I tecnicismi cinematografici nella prosa letteraria di Luigi Pirandello

Di Sergio Raffaelli

Pirandello introduce il cinema nel romanzo e vi rende letterariamente efficace la sua presenza innestando nel tessuto narrativo, dove occorra, soprattutto termini specialistici, che preleva senza modificazioni dal linguaggio usuale dei “cinematografisti”.

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Cinema e Pirandello
Pirandello sul set de Il fu Mattia Pascal con Pierre Blanchar e Isa Miranda. Immagine dal Web.

I tecnicismi cinematografici nella prosa letteraria di Luigi Pirandello

Tecnicismi per la letteratura
Il rapporto di Pirandello con il cinema s’è svolto su tre piani: quello dell’invenzione letteraria, quello della riflessione teorica e quello dell’ideazione di pellicole. Gli studiosi li hanno individuati da tempo e hanno curato di metterli in luce specialmente in seguito al memorabile convegno agrigentino del 1977 su “Pirandello e il cinema”. Tuttavia solo da qualche anno un vigoroso rinnovamento storiografico, che in Italia sta sviluppando intense e fruttuose indagini intorno all’epoca lungamente sottovalutata e misconosciuta del cinema muto e dell’avvento del sonoro, permette tanto di conoscere e valutare appieno il pionieristico innesto di certo mondo cinematografico muto in un’opera narrativa di vasto impianto, quanto d’inquadrare saldamente il mobile percorso teorico e l’accidentata collaborazione di Pirandello al cinema parlato nei primordi, che sono testimoniati specialmente dalle interviste nella stampa d’epoca e dalle lettere al figlio Stefano e a Marta Abba. Mentre però i ruoli del Pirandello teorico e soggettista-sceneggiatore risultano ormai delineati e, per lo meno in ambito mondiale, non eccezionali, quello del romanziere d’ispirazione cinematografica appare, con Si gira…, ancora aperto a promettenti ritocchi. Infatti, se si considera questo romanzo con criterio linguistico è possibile notare, alla luce delle ricerche terminologiche in corso, specialmente un uso vario e calibrato del lessico settoriale del cinema, che, finora sottovalutato, rivela uno spessore letterario talora consistente, prestandosi così a migliorare l’interpretazione del testo.

    Pubblicando nel 1915 Si gira… Pirandello diventò il maggiore tra i pionieri della narrativa ispirata dal cinema (ma non il capofila, nemmeno in Italia: infatti fu preceduto nel 1907 dal mediocre Gualtiero Fabbri con Al Cinematografo, [1] e nel 1910 dal modesto Jarro, cioè Giulio Piccini, con Le novelle del Cinematografo [2], e inaugurò con stupefacente precocità la valorizzazione letteraria del proprio vocabolario cinematografico, restando in questo campo, per lo meno in Italia, il maestro insuperato lungo tutto il XX secolo.

 [1] Cfr. Gualtiero Fabbri, Al Cinematografo, a cura di Sergio Raffaelli, Roma, Associazione italiana per le ricerche di storia del cinema, 1993.

 [2] Firenze, Bemporad, 1910.

Può giovare pertanto agli studi su Pirandello, nonché ovviamente a quelli linguistici sul Novecento, compiere qui un supplemento d’indagine terminologica su Si gira… (riedito nel 1925 come Quaderni di Serafino Gubbio operatore), passando in veloce rassegna soprattutto i modi pirandelliani anomali, e per lo più finora negletti, di trattare i tecnicismi cinematografici, quali in particolare il gioco etimologico, la deliberata improprietà terminologica, la variazione sinonimica, la perifrasi sostitutiva e la normalizzazione semantica. [3]

 [3] Si rinvia qui ai Quaderni di Serafino Gubbio operatore, editi in Luigi Pirandello, Tutti i romanzi, a cura di Mario Costanzo, Milano, Mondadori, 1973, pp. 517-735; si contraddistingue il passo citato con una serie di tre numeri riferentisi, nell’ordine, al “quaderno”, al capitolo e, dopo una virgola, alla pagina del volume mondadoriano. Una sistematica rassegna dei termini cinematografici adottati in questo romanzo si trova in Sergio Raffaelli, Il cinema nella lingua di Pirandello, Roma, Bulzoni, 1993; i titoli d’interesse linguistico della bibliografia critica su Pirandello, a cui qui tacitamente si rinvia, si trovano menzionati in questo mio testo; si vedano inoltre tre riedizioni commentate dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore: a cura di Simona Costa, Milano, Mondatori, 1992; a cura di Maria Antonietta Grignani, Milano, Garzanti, 1993, e a cura di Giulio Ferroni, Firenze, Giunti, 1994; si vedano inoltre i contributi raccolti in Enzo Lauretta (a cura di), Pirandello e la lingua. Atti del XXX Convegno internazionale. Agrigento, 1-4 dicembre 1993, Milano, Mursia, 1994.

Parole del mestiere
Pirandello introduce il cinema nel romanzo e vi rende letterariamente efficace la sua presenza innestando nel tessuto narrativo, dove occorra, soprattutto termini specialistici, che preleva senza modificazioni dal linguaggio usuale dei “cinematografisti”. Egli dà prova in tal modo d’una competenza lessicale che regge al confronto con quella dei coevi professionisti della stampa specializzata e che è evidentemente alimentata da una spiccata e forse temperamentale predilezione per il tecnicismo semanticamente inequivocabile e asettico (si ricordi a conferma, nella commedia Ciascuno a suo modo, l’incalzante serie di termini della scherma, gridati all’inizio del II atto a Francesco Savio dal Maestro: «Allarghi, allarghi l’invito! – Attento a questa cavazione! – Bravo! Bella inquartata! – Attento ora: arresto! Opposizione! – La finisca con codesti appelli, e lasci le finte! – Badi alla risposta!». In Si gira… ricorrono quasi cento unità lessicali d’uso cinematografico e provenienti soprattutto dalla fotografia e dal teatro: da agente ‘procacciatore d’affari d’una casa di produzione’ a viraggio ‘tintura della pellicola impressionata’. Tutte appartengono al vocabolario usuale degli addetti ai lavori coevi (e in massima parte anche di quelli odierni); e non può essere altrimenti: infatti la finzione pirandelliana di rappresentare il mondo della realizzazione di film attraverso la figura professionalmente qualificata dell’operatore Serafino Gubbio esige che l’io narrante mostri, per verosimiglianza, un ineccepibile e disinvolto possesso delle parole del mestiere. Ma il personale gusto del Pirandello scrittore ha modo egualmente di affiorare. Nella scelta tra eventuali sinonimi egli mostra per esempio di prediligere la forma decorosamente media, né troppo elevata né popolaresca: così propende per cinematografo (‘cinema’ come mezzo d’espressione e d’intrattenimento) e ignora tanto arte muta quanto cine e persino cinema. Ancora, egli accoglie controvoglia alcuni forestierismi, tra i numerosi già allora in uso, che però tratta palesemente come sostituti ‘bassi’, diremmo sguaiati, di auspicabili sinonimi italiani: basti pensare all’arguta glossa che accompagna la menzione di cachet per ‘attore avventizio’(«chiedo scusa, ma qui tutto ha nome francese o inglese») oppure a certo alone caricaturale connesso a quasi tutte le occorrenze di filmfilm della tigre»: cfr. 7.1,711).

La diffusa presenza di tecnicismi asetticamente referenziali entro un tessuto verbale squisitamente letterario e quindi pregno di risonanze connotative produce – con gusto che si direbbe futuristico – un capillare stillicidio di dissonanze, che diventa lacerante scoppiettio là dove i termini cinematografici si condensano in serrate enumerazioni, come questa: «C’è qui un intero esercito d’uomini e di donne: operatori, tecnici, custodi, addetti alle dinamo e agli altri macchinarii, ai prosciugatoj, all’imbibizione, ai viraggi, alla coloritura, alla perforatura della pellicola, alla legatura dei pezzi» (3.3,571); e quest’altra: «Scenegrafi, macchinisti, apparatori, falegnami, muratori e stuccatori, elettricisti, sarti e sarte, modiste, fioraj, tant’altri operaj addetti alla calzoleria, alla cappelleria, all’armeria, ai magazzini della mobilia antica e moderna, al guardaroba, son tutti affaccendati, ma non sul serio e neppure per giuoco» (3.3,572-73).

Agevolato da una sicura padronanza terminologica e ispirato dall’estro di scrittore, Pirandello interviene talora sulla struttura originaria di certe denominazioni sintagmatiche e le semplifica, riducendole in forma elementare, come richiede e permette lo scambio comunicativo intenso, di stampo per così dire aziendale, tra colleghi di lavoro. A volte infatti Serafino Gubbio, nel parlare con i colleghi e nel raccontare della sua attività professionale, accantona il tecnicismo composito e adotta, secondo l’uso per così dire aziendale dei colleghi di lavoro, una sua variazione semplificata: Casa anziché Casa cinematografica o Casa di cinematografia («Ho reso alla Casa un servizio che frutterà tesori»: 7.4,733); direttore anziché direttore artistico o direttore di scena («Il direttore vi dispone gli attori»: 1.1,521); di solitomacchina (e macchinetta) anziché macchina di presa («disponevo la macchina sul treppiedi»7.4,731); Reparto anziché Reparto del Positivo («Ho lavorato giù, al Reparto» 7.3,724).

Giochi etimologici
Pirandello consegue alcune volte, con perizia di linguista e sensibilità di scrittore, un’efficace valorizzazione letteraria di alcuni tecnicismi cinematografici, ricorrendo con fantasiosa arguzia al gioco etimologico. Due di essi, cioè operatore e comica, sono largamente noti e perciò ben riconoscibili, nonostante certo loro mascheramento formale. Il termine operatore, che nel romanzo ha di solito la normale accezione tecnica, subisce una serie di slittamenti semantici proprio in una delle prime pagine, là dove Serafino si presenta al lettore, spiegando in che cosa consista il proprio mestiere: «Sono operatore. Ma veramente, essere operatore, nel mondo in cui vivo e di cui vivo, non vuol mica dire operare. Io non opero nulla» (1.1,521). Qui infatti operatore si presenta dapprima con il significato schiettamente professionale di ‘fotografo addetto al funzionamento della macchina da presa’; si ripropone poi con il medesimo valore specialistico (ribadito anche dall’identità del costrutto: predicato connesso al verbo essere), ma insieme si sovraccarica dell’accezione normale di ‘colui che fa’, incrinando in tal modo la propria iniziale monoliticità semantica; la successiva forma verbale operare infine mantiene con operatore in ambedue le occorrenze una fuorviante connessione soprattutto fonica, mentre di fatto vale, con sottile e arbitraria distinzione, nel primo caso ‘dar vita a opere’ e nel secondo ‘eseguire compiutamente’.

Un analogo artificio sembra caratterizzare la triplice presenza di comicamente nel romanzo (nonché, con minore evidenza, in altri testi teatrali pirandelliani, come La ragione degli altri e Ma non è una cosa seria). Questa forma avverbiale possiede un duplice valore: quello normale di ‘in maniera ridicola’ e quello inusitato di ‘secondo lo stile della comica’ (qualora però si ammetta, per superare l’ostacolo del suo anomalo meccanismo formativo, che la recente voce sostantivata comica ‘farsa cinematografica’ conservi un residuo valore aggettivale, come sembra possibile, se si considera che il sintagma di provenienza, scena comica, in quel tempo è ancora in uso). Infatti il contesto induce a cogliere con sicurezza in comicamente un sotterraneo legame con la nozione settoriale di ‘farsa cinematografica’. Ecco le due occorrenze di questa forma avverbiale nella memorabile “sequenza” del sorpasso tra la carrozzella di Serafino Gubbio e l’automobile delle giovani attrici, dove appare ribadito l’innaturale movimento all’indietro, rinculando, del veicolo più lento, con un effetto a trucco che è peculiare della comica: «Un lieve sterzo. C’è una carrozzella che corre davanti. – Pò, pòpòòò, pòòò. Che? La tromba dell’automobile la tira indietro? Ma sì! Ecco pare che la faccia proprio andare indietro, comicamente. […] Nella carrozzella ci sono io. M’han veduto scomparire in un attimo, dando indietro comicamente, in fondo al viale; hanno riso di me; a quest’ora sono già arrivate» (3.1,566-67). Ed ecco il terzo esempio, la cui accezione tecnica appare confermata dal suo riferirsi, in una pagina dominata dall’interprete di comiche militari Fantappiè, a un canonico gesto delle comiche appunto militari: «- Illustre senatore! – esclamò Fantappiè, con un balzo, accorrendo e poi piantandosi su l’attenti con la mano levata comicamente al saluto militare» (3.6,588).

Spetta una menzione pure il caustico gioco semantico intorno a prendere: «Si fa alla meglio per dar roba da prendere alla macchina, qua nei cantieri, là nei quattro teatri di posa o nelle piattaforme. Il pubblico, come la macchina, prende tutto» (3.3,573). Infatti qui il primo prendere, che significa ‘riprendere con l’apparecchio cinematografico’ e insieme ‘mangiare’ (suggerito dalla sua connessione con roba), suona riproposto da prende, che ha la duplice sfumatura sarcastica di ‘riprende’ in riferimento alla macchina e di ‘accetta’ (cioè metaforicamente ‘mangia’) in riferimento al pubblico.

Precisazioni
Nel romanzo il gusto spiccato di Pirandello per l’intervento metalinguistico si manifesta anche, in vario modo, nel trattamento dei termini cinematografici. Vi s’incontra una volta la glossa esplicativa per esempio dove Serafino, descritte le operazioni preparatorie alla ripresa, spiega: «Questo si chiama segnare il campo» (1.1,521). E pure una volta ricorre, oltre alla glossa esplicativa di cachet, il puristico commento sull’imperversare dei forestierismi: «Sono (chiedo scusa, ma qui tutto ha nome francese o inglese) sono i cachets avventizii, coloro cioè che vengono a profferirsi, a un bisogno, per comparse» (3.2,569).
Sono invece parecchi gli interventi metalinguistici meno evidenti ma innegabili, che si giovano di artifici grafici; va segnalato in particolare l’impiego del corsivo, che per esempio evidenzia il valore settoriale di prendere (‘riprendere’) in questo passo: «io non faccio altro che prestare i miei occhi alla macchinetta perché possa indicare fin dove arriva a prendere» (1.1,521). E si veda pure la scansione sillabica mediante trattini, nella forma verbale recitare, la quale in verità secondo Pirandello spetta non tanto agli attori del cinema quanto a quelli del teatro: «s’era data a recitare in provincia, re-ci-ta-re, in teatri di prosa» (2.5,560).

Improprietà
Una profonda conoscenza, anche in direzione storica, del vocabolario cinematografico, che all’epoca già era pressoché stabilizzato, permette a Pirandello di fare leva sull’uso improprio di termini cinematografici, per rifinire l’arguta rappresentazione di taluni personaggi. Nel patetico episodio della veglia al moribondo «uomo dal violino» (cfr. 4.3,608-614), dove l’ottocentesco mondo papalino s’incontra con le novità meccaniche del nuovo secolo, egli pone sulla bocca non solo dei personaggi antiquati e stolidi ma anche dei loro progrediti interlocutori, che stanno al gioco, espressioni tecniche approssimative e deliziosamente buffe, come macchinetta di cinematografo, cinematografia, metter sù. Qui il «vecchietto Cesarino», «pensionato del governo pontificio» nonché nostalgico celebratore dell’eccellenza «dei lumi a olio a tre beccucci», e le «tre maestre zitellone» fuori del tempo, si trovano a tu per tu con l’ultramoderno Serafino Gubbio, presentato così dal «professore» anticonformista Simone Pau: «è operatore: gira, disgraziato, la macchinetta d’un cinematografo». E poco oltre il signor Cesarino, rintuzzando per cortesia il proprio istintivo rigorismo, dichiara a Simone: «ma non è mica peccato, professore, girare una macchinetta di cinematografo!» (4.3,612). Orbene, la locuzione girare la/una macchinetta di cinematografo è studiatamente impropria: poiché il sintagma macchinetta di cinematografo (in cui cinematografo può significare soltanto ‘locale di proiezione’) rinvia non all’apparecchio di ripresa, qual è quello professionalmente usato da Serafino, bensì a quello per le proiezioni, la locuzione significa propriamente ‘fare l’operatore di cabina’, cioè compiere una delle poche operazioni cinematografiche di cui anche persone come Cesarino e le tre vecchie maestre possono aver avuto notizia da frequentatori delle proiezioni di film (e forse, chissà, pure intraviste di persona). La responsabilità dell’errore non va però addossata interamente a Cesarino; a fuorviarlo infatti ha contribuito l’espressione usata da Simone nel presentare l’amico («gira, disgraziato, la macchinetta d’un cinematografo»); infatti la designazione sintagmatica rinvia decisamente alla cabina di proiezione, in forza anche dell’articolo indeterminativo (d’un). E qui pare lecito ritenere che il «professore» usi volutamente una denominazione inesatta, allo scopo di farsi capire agevolmente dai suoi sprovveduti ascoltatori. Sulla medesima linea giocosa si pone anche l’adozione sia dell’antiquato termine cinematografia per ‘opera’ sia del desueto costrutto di provenienza teatrale mettere sù per ‘allestire’, dove il «professore» si fa condiscendente interprete della curiosità degli anziani interlocutori: «Scommetto che lei adesso, signor Cesarino, e anche loro, signorine, hanno una gran voglia di sapere dal mio amico come gira la macchinetta e come si mette sù una cinematografia» (4.3,610).

Pirandello contravviene deliberatamente all’abituale culto del tecnicismo inequivocabile, pure dove usa nel romanzo due termini, esecutore e manovratore, che assommano tanto la tradizionale accezione generica quanto quella tecnica di nuovo acquisto. La bivalenza di esecutore traspare dove Serafino riferisce dell’ostilità degli attori nei suoi riguardi: «Essi non se ne rendono conto chiaramente, ma io, con la manovella in mano, sono in realtà per loro una specie d’esecutore» (3.6,584-585). Il termine ha innanzitutto il significato in certa misura registico di ‘regolatore dell’azione da filmare’ (con particolare riferimento all’interpretazione degli attori risulta in uso per lo meno dal 1911). E l’esecutore qui è l’operatore, che mediante la ripresa anima la recitazione degli attori, quasi sia un marionettista (si veda infatti a conferma,: «Potrei farmi l’illusione che, girando la manovella, faccia muover io quegli attori, press’a poco come un sonatore d’organetto»). Inoltre, in questo singolare contesto narrativo, che presenta interpreti ridotti a larvale immagine schermica, esecutore sembra riferirsi, con accezione comune, a chi è adibito a privare i condannati della vita, riverberando così sull’azione degli esanimi attori e sul loro rapporto con l’operatore una luce livida. In maniera analoga è usato manovratore, dove Serafino confessa: «Mi sentii d’un tratto […] ricomposto nel mio ufficio di manovratore impassibile d’una macchinetta di presa» (6.2,690). Infatti nel termine predomina nettamente l’accezione cinematografica (peraltro ormai desueta, dopo il primo decennio del secolo), di ‘addetto a girare la macchina da presa’; tuttavia sembra pure affiorare e manifestarsi quella tradizionale e non benigna di ‘addetto al funzionamento d’un qualsiasi marchingegno’.

Sinonimia generica
Alcune volte Pirandello accantona il tecnicismo e adotta in sua vece una parola tratta dall’umile uso comune, con scelta sempre felice. Egli sostituisce per esempio schermo con i sinonimi generici lenzuolo e tela, dove si propone di svilire le larvali parvenze dell’interprete, costretto attraverso i suoi personaggi a muoversi, anziché entro gli spazi reali del palcoscenico, su grezzi riquadri bidimensionali; per tela cfr. 3.6,585 e 586: «Perché la loro azione, l’azione viva del loro corpo vivo, là, su la tela dei cinematografi, non c’è più»; «scompare in silenzio, d’un tratto, come un’ombra inconsistente, giuoco d’illusione su uno squallido pezzo di tela»; per lenzuolo cfr. 3.6,588 : «Tutti di qua, stampati per un momento su un lenzuolo!». Mostra poi spiccata predilezione per l’impiego sostitutivo di designazioni metaforiche. Così, in particolare, con forte connotazione negativa, di ragno in alternanza a macchina o simili (cfr. dove si parla degli attori in 3.6,586: «Si sentono schiavi anch’essi di questa macchinetta stridula, che pare sul treppiedi a gambe rientranti un grosso ragno in agguato, un ragno che succhia e assorbe la loro realtà viva»). E, ancora, verme solitario per ‘pellicola’ (3.3,,571: «La vita ingojata dalle macchine è lì, in quei vermi solitarii, dico nelle pellicole già avvolte nei telaj»).

Termini taciuti o normalizzati
    
Rientra nella valorizzazione letteraria del lessico cinematografico anche la deliberata rinuncia a chiamare le cose con il proprio nome: la rinuncia cioè a designare talune nozioni con il tecnicismo di loro pertinenza, adottando in sua vece espressioni generiche o comunque semanticamente depauperate, a scapito della perspicuità (analogamente a quanto avviene in ambito onomastico, là dove del violinista senza nome ci si limita a segnalare che ha «un nomignolo schifoso», indicibile: 1.5,533). Nel romanzo non figura mai il sintagma lessicalizzato primo piano, nemmeno là dove due raffigurazioni schermiche di visi in piano ravvicinato sembrano sollecitarne e quasi esigerne l’adozione. Infatti a un certo punto l’interprete Aldo Nuti parla del misto di compiacimento e di disagio, provati scrutandosi e sentendosi scrutato nell’intimo attraverso le fattezze ricalcate del volto, esibite dalla proiezione di un “pezzo” di pellicola: «Quello che mi presenta solo, per un tratto, staccato dal quadro, ingrandito, con un dito così su la bocca, in atto di pensare. Forse dura un po’ troppo… viene troppo avanti la figura… con quegli occhi… Si possono contare i peli delle ciglia. Non mi pareva l’ora che sparisse dallo schermo» (7.3,724). E poco oltre Serafino Gubbio, stizzito, gli replica mentalmente: «Mi domandi forse quanto può durare una pellicola per farmi pensare che tu lasci di te quella tua immagine col dito su la bocca? E credi forse di dover riempire e spaventare tutto il mondo con quella tua immagine ingrandita, nella quale si possono contare i peli delle ciglia?» (7.3,726). Orbene, primo piano, che è tecnicismo di provenienza fotografica e d’uso cinematografico per lo meno dal 1913 (quindi certamente noto a Pirandello, il quale forse conosce anche il meno frequente primissimo piano), qui sembra ripudiato sia per evitare che in una rappresentazione magmatica e palpitante figuri un elemento verbale semanticamente nitido e quindi “rassicurante” sia per esprimere interamente con invadenti circonlocuzioni sostitutive (viene troppo avanti la figura, immagine ingrandita) la vibrazione emotiva dell’attore e del suo partecipe interlocutore.

C’è infine un passo, nella ben nota pagina che celebra sarcasticamente l’avvento della novecentesca civiltà delle macchine e che denuncia in particolare le nefaste risorse dell’apparecchio cinematografico, in cui s’avverte la voluta assenza d’un tecnicismo (fotogramma) e la normalizzazione semantica (cioè il trasparente passaggio dall’accezione specialistica a quella comune) di due altri (pezzo, scatola). Eccolo: «La macchina è fatta per agire, per muoversi, ha bisogno di ingojarsi la nostra anima, di divorar la nostra vita. E come volete che ce le ridiano, l’anima e la vita, in produzione centuplicata e continua, le macchine? Ecco qua: in pezzetti e bocconcini, tutti d’uno stampo, stupidi e precisi, da farne, a metterli sù, uno su l’altro, una piramide che potrebbe arrivare alle stelle. Ma che stelle, no, signori! Non ci credete. Neppure all’altezza d’un palo telegrafico. Un soffio li abbatte e li ròtola giù, e tal altro ingombro, non più dentro ma fuori, ce ne fa, che – Dio, vedete quante scatole, scatolette, scatolone, scatoline? – non sappiamo più dove mettere i piedi, come muovere un passo. Ecco le produzioni dell’anima nostra, le scatolette della nostra vita!» (1.2,523). Qui Pirandello rinuncia ad adottare il termine fotogramma, in uso dai primordi del cinema per designare la nozione di ‘istantanea prodotta in serie continua dalla macchina da presa’, e, in questo contesto animato da una concitazione rappresentativa ed emotiva che sembra non ammettere parole semanticamente algide, ripiega sul succedaneo bocconcino, che oltretutto è consono alla sua concezione antropofagica del rapporto tra interpretazione attorale e macchina da presa (si veda per esempio 3.3,571, dove si parla di «vita ingojata» dalla macchina e sminuzzata «in tanti attimi» inerti d’una serie di fotogrammi).

Per designare poi i segmenti di pellicola di variabile lunghezza su cui figurano i “bocconcini” «tutti d’uno stampo, stupidi e precisi», egli si rivolge al vocabolario settoriale, che offre il termine pezzo, già da tempo radicato nell’uso (si veda per esempio in 3.3,571, «legatura dei pezzi», cioè ‘montaggio delle inquadrature’). Tuttavia la temperie descrittiva ed emotiva del contesto narrativo gli consiglia di sottoporlo a un processo di alterazione, che sostanzialmente “detecnifica” e quindi normalizza la forma derivata (pezzetti): il diminutivo cioè assume una banale accezione comune, pur conservando, in forza del tema cinematografico che concorre a sviluppare, un residuo dell’originario significato specialistico; così la coppia di diminutivi, «pezzetti e bocconcini», evoca una brulicante e fatua visione, entro la quale affiora una congerie ora accatastata ora sparsa di fotogrammi e di segmenti di celluloide. Analogo trattamento subisce scatola (‘contenitore foggiato per accogliere un rotolo di pellicola’). Infatti questo tecnicismo viene per così dire fagocitato da derivati («quante scatole, scatolette, scatolone, scatoline»), che hanno funzione svalutativa e insieme descrittiva (va ricordato che i contenitori delle pellicole erano anche all’epoca di vario formato e di materiale leggero).

     Ora la conoscenza del residuo significato tecnico sia di pezzetti sia della serie derivativa di scatola, permette di percepire in questo preciso punto del romanzo un angoscioso respiro profetico, che non mi risulta finora colto e valutato dagli studiosi (notevole pertanto il fugace accenno di Giancarlo Mazzacurati, nel suo Pirandello nel romanzo europeo). Pirandello si prefigura qui la funesta sorte dell’arte e forse della cultura nel secolo appena iniziato. Egli mette in guardia sull’invadenza incalzante e inarrestabile dell’industria della produzione meccanica d’immagini filmiche, che già toglie fastidiosamente spazio all’espressione artistica e che a lungo andare la soffocherà, cancellando in tal modo un aspetto essenziale della nostra civiltà. Questo sembra il senso complessivo della visione – che direi apocalittica – di pellicole e di contenitori (le «scatolette della nostra vita») che, accumulandosi e dilagando silenziosi e inarrestabili, sembrano ammantare sotto una coltre mortifera l’intero pianeta.
E qui sia concesso di ribadire in appendice l’eccezionale respiro di questa riflessione pirandelliana, chiamando a confronto un’analoga considerazione e un’immagine equivalente di Guido Gozzano, che nel saggio Il nastro di celluloide e i serpi di Laocoonte, quasi coevo («La Donna», 5 maggio 1916) raffigura il rapporto fra arte e cinematografo in forma preoccupata sì, ma non catastrofica, evocando un Laocoonte (l’arte) che è avvinghiato da pellicole (l’industria del cinema) e che rischia di soccombere:

«Siamo giunti a considerazioni molto lontane dall’arte. E ho parlato del nastro di celluloide nel più ottimista dei modi. Anche per illudermi un po’; che il nastro senza fine ci avvolga di giorno in giorno come i serpi favolosi di Laocoonte, lo sentiamo tutti, e ci consultiamo l’un l’altro, non senza inquietudine, domandandoci come, dove si andrà a finire, e se l’equilibrio non sarà rotto, se la giustizia e le ragioni dell’arte, salve per ora, ma già messe a dura prova, non verranno un giorno sopraffatte e conculcate» (cfr. Guido Gozzano, Poesie e Prose, a cura di Alberto De Marchi, Milano, Garzanti, 1961, p. 1173-74).

Sergio Raffaelli

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