qua apposta per fare un dispetto a me! Non si può far nulla senza che sospettino che ci debba esser sotto chi sa che malizia; perché la malizia ce l’hanno loro, tutti, agguattata dentro. Guardateli negli occhi. Fanno paura. Occhi di lupo… Su su. Sarà tempo di rientrare. Andiamo da quelle povere figliuole.

       Misurato il tempo che ci vorrà perché i quattro gruppi recitino simultaneamente le loro battute, ciascuno al suo posto indicato, si faccia in modo (anche tagliando o aggiungendo, ove occorra, qualche parola) che tutti alla fine contemporaneamente si muovano per rimettersi insieme e uscire dal ridotto. La simultaneità dovrà essere anche però regolata secondo il tempo che bisognerà al Dottor Hinkfuss per compiere i suoi prodigi sul palcoscenico. Tali prodigi potrebbero essere lasciati alla bizzarria del Dottor Hinkfuss. Ma poiché lui stesso, e non l’autore della novella, ha voluto che Rico Verri e gli altri giovani ufficiali fossero aviatori, è probabile che abbia voluto così per prendersi il piacere di preparare, davanti al pubblico rimasto nella sala, una bella scena che rappresenti un campo d’aviazione, messo con mirabile effetto in prospettiva. Di notte, sotto un magnifico cielo stellato, pochi elementi sintetici: tutto piccolo in terra, per dare la sensazione dello spazio sterminato con quel cielo seminato di stelle: piccola, in fondo, la casina bianca degli ufficiali, con le finestrine illuminate, piccoli gli apparecchi, due o tre, sparsi sul campo qua e là: e una grande suggestione di luci cupe: e il ronzìo di un aeroplano invisibile, che voli nella notte serena. Si può lasciar prendere questo piacere al Dottor Hinkfuss, anche se nella sala non resterà nemmeno uno spettatore. In questo caso (che è pur da prevedere) non si avrebbe più la rappresentazione simultanea di questo intermezzo, là nel ridotto del teatro e qua sul palcoscenico. Ma il male sarebbe facilmente rimediabile. Il Dottor Hinkfuss, anche facendo riaprire il sipario, vedendo che il suo fervorino non sorte l’effetto di trattenere in sala nemmeno una piccola parte del pubblico, si ritirerà fra le quinte, un po’ contrariato; e si sfogherà a dare il saggio della sua bravura quando la rappresentazione nel ridotto sarà finita e gli spettatori, richiamati dallo squillo dei campanelli, saranno rientrati nella sala a riprendere i loro posti.
Ciò che importa soprattutto è che il pubblico abbia sopportazione di queste cose che, se non proprio superflue, certo son di contorno. Ma dato che per tanti segni si può vedere che ci piglia gusto, e che anzi questo contorno va cercando con ingorda golosità più che le sane pietanze, buon pro gli faccia; il Dottor Hinkfuss ha ragione lui, e dunque gli scodelli, dopo questa scena del campo di aviazione, un’altra scena, dicendo pur chiaramente e con la sprezzatura del gran signore che può permettersi certi lussi, che in verità della prima si può anche fare a meno, perché non strettamente necessaria. Si sarà perduto un po’ di tempo per ottenere un bell’effetto; si darà a intendere il contrario, che anzi non se ne vuol perdere, tant’è vero che s’è saltata una scena che, senza danno, poteva essere omessa. Ometteremo anche noi i comandi che il Dottor Hinkfuss potrà concertare da sé facilmente con gli apparatori e gli elettricisti e i servi di scena per l’allestimento di quel campo d’aviazione. Appena allestito, scenderà dal palcoscenico nella sala, si metterà nel mezzo del corridojo a regolare bene con altri opportuni comandi gli effetti di luce, e quando li avrà ottenuti perfetti, rimonterà sul palcoscenico.

       IL DOTTOR HINKFUSS: No no! Via tutto! Via tutto! Cessi quel ronzìo! Spegnere, spegnere. Sto pensando che di questa scena si può fare anche a meno. Sì, l’effetto è bello, ma coi mezzi che abbiamo a disposizione possiamo ottenerne altri non meno belli, che conducano avanti più speditamente l’azione. Per fortuna io stasera sono libero davanti a voi, e spero che a voi non dispiacerà vedere come si mette su uno spettacolo, non solo sotto i vostri stessi occhi, ma anche (perché no?) con la vostra collaborazione. Il teatro, voi vedete, signori, è la bocca spalancata d’un grande macchinario che ha fame: una fame che i signori poeti…

       UN POETA, DALLE POLTRONE: Per piacere, non dica signori ai poeti; i poeti non sono signori!

       IL DOTTOR HINKFUSS: (pronto) Neanche i critici sono in questo senso signori; e io li ho pur chiamati così, per una certa affettazione polemica che, senza offesa, credo in questo caso mi possa essere consentita. Una fame, dicevo, che i signori poeti hanno il torto di non saper saziare. Per questa macchina del teatro, come per altre macchine enormemente e mirabilmente cresciute e sviluppate, è deplorevole che la fantasia dei… poeti, arretrata, non riesca più a trovare un nutrimento adeguato e sufficiente. Non si vuole intendere che il teatro è soprattutto spettacolo. Arte sì, ma anche vita. Creazione, sì, ma non durevole: momentanea. Un prodigio: la forma che si muove! E il prodigio, signori, non può essere che momentaneo. In un momento, davanti ai vostri occhi, create una scena; e dentro questa, un’altra, e un’altra ancora. Un attimo di bujo; una rapida manovra; un suggestivo gioco di luci. Ecco, vi fo vedere.

       Batte le mani e ordina:

       Bujo!

       Si fa bujo, il sipario vien silenziosamente tirato dietro le spalle del Dottor Hinkfuss. Si rifà la luce nella sala, mentre i campanelli squillano per richiamare gli spettatori ai loro posti. Nel caso che tutto il pubblico fosse uscito dalla sala e che il Dottor Hinkfuss (venuta a mancare la simultaneità della doppia rappresentazione, là nel ridotto e qua sul palcoscenico) fosse costretto ad aspettare il ritorno del pubblico nella sala per dar principio alla manovra della prima scena del campo d’aviazione e alla chiacchierata successiva, s’intende che il sipario non verrebbe abbassato, e che, dopo ordinato il bujo, egli, davanti a tutto il pubblico presente nella sala, seguiterebbe a impartire gli altri ordini per il proseguimento dello spettacolo.
Qua si prevede il caso che la simultaneità, come sarebbe desiderabile, avvenga; e si dovrebbe trovar modo di farla avvenire. Calato allora il sipario e rifatta la luce nella sala, il Dottor Hinkfuss seguiterà a dire:

       IL DOTTOR HINKFUSS: Aspettiamo finché il pubblico non sia rientrato. Dobbiamo anche dar tempo alla signora Ignazia e alle signorine La Croce che rientrino in casa dopo il teatro, accompagnate dai loro giovani amici ufficiali. (Rivolgendosi al Signore delle poltrone, che or ora rientra in sala) E se intanto lei, Signore, mio imperterrito interruttore, volesse informare il pubblico rimasto qua a sedere, se nulla di nuovo è avvenuto là nel ridotto…

       IL SIGNORE DELLE POLTRONE: Dice a me?

       IL DOTTOR HINKFUSS: A lei, sì. Se volesse essere così gentile…

       IL SIGNORE DELLE POLTRONE: No, nulla di nuovo. Un grazioso diversivo. Hanno chiacchierato. S’è soltanto saputo che quel buffo signor Palmiro, «Sampognetta», è innamorato della chanteuse del Cabaret.

       IL DOTTOR HINKFUSS: Ah sì; ma questo s’era già potuto capire. Del resto, ha poca importanza.

       IL GIOVANE SPETTATORE DELLA PLATEA: No, scusi, s’è ben capito anche che l’ufficiale Rico Verri…

       IL PRIMO ATTORE: (sporgendo il capo dal sipario, alle spalle del Dottor Hinkfuss) Basta, basta con quest’ufficiale! Tra poco mi libero di questa divisa!

       IL DOTTOR HINKFUSS: (rivolgendosi al Primo Attore, che ha già ritirato la testa) Ma scusi, perché interloquisce lei?

       IL PRIMO ATTORE: (cacciando fuori di nuovo la testa) Perché mi irrita questa qualifica, e per mettere le cose a posto: non sono ufficiale di carriera.

       Ritira di nuovo il capo.

       IL DOTTOR HINKFUSS: L’aveva fatto notare fin da principio. Basta.

       Rivolgendosi al Giovane Spettatore:

       Scusi tanto! Diceva il signore…?

       IL GIOVANE SPETTATORE: (intimidito e imbarazzato) Ma… niente… Dicevo che… che anche di là, nel ridotto, codesto signor Verri ha dimostrato il suo cattivo umore e che… e che pare cominci a essere stufo più d’un po’ dello scandalo che dànno quelle signorine e la… signora madre…

       IL DOTTOR HINKFUSS: Sì sì, va bene; ma anche questo s’era potuto vedere fin da principio. Grazie a ogni modo.

       Si sente dietro il sipario il pianoforte che suona l’aria di Siebel nel «Faust» di Gounod:

       «Le parlate d’amor – o cari fior…»

       Ecco: già il pianoforte: tutto pronto.

       Scosta un po’ il sipario e ordina nell’inferno del palcoscenico:

       Gong!

       Al colpo di gong ridiscende alla sua poltrona, e si riapre il sipario.

1930 – Questa sera si recita a soggetto – Commedia in tre atti ed un Intermezzo
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