I giganti della montagna – Atto terzo

Premessa
Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo
Quarto momento (ricostruito)

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I giganti della montagna - Atto III
Valentina Cortese, I giganti della montagna, 1966

1937
I giganti della montagna
Atto
terzo

       L’arsenale delle apparizioni: vasto stanzone nel mezzo della villa con quattro usci, due di qua e due di là, come se vi s’accedesse da due corridoi paralleli. La parte di fondo, liscia e sgombra, diventerà ai momenti indicati trasparente, e si vedrà allora di là, come in sogno, prima un cielo d’aurora, corso da nuvole bianche; poi la falda della montagna in dolce pendio, d’un tenerissimo verde, con alberi attorno a una vasca ovale; infine (ma questo di poi, durante la seguente prova generale della «Favola del figlio cambiato») una bella marina col porto e la torre del faro. L’interno dello stanzone è occupato in apparenza dalle più strambe masserizie, mobili che non sono mobili ma grossi giocattoli sciupati e impolverati; tutto però sarà invece preparato e predisposto per comporre a un comando in un batter d’occhio le scene della «Favola del figlio cambiato». Si vedranno inoltre strumenti musicali, un pianoforte, un trombone, un tamburo e cinque colossali birilli con facce umane per capocchie. E, posati goffamente sulle sedie, molti fantocci: tre marinai, due sgualdrinelle, un vecchietto in finanziera e capelluto, un’arcigna vivandiera.

       Al levarsi della tela la scena apparirà rischiarata, non si sa come né donde, da una luce innaturale. I fantocci, posati sulle sedie, assumeranno in questa luce parvenze umane che faranno senso, pur scoprendosi fantocci per l’immobilità delle loro maschere. Dal primo uscio a sinistra entrerà in atto di fuggire Ilse, seguita dal Conte che cercherà di trattenerla.           

       ILSE. No, voglio andar fuori, ti dico. (Fermandosi d’un tratto sorpresa e quasi spaventata.) Dove siamo qua?

       IL CONTE (restando anche lui). Uhm! Sarà forse quello che dicevano l’arsenale delle apparizioni.

       ILSE. E questa luce? Di dove viene?

       IL CONTE (indicando i fantocci). Ma guarda quei là. Sono fantocci?

       ILSE. Pajono veri –

       IL CONTE. – già, e che facciano finta di non vederci. Ma oh, guarda, si direbbero fatti apposta per noi, per coprire i vóti della Compagnia: «il vecchio del pianofortino», guarda, e quella «La Padrona del Caffè», e i tre «Marinaretti» che non riusciamo mai a trovare.

       ILSE. Li avrà preparati lui.

       IL CONTE. Lui? E che ne sa lui?

       ILSE. Gli ho dato da leggere la Favola.

       IL CONTE. Ah. Allora si spiega. Ma, fantocci, che ce ne facciamo? Non parlano. Io non riesco ancora a capire dove siamo capitati. E in quest’incertezza vorrei almeno sentire che tu –(le s’appressa e fa per toccarla, timido e tenero.)

       ILSE (scattando e sbuffando). Oh Dio, di dove s’uscirà?

       IL CONTE. Ma vorresti davvero andar fuori?

       ILSE. Sì sì, via! via!

       IL CONTE. Via dove?

       ILSE. Non lo so, fuori, all’aperto.

       IL CONTE. Di notte? È notte alta; dormono tutti; vuoi esporti a quest’ora?

       ILSE. Ho orrore su di quel letto.

       IL CONTE. Sì, è orribile, capisco, così alto.

       ILSE. – con quell’imbottita viola, mangiata dalle tarme.

       IL CONTE. – ma, dopo tutto, è un letto.

       ILSE. Vacci a dormir tu: io non posso.

       IL CONTE. E tu?

       ILSE. C’è fuori quella panchina davanti all’entrata.

       IL CONTE. Ma avrai più paura, sola, fuori: su almeno sarai con me.

       ILSE. Ho paura proprio di te, caro, solo di te, lo vuoi capire?

       IL CONTE (restando). Di me? Perché?

       ILSE. Perché ti conosco. E ti vedo. Mi segui come un mendicante.

       IL CONTE. Non dovrei starti vicino?

       ILSE. Ma non così! guardandomi così! Mi sento tutta, non so, come appiccicata; sì, sì, da questa tua mollezza di timidità supplichevole. L’hai negli occhi, nelle mani.

       IL CONTE (mortificato). Perché ti amo…

       ILSE. Grazie caro! Tu hai la specialità di pensarci, sempre nei luoghi dove non dovresti, o quando più mi sento morta. Il meno che posso fare è scapparmene. Mi metterei a gridare come una pazza. Oh! bada che è un’orribile usura la tua.

       IL CONTE. Usura?

       ILSE. Usura. Usura. Ti vuoi riprendere in me tutto quello che hai perduto?

       IL CONTE. Ilse! Come puoi pensare una cosa simile?

       ILSE. Ah! sì! Ora obbligami anche a chiedertene scusa.

       IL CONTE. Io? Ma che dici? Non ho perduto nulla io, non penso d’aver perduto nulla, se ho ancora te. La chiami usura, questa?

       ILSE. Orribile. Insopportabile. Mi cerchi sempre negli occhi. Non posso soffrirlo!

       IL CONTE. Ti sento lontana: ti vorrei richiamare –

       ILSE. – sempre a una cosa –

       IL CONTE (offeso). – no! a quella che fosti un giorno per me –

       ILSE. – ah, un giorno! quando? mi sai dire in quale altra vita? Ma davvero puoi vederla ancora in me quella che fui?

       IL CONTE. E non sei ancora, sempre, la mia Ilse?

       ILSE. Non riconosco più nemmeno la mia voce. Parlo, e la mia voce, non so, quella degli altri, tutti i rumori, li sento come se nell’aria, non so, non so, si fosse fatta una sordità, per cui tutte le parole mi diventano crudeli. Risparmiamele, per carità!

       IL CONTE (dopo una pausa). Dunque è vero.

       ILSE. Che è vero?

       IL CONTE. Che sono solo. Non mi ami più.

       ILSE. Ma come non ti amo più, sciocco, che dici? se non mi so più vedere senza di te? Io ti dico, caro, di non pretenderlo: perché lo sai, Dio mio, lo sai come m’è solo possibile: quando non ci pensi nemmeno. Bisogna sentirlo, caro, senza pensarci. Via, via, sii ragionevole.

       IL CONTE. Eh lo so che non dovrei mai pensare a me.

       ILSE. Dici che vuoi il bene degli altri!

       IL CONTE. Ma il mio anche, qualche volta! Se avessi potuto immaginare…

       ILSE. Io non so più nemmeno rimpiangere nulla.

       IL CONTE. No, dico che il tuo sentimento…

       ILSE. Ma è lo stesso, sempre lo stesso!

       IL CONTE. No, non è vero. Prima…

       ILSE. Sei proprio sicuro di prima? che il mio sentimento sarebbe durato in quelle altre condizioni? Così almeno dura, come può. Ma non vedi dove siamo? È un miracolo se, a toccarci, non ci sentiamo mancare sotto le mani perfino la certezza del nostro stesso corpo.

       IL CONTE. È ben per questo.

       ILSE. Che, per questo?

       IL CONTE. Che vorrei almeno sentirti vicina.

       ILSE. E non sono qua con te?

       IL CONTE. Sarà il momento. Mi sento veramente smarrito. Non so più dove siamo né dove si va.

       ILSE. Non si può più tornare indietro.

       IL CONTE. E non vedo più avanti una via.

       ILSE. Quest’uomo qua dice che inventa la verità…

       IL CONTE. Eh sì, facile, la inventa, lui…

       ILSE. La verità dei sogni, dice, più vera di noi stessi.

       IL CONTE. Altro che sogni!

       ILSE. E davvero non c’è sogno, guarda, più assurdo di questa verità: che noi siamo qua stanotte, e che questo sia vero. Se ci pensi, se ci lasciamo prendere, è la pazzia.

       IL CONTE. Ho paura che ci siamo lasciati prendere già da un pezzo noi. Cammina cammina, ci siamo arrivati. Penso quando scendemmo per l’ultima volta la scala del nostro palazzo, ossequiati. Avevo in braccio la Riri, poverina. Tu non ci pensi mai, io sempre. Con tutto quel pelo bianco di seta!

       ILSE. Se dovessimo pensare a tutto quello che s’è perduto!

       IL CONTE. Quanti lumi e doppieri in quella scala di marmo! Eravamo, scendendo, così lieti e fidenti, che a trovar fuori il freddo, la pioggia e tutta quella bruma nera…

       ILSE (dopo una pausa). Eppure, credi che in fondo noi abbiamo perduto ben poco, anche se materialmente era tanto. Se la ricchezza c’è servita per comperarci questa povertà, non ci dobbiamo avvilire.

       IL CONTE. E lo dici a me, Ilse? Io te l’ho sempre detto: tu non ti devi avvilire!

       ILSE. Sì sì; ora andiamo; tu sei buono; ritorniamo su. Forse ora potrò un po’ riposare. (Escono per lo stesso uscio da cui sono entrati. Appena usciti, i fantocci si chinano, appoggiano le mani sui ginocchi e rompono in una sghignazzata.)

       I FANTOCCI. – Come se le complicano, Dio come se le complicano le cose!

       – E poi finiscono per fare

       – quello che avrebbero fatto naturalmente

       – senza tante complicazioni!

       (Il trombone fa da sé con tre brevi borbottii un commento ironico; il tamburo, da sé, senza bacchette, agitandosi come uno staccio, crepita, in segno d’approvazione e, durante il crepitio, balzano ritti coi loro testoncini sguajati i cinque birilli. Allora i fantocci si ributtano indietro con un’altra sghignazzata sull’«e», se la prima è stata sull’«o». Cessano d’un tratto, ricomponendosi negli atteggiamenti di prima, appena l’uscio infondo a destra s’apre ed entra esultante la Sgrida, annunziando):

       LA SGRICIA. L’Angelo Centuno! L’Angelo Centuno! Viene a prendermi con tutta la sua scorta! Eccolo! Eccolo! In ginocchio tutti! In ginocchio! (Al comando, i fantocci s’inginocchiano da sé, mentre la grande parete di fondo s’illumina e diventa trasparente. Si vedranno sfilare, alate, in due file, le anime del Purgatorio informa d’angeli e avranno in mezzo su un cavallo bianco maestoso l’Angelo Centuno. Un coro sommesso di voci bianche accompagnerà la sfilata):

       Con l’armi della pace,

       quando tutto tace,

       fede e carità,

       è Dio che porta ajuto

       a chi sia combattuto,

       a chi ramingo va.

       (Quando la sfilata sta per terminare, la Sgricia si alza per seguirla, uscendo dal secondo uscio a sinistra che rimane aperto dopo la sua uscita. Dietro l’ultima coppia delle anime, man mano che procede, la parete di fondo si va facendo opaca. Dura ancora un poco, sempre più affievolendosi, la musica: e i fantocci a uno a uno si rialzano e si ributtano inerti sulle sedie. Poco dopo dall’uscio rimasto aperto entra di spalle Cromo con aspetti cangianti, come avviene nei sogni: in principio, la sua faccia: poi la maschera dell’«Avventore» e il naso del «Primo Ministro» nella «Favola del figlio cambiato». Pare che cerchi, pur così indietreggiando per spavento, un filo di suono di cui non riesca più a trovare la provenienza: l’ha udito, ne è certo; gli è parso che provenisse dal pozzo là in fondo al corridoio. Entra intanto dal primo uscio a destra Diamante sotto le vesti della fattucchiera « Vanna Scoma», con la maschera sollevata sul capo; scorge Cromo e lo chiama):

       DIAMANTE. Cromo! (E, appena Cromo si volta): Oh, e che faccia fai?

       CROMO. Io? Che faccia fo? Tu, piuttosto: sei vestita da Vanna Scoma e hai dimenticato d’abbassarti la maschera sul volto.

       DIAMANTE. Non mi far ridere: io, da Vanna Scoma? Sei tu invece vestito da «Avventore» e porti intanto il naso del «Primo Ministro». Io sono ancora parata da Dama di Corte e mi sto spogliando; ma sai che temo d’avere inghiottito uno spillo?

       CROMO. Inghiottito? È grave!

       DIAMANTE (indicando la gola). Me lo sento qua!

       CROMO. Ma scusa, ti credi davvero vestita ancora da Dama di Corte?

       DIAMANTE. Mi sto spogliando, ti dico; e appunto, spogliandomi…

       CROMO. Ma che spogliandoti, guardati addosso, tu sei vestita da «Vanna Scoma»! (E come quella china il capo per guardarsi l’abito, subito con una ditata abbassandole sul volto anche la maschera): E questa è la maschera!

       DIAMANTE (portandosi una mano alla gola). Oh Dio, non posso più parlare!

       CROMO. Per lo spillo? Ma sei proprio sicura d’averlo inghiottito?

       DIAMANTE. L’ho qua! qua!

       CROMO. Lo tenevi tra i denti nello spogliarti?

       DIAMANTE. Ma no! Mi pare che l’abbia inghiottito proprio ora. E ho anzi il dubbio che fossero due.

       CROMO. Spilli?

       DIAMANTE. Spilli! Spilli! Sebbene l’altro, io non so… l’ho forse sognato! O che sia stato prima del sogno? Il fatto è che me lo sento qua.

       CROMO. Ci sono: tu l’avrai sognato per questo: che ti senti pungere la gola. Scommetto che hai le tonsille infiammate, con qualche puntina bianca.

       DIAMANTE. Può darsi. L’umido, lo strapazzo.

       CROMO. Avrai anche la febbre.

       DIAMANTE. Forse.

       CROMO (con lo stesso tono, breve, pietoso). Crepa.

       DIAMANTE (rivoltandosi). Crepa tu!

       CROMO. L’unica è di crepare, cara mia, con la vita che stiamo facendo!

       DIAMANTE. Spilli nella veste, sì, ce n’era uno, tutto arrugginito; ma ricordo d’averlo strappato e buttato via; non me lo son messo tra i denti. E poi, se non son più vestita da Dama di Corte… (Sopraggiunge a precipizio dal primo uscio a sinistra, spiritato, Battaglia.)

       BATTAGLIA. Oh Dio, ho visto! ho visto, ho visto!

       DIAMANTE. Che hai visto?

       BATTAGLIA. Nel muro di là; uno spavento!

       CROMO. Ah se tu dici che «hai visto», allora è vero: anch’io; anch’io: «ho udito»!

       DIAMANTE. Che cosa? Non mi fate spaventare! Ho la febbre!

       CROMO. Là in fondo al corridojo: dove c’è il collo del pozzo, là: una musica! una musica!

       DIAMANTE. Musica?

       CROMO (prendendoli, uno per mano). Ecco, venite.

       DIAMANTE e BATTAGLIA (a un tempo, tirandosi indietro). – Ma no, sei matto! – Che musica?

       CROMO. Bellissima! Venite con me! Musica… che paura avete? (Vanno verso il fondo in punta di piedi.) Ma bisogna trovare il punto giusto. Dev’essere qua. L’ho sentita, c’è poco da dire. Come dall’altro mondo. Viene di fondo a quel pozzo là, vedete? (Indica di là dal secondo uscio a sinistra.)

       DIAMANTE. Ma che musica?

       CROMO. Un concerto di paradiso. Ecco, aspettate. Prima era così: m’allontanavo e non lo sentivo più; mi accostavo troppo e non lo sentivo più; poi, tutt’a un tratto, infilando giusto… Ecco qua, fermi! Sentite? Sentite? (Si ode difatti, ma come in sordina, un blando soavissimo concerto. I tre, in fila, protesi, stanno ad ascoltare in estasi e sgomenti.)

       DIAMANTE. Oh Dio, è vero!

       BATTAGLIA. Non sarà la Sgricia che suona l’organo?

       CROMO. Ma che! No. Non è cosa terrena. E se ci scostiamo d’un passo, ecco, non si sente più. (Difatti, appena si scostano, la musica cessa.)

       DIAMANTE. No, ancora! ancora! sentiamo ancora! (Si rimettono al posto di prima e riodono la musica.)

       CROMO. Ecco: di nuovo. (Stanno un po’ a sentire: poi viene avanti con gli altri due e la musica cessa.)

       BATTAGLIA. Mi sento tutto spalancare dallo spavento.

       CROMO. In questa villa davvero ci si vede e ci si sente.

       BATTAGLIA. Vi dico che io ho visto! Il muro di là! S’apriva!

       DIAMANTE. S’apriva?

       BATTAGLIA. Sì, e spuntava il cielo!

       DIAMANTE. Non era la finestra?

       BATTAGLIA. No: la finestra era di qua: chiusa. Dirimpetto a me, non c’era finestra. E s’è aperto: oh! un chiaro di luna come nessuno ha mai visto l’uguale, dietro un sedile di pietra, lungo, con ciuffi d’erba che si stagliavano fino a poter contare le foglie a una a una. Veniva quella scema vestita di rosso, che sorride e non parla, e si sedeva su quel sedile, e poi veniva tutto smorfioso un nanetto.

       CROMO. – Quaquèo?

       BATTAGLIA. – No, Quaquèo; uno davvero, con la cappa color di tortora fino ai piedi e dondolante come una campana: e su, il testoncino, e la faccia come dipinta col mosto: porgeva alla donna un cofanetto che luccicava tutto; poi scavalcava il sedile come per andarsene, ma si nascondeva là dietro e ogni tanto alzava la testa a spiare, malizioso, se quella cedeva alla tentazione; ma quella – immobile – a capo chino, gli occhi intenti e la bocca sorridente, col cofanetto lì sulle mani. Ma sai che le vedevo perfino i denti, appena, tra le labbra, schiuse al sorriso?

       CROMO. Non l’hai sognata?

       BATTAGLIA. Ma che! Visto, visto come ora sto vedendo voi due!

       DIAMANTE. Oh Dio, Cromo, e allora lo spillo, io, temo d’averlo inghiottito davvero.

       CROMO (colto da un’idea improvvisa). Aspettate, aspettate qua: ho un’idea: vado nella mia camera e torno! (Esce dall’uscio da cui è entrato.)

       DIAMANTE (stordita, a Battaglia). Perché va nella sua camera?

       BATTAGLIA. Non so… Tremo tutto… non ti scostare… Oh, non ti pare che si siano mossi quei fantocci là?

       DIAMANTE. L’hai visti muovere?

       BATTAGLIA. Uno – m’è parso che si sia mosso…

       DIAMANTE. Ma no, stan li posati! (Rientra Cromo, esultante, come un ragazzo in vacanza.)

       CROMO. Ecco! Mi pareva assai! Ne avevo il sospetto! Non siamo noi, qua, veramente, non siamo noi!

       BATTAGLIA. Come non siamo noi?

       CROMO. Allegri! allegri! Non è niente! Fate silenzio. Andate, andate a vedere anche voi nelle vostre camere e vi convincerete!

       DIAMANTE. Di che? Che non siamo noi?

       BATTAGLIA. Che hai visto tu nella tua camera?

       DIAMANTE. E chi siamo allora? cromo. Andate e vedrete! È da ridere! andate! (Appena i due escono dagli usci per cui sono prima entrati, i fantocci si rizzano stirandosi ed esclamano):

       I FANTOCCI. – Uh, finalmente!

       – Manco male che alla fine l’avete capita!

       – Ce n’è voluto!

       – Non se ne poteva più!

       CROMO (stupito dapprima nel vederli rizzare, ma poi ammettendone la ragione). Oh, voi? Ma già, sicuro; è giusto, anche voi, perché no?

       UNO DEI FANTOCCI. Sgranchiamoci un po’ le gambe, vuoi?

       (Due lo pigliano per mano e si mettono in circolo con gli altri. Gli strumenti musicali si rimettono a suonare da sé, uno scordato accompagnamento al girotondo dei fantocci con Cromo: intanto rientrano stralunati il Battaglia e Diamante. Il Battaglia, con l’aria di non saperlo, è vestito da «Sgualdrinella» anche lui con un cencio di cappellino in capo.)

       DIAMANTE. Impazzisco! Ma allora – questo (si tocca il corpo) – non è il mio corpo? Eppure me lo tocco!

       BATTAGLIA. Ti sei vista di là anche tu?

       DIAMANTE (indicando i fantocci). E tutti questi, levati in piedi, oh Dio, dove siamo, io gri…

       CROMO (mettendole subito una mano sulla bocca). Sta’ zitta! Che gridi? Ho trovato anch’io il mio corpo di là, che sta dormendo magnificamente. Noi ci siamo svegliati fuori, capite?

       DIAMANTE. Come fuori? di che?

       CROMO. Fuori di noi! Stiamo sognando! Avete capito? Siamo noi stessi, ma in sogno, fuori del nostro corpo che dorme di là!

       DIAMANTE. E sei sicuro che i nostri corpi di là respirano ancora e non sono morti?

       CROMO. Che morti! Il mio ronfa! Beato come un porco! A pancia all’aria! E il petto, su e giù, come un mantice!

       BATTAGLIA(afflitto, dolendosi). A bocca aperta, il mio che ha dormito sempre come un angiolino!

       UNO DEI FANTOCCI (sghignazzando). Come un angiolino, bello!

       UN ALTRO. Con la bava che gli fila da un lato!

       BATTAGLIA (indicando, spaurito, i fantocci). Ma questo?

       CROMO. È nel sogno, anche loro, non capite? E tu sei diventato una sgualdrinella, non ti vedi? Eccoti un marinaretto, toh, abbraccialo!

       (Lo butta tra le braccia d’uno dei fantocci vestito da marinajo.) Balliamo! balliamo! Nel sogno, allegramente! (Nuova musica degli strumenti. Ballano, ma con mosse strane, angolose, quali possono esser concesse a fantocci che si piegano male. Sopravviene dal primo uscio a sinistra Spizzi, che si fa largo tra le coppie danzanti per passare. Ha in mano una corda.)

       SPIZZI. Largo! Largo! Lasciatemi passare!

       CROMO. Oh, Spizzi! Anche tu! Che hai in mano? Dove vai?

       SPIZZI. Lasciami! Non resisto più! La faccio finita!

       CROMO. Come finita? Con questa corda? (E gli solleva il braccio che regge la corda. Tutti, alla vista di quella corda, scoppiano a ridere. E allora Cromo gli grida): Sciocco, te lo stai sognando, che ti impicchi! T’impicchi in sogno!

       SPIZZI (svincolandosi e correndo verso il secondo uscio a destra, da cui scomparirà). Sì, sì, ora vedrete, se m’impicco in sogno!

       CROMO. Poveretto! L’amore della Contessa!

       (Sopravvengono in grande ansia e sgomenti, dai primi usci di destra e di sinistra, Lumachi e Sacerdote):

       LUMACHI. Oh Dio, Spizzi s’impicca!

       SACERDOTE. Spizzi s’impicca! s’impicca!

       CROMO. Ma no! Ma no! Ve lo state sognando anche voi!

       BATTAGLIA. Spizzi dorme nel suo letto.

       DIAMANTE. E anche voi, se andate a vedervi!

       LUMACHI. Ma che dormire! Eccolo! È là, che s’è impiccato davvero! Guardate!

       (La parete di fondo si rifa trasparente, e si vedrà Spizzi che pende da un albero, impiccato. Tutti levano un urlo di raccapriccio e si precipitano verso il fondo. La scena s’oscura d’un tratto e nel bujo, mentre gli attori come immagini di sogno scompaiono, s’ode la sghignazzata dei fantocci che tornano alle loro seggiole, immobili. Si rifa la luce e, tranne quei fantocci negli atteggiamenti di prima, sulla scena non ci sarà nessuno. Poco dopo, dal primo uscio a sinistra entreranno la Contessa, Cotrone e il Conte.)

       ILSE. L’ho visto: l’ho visto, le dico, appeso a un albero qua dietro la villa!

       COTRONE Ma se non ci son alberi dietro la villa!

       ILSE. Come non ci sono? Attorno a una vasca!

       COTRONE. Nessuna vasca, Contessa; può andare a vedere.

       ILSE (al marito). Possibile? L’hai visto anche tu!

       IL CONTE. Anch’io, sì.

       COTRONE. Stia tranquilla, Contessa. È la villa. Si mette tutta così ogni notte da sé in musica e in sogno. E i sogni, a nostra insaputa, vivono fuori di noi, per come ci riesce di farli, incoerenti. Ci vogliono i poeti per dar coerenza ai sogni. Ecco il signor Spizzi, lo vede? in carne e ossa, che certo è stato il primo a sognare d’essersi impiccato.

       (È entrato infatti dal primo uscio a sinistra Spizzi tutto rannuvolato. Alle parole di Cotrone si scuote, stupito e offeso):

       SPIZZI. Come lo sa?

       COTRONE. Ma lo sappiamo tutti, caro.

       SPIZZI (alla Contessa). Anche tu?

       ILSE. Sì, l’ho sognato anch’io.

       IL CONTE. E anch’io.

       SPIZZI. Tutti? Com’è possibile?

       COTRONE. È chiaro che lei non può aver segreti per nessuno, nemmeno quando sogna. E poi, spiegavo alla Contessa che questa è anche una prerogativa della nostra villa. Sempre, con la luna, tutto comincia a farsi di sogno sulla terra, come se la vita se n’andasse e ne rimanesse una larva malinconica nel ricordo. Escono allora i sogni, e quelli appassionati pigliano qualche volta la risoluzione di passarsi una corda attorno al collo e appendersi a un albero immaginario. Caro giovanotto, ognuno di noi parla, e dopo aver parlato, riconosciamo quasi sempre che è stato invano, e ci riconduciamo disillusi in noi stessi, come un cane di notte alla sua cuccia, dopo aver abbaiato a un’ombra.

       SPIZZI. No, è la dannazione delle parole che vado ripetendo da due anni, col sentimento che ci mise dentro chi le scrisse!

       ILSE. Ma sono rivolte a una madre quelle parole!

       SPIZZI. Grazie, lo so! Ma chi le scrisse, le scrisse per te, e non ti considerava certo una madre!

       COTRONE. Signori miei, a proposito della colpa che lui ora dà alle parole della sua parte, ecco: l’alba è vicina, e io vi promisi jersera che vi avrei comunicato l’idea che m’è venuta per voi: dove potreste andare a rappresentar la vostra «Favola del figlio cambiato»; se proprio non volete rimanere qua con noi. Dunque sappiate che si celebra oggi, con una festa di nozze colossale, l’unione delle due famiglie dette dei giganti della montagna.

       IL CONTE (piccolino e perciò smarrito, alzando un braccio). Giganti?

       COTRONE. Non propriamente giganti, signor Conte, sono detti così, perché gente d’alta e potente corporatura, che stanno sulla montagna che c’è vicina. Io vi propongo di presentarvi a loro. Noi v’accompagneremo. Bisognerà saperli prendere. L’opera a cui si sono messi lassù, l’esercizio continuo della forza, il coraggio che han dovuto farsi contro tutti i rischi e pericoli d’una immane impresa, scavi e fondazioni, deduzioni d’acque per bacini montani, fabbriche, strade, colture agricole, non han soltanto sviluppato enormemente i loro muscoli, li hanno resi naturalmente anche duri di mente e un po’ bestiali. Gonfiati dalla vittoria offrono però facilmente il manico per cui prenderli: l’orgoglio: lisciato a dovere, fa presto a diventar tenero e malleabile. Lasciate fare a me per questo; e voi pensate intanto ai casi vostri. Per me, portarvi sulla montagna alle nozze di Urna di Dòrnio e Lopardo d’Arcifa, non è nulla; chiederemo anche una grossa somma, perché più grossa la chiederemo e più importanza acquisterà ai loro occhi la nostra offerta; ma ora il problema da risolvere è un altro. Come farete voi a rappresentare la Favola?

       SPIZZI. Non hanno un teatro lassù i giganti?

       COTRONE. Non è per il teatro. Un teatro si fa presto a metterlo su dovunque. Io penso al lavoro che volete rappresentare. Ho letto tutta questa notte, fino a poco fa coi miei amici, la vostra «Favola del figlio cambiato». Ohi dico, ci vuole un bel coraggio, signor Conte, a sostenere che avete tutto quanto v’occorre e che non ne lasciate fuori nulla: siete appena otto, e ci vuol tutto un popolo per rappresentarla.

       IL CONTE. Sì, ci manca il comparsame.

       COTRONE. Ma che comparsame, ci vuol altro! Parlano tutti!

       IL CONTE. I personaggi principali ci siamo.

       COTRONE. La difficoltà non è dei personaggi principali. Ciò che importa sopra tutto è la magia; creare, voglio dire, l’attrazione della favola.

       ILSE. Questo sì.

       COTRONE. E come fate a crearla? Vi manca tutto! Un’opera corale… Mi spiego bene adesso, signor Conte, come lei ci abbia rimesso tutto il suo patrimonio. Leggendola, mi son sentito rapire. È fatta proprio per vivere qua, Contessa, in mezzo a noi che crediamo alla realtà dei fantasmi più che a quella dei corpi.

       IL CONTE (accennando ai fantocci sulle seggiole). Abbiamo già visto quei fantocci là preparati…

       COTRONE. Ah sì, di già? Hanno fatto presto. Non sapevo.

       IL CONTE (stordito). Come non lo sapeva? Non li ha preparati lei?

       COTRONE. Io no. Ma è semplice. Man mano che io su leggevo, essi si preparavano qua, da sé.

       ILSE. Da sé? E come?

       COTRONE. Vi ho pur detto che la villa è abitata dagli spiriti, signori miei. Non ve l’ho mica detto per ischerzo. Noi qua non ci stupiamo più di nulla. L’orgoglio umano è veramente imbecille, scusate. Vivono di vita naturale sulla terra, signor Conte, altri esseri di cui nello stato normale noi uomini non possiamo aver percezione, ma solo per difetto nostro, dei cinque nostri limitatissimi sensi. Ecco che, a volte, in condizioni anormali, questi esseri ci si rivelano e ci riempiono di spavento. Sfido: non ne avevamo supposto l’esistenza! Abitanti della terra non umani, signori miei, spiriti della natura, di tutti i generi, che vivono in mezzo a noi, invisibili, nelle rocce, nei boschi, nell’aria, nell’acqua, nel fuoco: lo sapevano bene gli antichi: e il popolo l’ha sempre saputo; lo sappiamo bene noi qua, che siamo in gara con loro e spesso li vinciamo, assoggettandoli a dare ai nostri prodigi, col loro concorso, un senso che essi ignorano o di cui non si curano. Se lei, Contessa, vede ancora la vita dentro i limiti del naturale e del possibile, l’avverto che lei qua non comprenderà mai nulla. Noi siamo fuori di questi limiti, per grazia di Dio. A noi basta immaginare, e subito le immagini si fanno vive da sé. Basta che una cosa sia in noi ben viva, e si rappresenta da sé, per virtù spontanea della sua stessa vita. E il libero avvento d’ogni nascita necessaria. Al più al più, noi agevoliamo con qualche mezzo la nascita. Quei fantocci là, per esempio. Se lo spirito dei personaggi ch’essi rappresentano s’incorpora in loro, lei vedrà quei fantocci muoversi e parlare. E il miracolo vero non sarà mai la rappresentazione, creda, sarà sempre la fantasia del poeta in cui quei personaggi son nati, vivi, così vivi che lei può vederli anche senza che ci siano corporalmente. Tradurli in realtà fittizia sulla scena è ciò che si fa comunemente nei teatri. II vostro ufficio.

       SPIZZI. Ah, lei ci mette allora a paro di quei suoi fantocci là?

       COTRONE. Non a paro no, mi perdoni; un po’ più sotto, amico mio.

       SPIZZI. Anche più sotto?

       COTRONE. Se nei fantocci s’incorpora lo spirito del personaggio, scusi, tanto da farli muovere e parlare…

       SPIZZI. Sarei curioso di veder questo miracolo!

       COTRONE. Ah, lei sarebbe «curioso»? Ma sa, non si vedono per «curiosità» questi miracoli. Bisogna crederci, amico mio, come ci credono i bambini. Il vostro poeta ha immaginato una Madre che crede le sia stato cambiato in fasce il figlio da quelle streghe della notte, streghe del vento, che il popolo chiama «Le Donne». La gente istruita ne ride, si sa; e forse anche voi; e invece io vi dico che ci sono davvero: sissignori, «Le Donne»! Le notti d’inverno tempestose, tante volte noi qua le abbiamo sentite gridare, con voci squarciate, fuggendo col vento, da queste parti. Ecco, volendo le possiamo anche evocare.

       Entrano di notte nelle case

       per la gola dei camini

       come

       un fumo nero.

       Una povera madre, che sa?

       dorme stanca della giornata;

       e quelle, chinate nel bujo,

       allungano le dita sottili…

       ILSE (meravigliata). Ah, lei sa già perfino i versi a memoria?

       COTRONE. Perfino? Ma noi possiamo rappresentarle ora stesso la favola da cima a fondo, Contessa, per fare una prova di tutti quegli elementi di cui avete bisogno voi, non noi. Si provi, Contessa, si provi un momento a vivere la sua parte di Madre, e glielo faccio vedere, per darle un saggio. Quando le fu cambiato il figlio?

       ILSE. Quando, dice, nella favola?

       COTRONE. Eh, già, dove altrimenti?

       ILSE.

       Una notte, mentre dormivo,

       sento un vagito, mi sveglio,

       tasto nel bujo, sul letto, al mio fianco:

       non c’è;

       di dove m’arriva quel pianto?

       da sé,

       in fasce, non poteva

       muoversi il mio bambino –

       COTRONE. E perché si ferma? Vada oltre, domandi, domandi, com’è nel testo: «Non è vero? non è vero?».

       (Non ha finito di proferir la domanda, che la scena, abbujata per un attimo, s’illumina come per un tocco magico, d’una nuova luce d’apparizione, e la Contessa si trova ai due lati, vive, le Due Vicine popolane, come nel primo quadro della «Favola del figlio cambiato», le quali subito rispondono):

       L’UNA.

       Vero! Vero!

       L’ALTRA.

       Bambino di sei mesi,

       come poteva?

       ILSE (le guarda, le ascolta, e si spaventa con Spizzi e il Conte che indietreggiano). Oh Dio, queste?

       SPIZZI. Da dove sono apparse?

       IL CONTE. Com’è possibile?

       COTRONE (gridando alla Contessa). Prosegua! Prosegua! Di che si stupisce? Le ha attratte lei! Non rompa l’incanto e non chieda spiegazioni! Dica: – Quando lo presi…

       ILSE (obbedendo, stordita).

       Quando lo presi

       buttato – là – sotto il letto –

       (dall’alto, non si sa donde, una voce derisoria, potente, grida):

       – Caduto! Caduto! –

       (La Contessa atterrita con gli altri guarda in alto.)

       COTRONE. (subito). Non si smarrisca! È nel testo! prosegua!

       ILSE (lasciandosi prendere dal prodigio).

       Eh, lo so!

       Così dicono: caduto.

       L’UNA.

       Ma come caduto? Può dirlo

       chi non lo vide

       là sotto il letto,

       come fu trovato.

       ILSE.

       Ecco, ecco: ditelo voi

       come fu trovato,

       voi che accorreste

       le prime alle mie grida:

       come fu trovato?

       L’UNA.

       Voltato.

       L’ALTRA.

       Coi piedini

       verso la testata.

       L’UNA.

       Le fasce intatte,

       avvolte strette

       attorno alle gambette.

       L’ALTRA.

       Ed annodate con la cordellina…

       L’UNA.

       Perfette.

       L’ALTRA.

       Dunque preso,

       preso con le mani, d’accanto

       alla madre, e messo per dispetto

       là sotto il letto.

       L’UNA.

       Ma fosse stato dispetto soltanto!

       ILSE.

       Quando lo presi…

       L’UNA.

       Che pianto!

       (Scoppiano dall’interno, tutt’intorno, grandi risa d’incredulità. Le Due Vicine si voltano e gridano, come a pararle):

       Era un altro!

       Non era più quello!

       Lo possiamo giurare!

       (Si rifa un attimo di bujo, riempito ancora dalle risate che d’un subito cessano al ritorno della luce di prima. Si presentano dai varii usci Cromo, Diamante, Battaglia, Lumachi, Sacerdote. Entrando, parlano un po’ tutti insieme.)

       CROMO. Come? Come? Si recita? Si prova?

       DIAMANTE. Io non posso! Mi fa male la gola!

       LUMACHI. Ah, Spizzi, caro! Dio sia lodato!

       BATTAGLIA e SACERDOTE. Cos’è? Cos’è?

       COTRONE. Lei ha recitato, Contessa, con due immagini uscite vive, direttamente, dalla fantasia del suo poeta!

       ILSE. Dove sono andate?

       COTRONE. Sparite!

       CROMO. Di chi parlate?

       BATTAGLIA. Cos’è successo?

       IL CONTE. Ci sono apparse le Due Vicine del primo quadro della Favola!

       DIAMANTE. Apparse? Come apparse!

       IL CONTE. Qua, qua, d’improvviso, e si son messe a recitare con lei (indica la Contessa.)

       CROMO. Noi abbiamo sentito le risate!

       SPIZZI. Son tutti trucchi e combinazioni, signori! Non ci lasciamo abbagliare come allocchi noi stessi che siamo del mestiere!

       COTRONE. Ah no, caro, se dice così, lei non è del mestiere! Lei dà importanza a un’altra cosa che le preme di più! Se fosse del mestiere, si lascerebbe abbagliare, lei stesso per il primo, perché appunto questo è il vero segno che si è del mestiere! Impari dai bambini, le ho detto, che fanno il gioco e poi ci credono e lo vivono come vero!

       SPIZZI. Ma noi non siamo bambini!

       COTRONE. Se siamo stati una volta, bambini possiamo esserlo sempre! E difatti è rimasto anche lei sbalordito, appena quelle due immagini sono apparse qua!

       CROMO. Ma come sono apparse? come sono apparse?

       COTRONE. A tempo! E hanno detto a tempo ciò che dovevano dire; non vi basta? Tutto il resto, come siano apparse e se siano vere o no, non ha nessuna importanza! Io le ho voluto dare un saggio, Contessa, che la sua Favola può vivere soltanto qua; ma lei vuol seguitare a portarla in mezzo agli uomini, e sia! Fuori di qua io però non ho più potere di valermi in suo servizio altro che dei miei compagni, e li metto con me stesso a sua disposizione. (Si ode, a questo punto, potentissimo da fuori, il frastuono della cavalcata dei Giganti della Montagna che scendono al paese per la celebrazione delle nozze di Urna di Dòrnio e Lopardo d’Arcifa, con musiche e grida quasi selvagge. Ne tremano i muri della villa. Irrompono sulla scena eccitatissimi Quaquèo, Doccia, Mara-Mara, La Sgricia, Milordino, Maddalena.)

       QUAQUÈO. Ecco i giganti! Ecco i giganti!

       MILORDINO. Scendono dalla montagna!

       MARA-MARA Tutti a cavallo! Parati a festa!

       QUAQUÈO. Sentite? Sentite? Pajono i re del mondo!

       MILORDINO. Vanno alla chiesa per la consacrazione delle nozze!

       DIAMANTE. Andiamo, andiamo a vedere!

       COTRONE (arrestando con voce imperiosa e potente tutti gli accorrenti dietro l’invito di Diamante). No! Nessuno si muova! Nessuno si faccia vedere, se dobbiamo andar su a proporre la recita! Restiamo qua tutti a concertare la prova!

       IL CONTE (tirandosi a parte la Contessa). Ma tu non hai paura, Ilse? Li senti?

       SPIZZI (atterrito, accostandosi). Tremano i muri!

       CROMO (accostandosi anche lui atterrito). Pare la cavalcata d’un’orda di selvaggi!

       DIAMANTE. Io ho paura! ho paura!

       (Tutti restano ad ascoltare con l’animo sospeso dallo sgomento, mentre le musiche e il frastuono si vanno allontanando.)        

Fine

1937 – I giganti della montagna – Mito incompiuto in tre atti
Premessa
Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo
Quarto momento (ricostruito)

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««« Introduzione al Teatro di Pirandello

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