1923 – La vita che ti diedi – Tragedia in tre atti

«La vita che ti diedi» è il testo più struggente di Luigi Pirandello sul tema della maternità. Leggendolo si capisce bene che, mentre lo scriveva, avesse in mente una donna precisa. Il più bel personaggio femminile del repertorio pirandelliano.

FONTE Novelle «La camera in attesa» (1916) – «I pensionati della memoria» (1911)
STESURA gennaio – febbraio 1923
PRIMA RAPPRESENTAZIONE 12 ottobre 1923 – Roma, Teatro Quirino, Compagnia Alda Borelli.

Approfondimenti nel sito:
Sezione Tematiche – Salvatore Lo Leggio – La Duse, Pirandello e “La vita che ti diedi”
Sezione Novelle – La camera in attesa
Sezione Novelle – I pensionati della memoria

En Español – La vida que te di

Premessa
Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo

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La vita che ti diedi
Valeria Moriconi, La vita che ti diedi, 1987. Immagine dal Web,

Premessa

        Scritta nel 1923 per Eleonora Duse, che però non fece in tempo a interpretarla, perché morì a Pittsburgh nel 1924.

        È una «tragedia in tre atti», derivata dalle novelle La camera in attesa (1916) e I pensionati della memoria (1914). La stesura è stata effettuata nel gennaio-febbraio 1923. Fu rappresentata la prima volta al Teatro Quirino di Roma il 12 ottobre 1923 e pubblicata l’anno successivo da Bemporad, Firenze.

        La tragedia è condotta interamente sul filo dell’amore materno, di cui è l’espressione più compiuta nel teatro di Pirandello; un amore messo a dura prova da un figlio che vive lontano per sette anni senza mai farsi vedere; che ritorna completamente cambiato, fino ad apparire alla madre come un estraneo; che muore subito dopo.

        I sentimenti della madre, Donn’Anna Luna, sono l’argomento centrale intorno al quale si svolge il dialogo con gli altri personaggi che li interpretano e li commentano, talora, come ad esempio all’inizio, in funzione di coro.

        La madre aveva vissuto sette anni col figlio lontano, immaginandolo e sognandolo come lo aveva conosciuto quando era con lei. Al suo ritorno si trova di fronte un’ altra persona, un estraneo, diverso da come aveva continuato a pen­sarlo per sette anni. Subito dopo muore e la madre ha la sensazione che sia morto l’estraneo non quel suo figlio al quale aveva continuato a dare la vita giorno per giorno per sette lunghi anni: «Mio figlio, voi credete che mi sia morto ora non è vero? Non mi è morto ora. Io piansi invece, di nascosto, tutte le mie lagrime quando me lo vidi arrivare: – (e per questo ora non ne ho più!) – quando mi vidi ritornare un altro che non aveva nulla, più nulla di mio figlio».

        Più volte Pirandello torna sulla drammatica labilità dell’oggetto degli affetti umani condannati ai mutamenti del tempo, fino a risultare altra cosa da quello che amavamo. Donn’Anna patisce soprattutto per questo dramma e il suo amore materno ferito all’idea di una morte, che non sfiora l’immagine del figlio che ha in sé, la induce a continuare l’illusione di sentirlo vivo come lo sentiva nei sette anni della sua lontananza.

        E questa illusione cerca di alimentare all’arrivo di Lucia Maubel, amante del figlio, incinta di lui, nascondendone la morte, sostenendo che è partito e deve ritornare. In questo modo sente il figlio sempre più vicino per la presenza di que­sta giovane donna che lo ama e ha in grembo un figlio di lui.

        L’illusorio incanto si rompe quando Lucia, appresa la morte dell’amante, scoppia in pianto e ricorda che quando era partito era sciupato e malato e aveva «gli occhi spenti». Quel pianto dirotto e quell’immagine del figlio malato che giustifica il grande mutamento fa esclamare a Donn’Anna: «ora sì me lo vedo morire».

        Nella problematica pirandelliana l’amore materno, con il suo carico di pene, è un valore che sopravvive intatto tra le macerie dei falsi valori della società, e, nella sua autenticità, risulta indenne da ogni schematismo ideologico [1].

[1] Vedi ad esempio La ragione degli altri e La nuova colonia.

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