Pirandello e Artaud. Una nota

Di Franco Ruffini

Compito dell’attore, per Artaud, era annullare la resistenza, l’opacità, allo “spettacolo dell’anima”. Questa trasparenza veniva ricercata, da un lato potenziando la spinta interiore attraverso la verità dei sentimenti, e dall’altro lato assottigliando la materia corporea con il rigore della tecnica.

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Pirandello e Artaud
Antonin Artaud (1896 – 1948)

Pirandello e Artaud. Una nota

In La passione teatrale. Studi per Alessandro d’Amico, a cura di Alessandro Tinterri, Roma Bulzoni, 1997;
ora in Per piacere. Itinerari intorno al valore del teatro, Roma, Bulzoni, 2001, pp. 69-76].

da Cultura teatrale

Nel n° 24 de La Criée, del maggio 1923, esce la recensione di Antonin Artaud ai Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello. La commedia era andata in scena il 10 aprile alla Comédie des Champs-Elysées, con la regia di Georges Pitoeff, che vi aveva anche interpretato il ruolo del Padre. La Figlia era stata Ludmilla Pitoeff e la Madre Marie Kalff (cfr. O. C. II, ed. 1961, pp. 180-82). È la prima recensione importante di Artaud, ed è anche la sua prima impressione di teatro.
         La recensione ai Sei personaggi ha la stessa profondità di quella allo spettacolo dei Balinesi, del 1931. Sicuramente in senso metrico: si sente, alla lettura, che l’impressione da cui prende origine ha affondato ben al di sotto della pelle.
          Non altrettanto profonda può apparire in senso concettuale. Parte secca – “Al principio la vita continua” – e prosegue con la descrizione della scena che si presenta agli spettatori. Niente sipario, la sala come un grande palcoscenico, gli Attori impegnati nelle faccende d’una prova e, all’improvviso, l’apparizione dei sei Personaggi che sbarcano dall’ascensore del teatro.
          “Ora questi Sei personaggi chiedono di vivere. Vogliono essere immessi in un dramma”. Echi da Pirandello, con variazioni sul tema del rapporto realtà vita. I Personaggi – concorda Artaud – sono vivi nella realtà, gli Attori lo sono solo nella vita; e dunque la vita dei Personaggi è di un livello superiore rispetto a quella degli Attori. “Generati dallo spirito – proclamano – la nostra legge è di vivere senza fine, ma ancora incompiuti”.
          Niente di inedito. Conclude Artaud: “Eppure questi Sei personaggi, sono ancora degli attori ad incarnarli! Si pone in questo modo tutto il problema del teatro”. Scena finale, con i Personaggi come spettri che spariscono nell’ascensore dal quale erano arrivati. La Figliastra e la Madre sono state “bellissime ma ancora rimaste umane, voglio dire di carne ed ossa, in una parola attrici. L’una ingenua e l’altra madre, e molto concrete; ma era vita, non spirito”. Il Padre, solo lui è riuscito ad offrire una “maschera e gesti da visione”.
          Alessandro d’Amico dice che “Artaud discorse sulla natura del teatro” (Notizia a “Sei personaggi in cerca d’autore”, in L. Pirandello, Maschere nude, vol. II, Milano, Mondadori, 1993). Vero. Ma “natura del teatro” in che senso? Messa per disteso, questa domanda chiede se il discorso di Artaud sulla natura del teatro riproponesse in generale i luoghi della problematica di Pirandello, o se invece andasse a trovare nei Sei personaggi qualcosa più nel profondo.

L’attore trasparente
Il 21 marzo 1923, va in scena al Teatro dell’Atelier di Charles Dullin Huon de Bordeaux, di Alexandre Arnoux, con Artaud nel personaggio di Carlomagno. È un ruolo “che mi calza a pennello”, aveva dichiarato all’inizio delle prove. “È un vecchio re allucinato, piagnucoloso, tonitruante, odioso e perseguitato. È la prima volta che trovo un ruolo adatto ai miei mezzi” (O. C. III, ed. 1978, p. 103).
          Malgrado premesse tanto incoraggianti, inaspettatamente tutto precipita. Il 31 marzo la parte viene tolta ad Artaud – a causa delle sue solite intemperanze d’artista – e, dopo un tentativo subito rientrato di affidarla ad un altro attore, la assume lo stesso Dullin. Artaud abbandona l’Atelier. Passa a lavorare alla Comédie des Champs-Elysées, ricoprendo piccoli ruoli sotto la regia di Georges Pitoeff, tra i quali quello del Suggeritore nella ripresa dei Sei personaggi. Siamo al marzo 1924. Staccato dal luogo dell’apprendimento, quel teatro scuola di cui aveva tanto elogiato la funzione, ormai confinato senza prospettive in particine di contorno, Artaud conclude il periodo della sua iniziazione teatrale.
          Sostanzialmente, l’aveva concluso un po’ meno d’un anno prima: nella professione, con il fallimento di Huon de Bordeaux; nella riflessione, con il discorso sulla natura del teatro a commento dei Sei personaggi.
          A livello biografico, quel discorso tirava le fila di un’esperienza da attore. Ricordiamola in sintesi. Dopo un primo estemporaneo contatto con Lugné-Poe nel 1920, Artaud entra nell’Atelier di Charles Dullin, nel 1921. Vi resterà, come detto, fino al marzo del 1923. Interpreta alcuni ruoli con un certo successo – Basilio ne La vita è sogno, Marco Fongi nel Piacere dell’onestà – ma soprattutto si addestra nel lavoro di attore, seguendo le tecniche dell’attore giapponese “che ha portato al parossismo la cultura di tutte le proprie possibilità fisiche e psichiche”, e praticando l’improvvisazione secondo il “metodo dei Russi”, con gli adattamenti introdottivi dallo stesso Dullin.
          Artaud eccelleva in quegli esercizi; vi portava la fantasia e la sincerità del poeta, a detta di Dullin. L’obiettivo era forzare l’attore “a pensare gli impulsi dell’anima invece di rappresentarli” (O. C. II, pp. 171-72), in modo da “interiorizzare la recitazione”. Alla fine “Tutto si svolge nell’anima” (O. C. III, p. 96). L’intonazione, “trovata dal dentro”, era spinta all’esterno “dall’impulso ardente del sentimento, e non ottenuta per imitazione,” (O. C. II, p. 177).
          Compito dell’attore, per Artaud, era annullare la resistenza, l’opacità, allo “spettacolo dell’anima”. Questa trasparenza veniva ricercata, da un lato potenziando la spinta interiore attraverso la verità dei sentimenti, e dall’altro lato assottigliando la materia corporea con il rigore della tecnica.

Ma il riferimento di vita in Artaud, se è indispensabile a rendere concreta la comprensione, però non è sufficiente. Come non lo sono, d’altra parte, i testi scritti. Scrittura e vita sono intrecciate, in Artaud, fin quasi a coincidere.
          I testi sull’Atelier li abbiamo già usati per ricostruire l’iniziazione teatrale di Artaud, sia a livello degli eventi sia a livello degli orientamenti di pensiero. A parte un paio di recensioni di routine, sono gli unici scritti specifici fino al marzo del ’23. Poi c’è la “prima impressione” dei Sei personaggi. Prende avvio una riflessione sul teatro, di orizzonte più vasto e radicale. I primi testi che ne danno testimonianza sono Les dix-huit secondes e L’évolution du decor.
          Les dix-huit secondes è uno scenario cinematografico databile alla prima metà del 1924; non fu realizzato. Artaud vi mise in scena l’“attore trasparente” che aveva immaginato, e cercato di realizzare in se stesso, durante il periodo dell’Atelier. È la storia di un attore affetto dalla “strana malattia” di non riuscire a tradurre in parole e gesti di verità le proprie visioni. Vestito di nero, lo si vede sotto un lampione a gas, di sera, mentre l’orologio che pende dal taschino scandisce il tempo che passa. Dopo diciotto secondi, l’attore in nero si suiciderà con un colpo di pistola. A quel breve intervallo di tempo reale corrispondono una o due ore, durante le quali sullo schermo passano – resi visibili – i suoi pensieri e le sue emozioni (cfr. O. C. III, pp. 9-13).
          Artaud parla in generale, ma pensa a se stesso. Nella ridda di visioni, c’è un re alternativamente gobbo e normale che, con tutta evidenza, è il Carlomagno di Huon de Bordeaux: normale quando ad interpretarlo era stato Artaud, e gobbo – malignamente – quando l’aveva preso in carica Dullin, già incurvato se non proprio ingobbito dai reumatismi che lo tormentavano. La malattia che conduce al suicidio l’attore dello scenario è la stessa contro la quale Artaud aveva opposto la forza di verità dei sentimenti e la forza di rarefazione della disciplina.
          Ora a prospettare una soluzione era il cinema, con la sua capacità di rendere visibile l’invisibile.

Tra vita e teatro
L’évolution du decor apparve in Comoedia il 19 aprile 1924 (cfr. O. C. II, pp. 11-15). È il primo scritto teorico generale sul teatro. Artaud si rivolge ai registi e rimprovera loro di pensare sempre e solo in termini di teatro, nel mettere in scena un testo. Vogliono “riteatralizzare il teatro. È questo il loro nuovo grido mostruoso”. Per Artaud invece il problema è “ritrovare la vita del teatro”: non nel senso di introdurvi la quotidianità ma di farne emergere quel livello di vita – quello statuto di esistenza – che è solo del testo e della sua rappresentazione. Allo scopo, bisognerebbe che “il lato strettamente spettacolo dello spettacolo venisse soppresso. Si andrebbe là non più tanto per vedere, ma per partecipare”.
          Per le messe in scena di Shakespeare propone una specie di “ponte corporeo”, costituito da una persona-personaggio, seduto tra gli spettatori come una comune persona, ma riconoscibile come personaggio per l’abbigliamento particolare. Questo ponte faciliterebbe il distacco dello spettatore dallo “spettacolo dello spettacolo” e reciprocamente, l’ingresso in un autonomo universo mentale. È una sorta di “grado zero” del Personaggio di Pirandello, un Personaggio di Pirandello ridotto a pura funzione.
          Era questo il problema del teatro di cui Artaud parlava nella recensione?
Non credo. O meglio, non credo che lo fosse dal versante dello spettatore al quale il ponte è destinato, quanto dal versante dell’attore che deve costruirlo. Il ponte non è nessuna delle due sponde – la “vita” dell’attore di carne e d’ossa, la “realtà” del personaggio da visione – ma è quel terzo costituito dal transito continuo tra l’una e l’altra sponda.

“Quali tipi di film ama?”, “Quali tipi di film amerebbe che si facessero?”. Su queste due domande si basava l’inchiesta che René Clair propose nel n° 15 di Théâtre et Comoédia illustré, del marzo 1923. Le risposte degli interpellati furono pubblicate nei numeri di aprile e di luglio. Non c’era quella di Artaud, che però una risposta l’aveva scritta (cfr. O. C. III, pp. 63-64).
          Tra aprile e luglio 1923, è precisamente il tempo dei Sei personaggi, dopo Huon de Bordeaux. Un vero spartiacque nella biografia teatrale di Artaud: impensabile che non ne emergesse la traccia. E infatti, nel rispondere alle domande di cinema, Artaud risponde di fatto alla domanda dei Sei personaggi.
          Più che di cinema, il suo intervento si occupa del confronto tra teatro e cinema, un confronto che sarà poi alla base dell’itinerario al teatro della crudeltà. Il cinema, dice Artaud, “reclama soggetti eccessivi e una psicologia minuziosa […] soggetti straordinari, stati d’animo culminanti, un’atmosfera da visione”, cosa che il teatro è incapace di fare. E però quell’atmosfera “da visione” accreditata al cinema è alla lettera quella della “maschera e gesti da visione” del Padre Georges Pitoeff.
          La superiorità del cinema rispetto al teatro deriva dal fatto che il cinema “agisce direttamente sulla materia grigia del cervello”, mentre “il teatro è già un tradimento”. Il tradimento del teatro viene individuato nell’attore. Seguiamo l’argomentazione di Artaud
          “Perché il teatro è già un tradimento”, comincia. E poi: “Ci andiamo molto più per vedere degli attori che non delle opere, in ogni caso sono loro innanzitutto che agiscono su di noi. Al cinema l’attore non è che un segno vivente […] È per questo che non ci pensiamo. Charlot rappresenta Charlot, Pickford rappresenta Pickford, Fairbanks rappresenta Fairbanks. Sono loro il film […]È per questo che non esistono. Niente dunque s’interpone tra 1’opera e noi”.
          Il corsivo è per segnalare il centro della diagnosi di Artaud. Tra lo spettatore e l’opera, in teatro, si interpone la materialità dell’attore; mentre in cinema l’attore è “segno vivente”, e non fa velo all’opera, e dunque al personaggio che all’opera dà vita.
          Rileggiamo ora in controluce il passo centrale della recensione ai Sei personaggi. “ESSI, essi vivono, affermano di essere reali. Ce l’hanno fatto credere. Allora, noi che cosa siamo? Eppure questi Sei personaggi, sono ancora degli attori ad incarnarli! Si pone in questo modo tutto il problema del teatro”.
          Il problema del teatro posto dai Sei personaggi è quello di presentare attori di carne e d’ossa, che però non si devono interporre tra lo spettatore e l’opera. Nel dare al Padre “maschera e gesti da visione”, Georges Pitoeff ha fatto ben più che offrire una buona interpretazione di un particolare personaggio: ha mostrato la soluzione di un problema generale d’attore che, nel momento in cui Artaud se lo formula, è “tutto il problema del teatro”. Essere non solo attore – come la Figliastra e la Madre, belle e dense ma ancora “umane” – né solo personaggio e nemmeno, infine, le due cose insieme, ma di essere “ponte corporeo”, terzo tra le due realtà.
          La contrapposizione tra gli Attori e i Personaggi della “commedia da fare” si presentò ad Artaud come lo scontro tra un teatro, da una parte, che si pone il falso problema di “riteatralizzare il teatro” o di introdurvi la vita quotidiana e, dall’altra parte, un teatro che si confronta con il problema vero di “ritrovare la vita” non nel ma del teatro.
          Lo scontro tra teatri messo in scena dai Sei personaggi Artaud lo vide sotto specie di scontro tra attori: l’attore “malato d’opacità” dei Dix-huit secondes contro l’attore-cinema che sa farsi trasparente all’opera.
          A una tale riduzione del teatro all’attore lo induceva la biografia, vita e scrittura insieme. Ma, davvero, si trattò di una riduzione all’attore? O il centro dei Sei personaggi – la radice profonda del suo essere problema – è proprio un problema d’attore?

Due suggestioni
Pirandello era noto per la foga con cui leggeva le proprie commedie. Non fa meraviglia il resoconto di Dario Niccodemi della lettura dei Sei personaggi agli attori, per la prima rappresentazione del 1921. “Era impossibile seguire quell’impeto o non lo si poteva seguire che fisicamente […] nessuno aveva capito niente. Eravamo sbalorditi, nel caos. La luce si fece, a poco a poco, alle prove innumerevoli”. Ma gli spettatori, per quanto si producessero in prodigi d’attenzione, non ce la facevano a “penetrare nel groviglio di bizzarrie cerebrali di questo potente lavoro (cfr. Notizia a “Sei personaggi”, cit.).
          Ferdinando Taviani scrive che “non sarebbe esagerato dire che Luigi Almirante capì meglio di Luigi Pirandello la lezione dei Sei personaggi (Uomini di scena, uomini di libro, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 70). Aveva detto Almirante, l’interprete del Padre: “In Sei personaggi lui [Pirandello] dà una lezione a tutti: vuole dimostrare che senza niente si può fare dell’arte. Questo è lo scopo dei Personaggi. Se tu cominci a fare della fantasia, allora è finito… Allora ci vuole il regista. Ci vogliono le luci. Ci vuole il coreografo. Ci vogliono vestiti curiosi”.
          Paradossalmente, Taviani mette Pirandello con gli spettatori sconcertati, e gli contrappone l’attore “che ha capito”. Certo è che nella scelta fisica della “povertà”, da parte di Almirante, c’è un ritrarsi dalla presenza materiale d’attore: non verso l’astrazione del personaggio ma, programmaticamente, verso la trasparenza all’opera.
          Nella risposta di Artaud all’inchiesta di Clair, compare la prima menzione specifica della crudeltà. Dice Artaud che “al cinema siamo tutti [ ] – e crudeli”. Si vorrebbe capire più di quanto non consenta il contesto, ma la lacuna prima di “e crudeli” pare messa apposta per impedirlo. Comunque, ricordiamo che in quel testo Artaud assimilava al cinema il teatro in cui l’attore riesca ad essere come uno dei Personaggi di Pirandello.
          Il riferimento a Pirandello ricompare nel primo documento sul teatro della crudeltà. È un progetto di lettera a René Daumal, del 14 luglio 1931 (cfr. O. C. III, pp. 214-17). Artaud vi rimette a confronto teatro e cinema. Solo che adesso le parti si sono invertite. Entrato in possesso della parola, il cinema “arte di immagini” è diventato “un succedaneo del teatro parlato”. Ma il teatro parlato non trionfa certo. Il quadro che ne offre Artaud è desolante, con l’unica eccezione dei “capolavori di Pirandello”. La lettera si chiude con questa profezia: “C’è spazio adesso per un teatro che [ ]”.
          Ancora un vuoto. Con la sapienza del dopo, possiamo azzardarci a riempirlo con “sia crudele”. C’è spazio adesso per un teatro che sia crudele.
          Una via fisica, d’attore, alla comprensione dei Sei personaggi. Teatro della crudeltà di fronte ai capolavori (al capolavoro) di Pirandello. Le suggestioni sono domande.

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